Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (2/3)

L’incolore Tazaki Tsukuru.
Colourless Tsukuru Tazaki.
色彩を持たない多崎つくる.

È questa la prima parte del titolo del nuovo libro di Murakami Haruki.
Ma dopo c’è un “と” che è l’inglese “and” e il nostro “e”. E cosa?

e gli anni del suo pellegrinaggio
And His Years of Pilgrimage
と巡礼の年

 
  Gli anni del suo pellegrinaggio sono sedici per la precisione finchè nella vita dell’insicuro, del vuoto, dell’incolore Tsukuru entra Sara e lui, per la prima volta, vuole che questa donna resti nei suoi giorni. Un desiderio che non ha precedenti e per questo tanto più prezioso.

Lei avverte in lui quel grumo di irrisolto e con la schiettezza di una donna più matura lo convince ad affrontare il suo passato. Non andranno più a letto finchè Tsukuru non farà il primo decisivo passo per sciogliere quei nodi. Finchè non andrà ad incontrare i suoi amici di Nagoya, farà loro domande, e non scoprirà i perchè, i come e i cosa di quel rifiuto che lo ha cambiato per sempre.
Quasi tutto si saprà. Il resto si potrà dolorosamente intuire. Lo farà lui, Tsukuru, e lo farà anche il lettore a cui Murakami non è avvezzo a spiegare mai ogni cosa.

Tutto combacia perfettamente in questo libro. 「無駄がない」 “non c’è nulla di superfluo“: un’espressione che ricorre spesso qui come anche nei romanzi di Ogawa Yoko. Murakami sembra ricamare l’essenziale, un’architettura in cui tutto ciò che c’è è necessario. E così anche la seconda parte del titolo fa riferimento al leitmotiv del romanzo all’interno del quale, come sempre capita nei romanzi di Murakami, vi sono anche molte note e pentagrammi.

Scorre un particolare sottofondo musicale: è Liszt e “Gli anni del pellegrinaggiosono il titolo di un’opera per piano di ventisei brani divisa in tre parti corrispondenti ciascuna alle fasi dei viaggi del musicista compiuti tra il 1835 e il 1839: la Svizzera, l’Italia e poi ancora l’Italia.

Torna nel libro più volte. Una melodia suonata dalle mani di Shiro e tornata nel tempo di Tsukuru perchè Hai la riporterà in forma di cd a casa sua. E rimarrà brano di bellezza, ricordo e nostalgia per tutta la durata del romanzo.
“L’incolore Tsukuru e gli anni del suo pellegrinaggio” è un’opera attraverso cui l’erotismo (eterosessuale e omosessuale) passa serpentino. Vi si raccontano le prime esperienze sessuali, sogni erotici di incredibile vividezza, dettagli descritti nudi e crudi. Termini “forti” che Murakami non lesina al lettore ripetendoli con ostinazione, accompagnandovi aggettivi ed avverbi che ne enfatizzano l’intensità.

Murakami Haruki è innanzitutto un fenomeno mediatico prima ancora che letterario. Cameraman di varie reti televisive e giornalisti di testate nazionali sono andati a riprendere ed intervistare i lettori devoti che dalla tarda notte alla prima mattina stavano ordinatamente in fila fuori dalle librerie per acquistare le primissime copie. La famosa libreria di Jimbocho “Sanseido” a Tokyo, per la prima settimana dall’uscita del romanzo, ha mutato il proprio nome in “Libreria Murakami Haruki” omaggiando così lo scrittore.

Egli ha l’indubbio talento di riuscire a creare mondi, a insinuare il dubbio che vi sia una realtà oltre quella da noi quotidianamente percepita, un mondo in cui le regole vigenti siano stravolte o, cosa ancora più destabilizzante, leggermente diseguali. Lo scarto tra esse, la fessura che s’apre tra realtà ed illusione è il luogo prediletto di Murakami Haruki. Negli interstizi di ciò che è spiegabile si insinua l’inspiegabile.

In questo romanzo la dualità del Reale/Altro Reale o Illusione si gioca all’interno dell’individuo, sul suo lato rischiarato dalla luce e quello in ombra. Come le facce della luna, scrive Murakami in una pagina di questo libro. La differenza tra la percezione che si ha di se stessi e quella che gli altri hanno di noi e’ la chiave di lettura dell’incolore Tsukuru che si crede tale ma forse non lo è.

♪ Liszt – Années de pèlerinage. Première année: Suisse, S. 160 [André Laplante]

(fine seconda parte)

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (1/3)

Tazaki Tsukuru. Cognome e nome, nell’ordine che in giapponese mette la famiglia prima della scelta. Suo padre ha destinato a lui queste tre sillabe “tsu-ku-ru” e ne ha fatto un kanji che è proprio quello che significa “costruire, edificare, fabbricare”. 「作」. Un nome che è un presagio.
Tsukuru è affascinato fin da bambino dalle stazioni, sia da quelle delle grandi città che accolgono treni gonfi di gente sia da quelle che collegano piccole località di campagna dove il tempo sfuma pigro tra un transito e un altro. Si siede lì Tsukuru, e resta ore ad osservare il diverso traffico di gente che aspetta, sale, scende e se ne va.

