Se non sei disposto a cambiare, non venire in Giappone!

Non ho mai chiesto di condividere un articolo, forse perché ho l’idea che i miei scritti, così come quelli di chiunque, giungano a chi devono arrivare, nel momento esatto in cui essi si rendono necessari.

Eppure, senza maschere né trucco, porgendo tutta la sincerità di cui sono capace, a chi mi presterà cinque minuti del suo tempo, voglio raccontare di un disagio, di un pericolo e insieme di una possibilità che riguarda il Giappone. E porgere una preghiera.

Noto negli ultimi anni a Tokyo e dintorni una abbondanza crescente, impressionante quasi, di turisti, specialmente asiatici ma anche occidentali. Non metto mai in questione le culture nel proprio contesto, ma non posso nascondere il disagio che provo nella mancata cura di questi enormi gruppi di persone che urlano invece di parlare, che scontrano i passanti senza aver cura del prossimo, che arraffano cose di valore come fossero merce da niente, che gettano rifiuti lì dove non è consentito e monopolizzano i luoghi di attrazione.

Ryosuke mi parlava del verbo 「畳む」 /tatamu/ che significa “piegare, ripiegare” ma anche “levare, chiudere”. Il Giappone, insomma, si avvia al proprio esaurimento, al ripiegarsi, al chiudersi. Si tratta di un verbo che si usa in ambito sociologico