 
  È l’unica cosa che sa fare. Costruire, progettare, risolvere problemi e migliorare quel microcosmo che è la stazione. Tutto il resto sembra sfuggirgli di mano. L’amore, le amicizie, la stessa coscienza di sè.
Ha trentasei anni, è in buona salute, discretamente attraente, è un tipo pulito, non beve e non fuma, ha un lavoro che lo soddisfa, una buona fama nell’ambiente, una casa di proprietà in un bel quartiere di Tokyo. Ciò che ha minato la sua sicurezza e che lo rende l’ombra di se stesso, è un avvenimento accaduto sedici anni prima. Un fatto scioccante che lo ha portato sull’orlo della morte e di cui lui, ancora adesso, non conosce la ragione.

  Negli anni del liceo Tsukuru faceva parte di un gruppo di cinque amici, affiatati ed uniti come capita raramente nella vita. Si erano incontrati ad un campo estivo di volontariato cui, casualmente, avevano aderito solo loro: Tazaki Tsukuru, Akamatsu Kei, Oumi Yoshio, Shirane Yuzuki, Kurono Eri. Tre ragazzi e due ragazze.

I punti in comune tra di loro erano tanti. Erano tutti originari di Nagoya, le loro famiglie erano più o meno benestanti, erano brillanti.
Con il tempo il rapporto tra i cinque si era irrobustito, inspessito, cementificato. Quel circolo privato ed esclusivo divenne per ognuno di loro qualcosa di irrununciabile, una presenza quotidiana che li rendeva l’uno assolutamente indispensabile all’altro. Una sola regola: nessuna relazione sentimentale tra loro.
Finito il liceo solo Tsukuru si allontana da Nagoya per seguire a Tokyo l’università mentre tutti gli altri decidono di restare in città. Gli amici gli mancano ed ogni volta che gli si presenta qualche giorno di vacanza sale sul primo shinkansen e corre a Nagoya per incontrarli.
Fa così anche all’inizio delle vacanze estive del secondo anno di università. Sale con pochi bagagli sullo shinkansen e torna a Nagoya. Appena arrivato chiama come sempre gli amici, uno ad uno, ma chi risponde al telefono – con voce che Tsukuru percepisce crescentemente imbarazzata – gli dice che non sono in casa. Nessuno lo richiama quel giorno, nè il giorno seguente. Prova ad insistere, richiama. Ma, ormai Tsukuru l’ha capito, continuano a farsi negare.
Poi una sera, dopo le otto, arriva una chiamata. È uno di loro che esordisce così:
“Scusa ma vorremmo non chiamassi più a casa nostra”
Silenzio. Imbarazzo. Tsukuru è terrorizzato e perplesso. E quando chiede infine e debolmente il perchè l’amico gli risponde: “Se ci pensi, lo capisci da solo, no?”

Da quel momento, come recita l’incipit del romanzo, Tazaki Tsukuru inizia a vivere pensando ossessivamente alla morte, tocca il limite e dopo sei mesi, per una qualche ragione che gli è ignota, torna a vivere. Riprende peso, ricomincia a mangiare, smette di pensare solo alla propria morte.

Eppure Tsukuru è letteralmente un sopravvissuto, e chi sopravvive perde dell’esistenza la percezione che ha chi, invece, ha avuto la fortuna di essere sempre solo vissuto. Si trascina nei giorni con apatia, torturato dalla sensazione che chiunque entrerà nella sua vita si accorgerà prima o poi di quanto egli sia vuoto e incolore e lo abbandonerà definitivamente e senza prevviso. Terrorizzato a quel pensiero, Tsukuru fatica a imbastire rapporti sociali e amorosi. Avverte costantemente la fine di ogni cosa e sul filo del conscio-inconscio decide di non investire più nei sentimenti.
La sfera onirica insegna a Tsukuru il significato di sentimenti potenti, ingestibili, sentimenti che lui – ferito a morte nell’emotività – non crede neppure d’essere più in grado di poter provare. I sogni, in questo romanzo, sono funzionali al protagonista quanto se non più della vita reale che, scialba, egli conduce suo malgrado.

『色彩を持たない多崎つくると、彼の巡礼の年』 “Colorless Tsukuru Tazaki and His Years of Pilgrimage” ha una copertina piena dei colori che, in modo martellante, vengono fuori nel romanzo a gridare una presenza e soprattutto una mancanza. Incolori sono i giorni ma anche alcuni modi di dire, alcuni visi, alcune persone. Qualcosa a cui manca colore quindi sapore, qualcuno o qualcosa che è monotono, scialbo, vuoto.

I colori in questo nuovo romanzo di Murakami Haruki sono quattro più uno. Principalmente. C’è:
il rosso, Aka (Mister Red) diminutivo di 赤松慶 (Akamatsu Kei);
il blu, Ao (Mister Blu) ovvero 青海悦夫 (Oumi Yoshio);
il bianco, Shiro (Miss White) soprannome di 白根柚木 (Shirane Yuzuki);
il nero, Kuro (Miss Black) diminutivo di 黒埜恵理 (Kurono Eri) .

A parte – e molto dopo – viene il grigio, Hai (Mister Grey) che degli altri quattro non sa e non saprà mai nulla.

Di quel gruppo di amici del liceo, così unico, morboso e irrinunciabile, solo Tazaki Tsukuru non ha il “colore” nel cognome. E così, da un semplice gioco di parole, nasce l’insicurezza. S’allarga, s’ingigantisce. Lui, tagliato fuori per sempre e senza spiegazioni da quel gruppo pieno di tinte, è l’unico senza colore.

L’incolore Tazaki Tsukuru.
Colourless Tsukuru Tazaki.
色彩を持たない多崎つくる.

(fine prima parte recensione)

Parte 2/3
Parte 3/3

♪ リスト/巡礼の年報 第1年「スイス」 4.「泉のほとりで」,S.160/R.10,A159

Jizō o dei ciliegi che vegliano sui bimbi

  È la primavera delle prime volte.

  Per la prima volta salgo sulla Torre di Tokyo e sotto ai piedi si stende a tappeto la città che non rivela e mai rivelerà ad occhio nudo i suoi confini. I capricci della stagione la bagnano di pioggia, la incupiscono di nuvoloni grassi ed incostanti. È la mutevolezza di marzo che si trascina dentro aprile.

  A 360°ecco la città e premere il corpo oltre le balaustre per far combaciare il tondo dell’obiettivo con le vetrate rovinate dal vento.

  Dei tanti semicerchi divisi per distanza dalla linea dell’orizzonte – che, in alcuni punti è mare, ponte e in altri, la maggior parte, riserve di palazzi e agglomerati d’alberi – vi è il tempio scelto dal clan Tokugawa per proteggere la città di Edo dagli spiriti maligni.

  D’una grandezza che oggi, dopo le varie riduzioni, lo rende l’ombra di se stesso. Ma chi nasce nel presente non immagina e non può sapere. E neppure dispiacersi.

  Il tempo consola.

  Il tempio Zojo-ji è circondato adesso da un rosa che si fa sempre più fino, impalpabile. Si inspessisce invece il verde e il marroncino. Sono gli steli che restano, le foglioline che sgorgano senza timidezza dopo il tripudio della fioritura dei ciliegi a fine marzo.

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  Ne ho percorso lo scorso anno a maggio la superficie – con Ryosuke al mio fianco – andando verso la Torre di Tokyo per ammirare le carpe appese alle sue pendici nel Giorno dei Bambini. So perciò, scattando questa fotografia, cosa vi è sotto parte dei corridoi di chiome rosa.

  Sotto i ciliegi riposano decine e decine di Jizō, un sentiero ne è pieno su entrambi i lati, tutti in fila ordinatamente uno accanto all’altro. È un angolo dedicato ai genitori che hanno perso bimbi, agli aborti spontanei, ai piccini nati morti, alle complicazioni che ogni gravidanza comporta, a quelli che hanno accennato pochi passi o pochi anni prima di cadere.

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  Un bavaglino, un copricapo, girandole che soffiano del vento che le investe. Frrrrr, frrrrrr suonano leggere. A volte il movimento rotatorio si fa più vivace, a volte accenna un giro e si placa all’improvviso.

  Su un bavaglino c’è scritto “capo” 社長, su un altro “il migliore del Giappone” 日本一, a volte pupazzetti ne accompagnano il viaggio e stanno accanto al piccolo tondo della testa, alla postura placida della pietra. In vasi fiori di visite antiche o recenti. Strisce che richiamano il nome della madre o quello della famiglia. Dall’alto i caratteri, cadendo verso il basso.

 I ciliegi vegliano su quelle delicate statuine dall’aspetto infantile ed è lieve il tocco dei petali su di loro. Scendono più radi in questa fase, ormai alleggeriti del carico della loro bellezza. Bellezza e tristezza, titolo di un celebre libro di Kawabata.

 E così mentre guardo altri bimbi correre sotto ai ciliegi cercando di intercettare il volo dei petali e di coglierne uno tra i palmi, mentre mi accorgo di quanto sia complesso, di quanta gioia scorra sui loro volti intenti, là d’un tratto capisco infine il simbolismo dei ciliegi per i giapponesi.
L’estrema bellezza e, insieme, la caducità. La straziante brevità della vita.

Il tempo consola?

Elle, pensando a te e a tutte voi, che siete tante

 

♪  ASKA – 晴天を誉めるなら夕暮れを待て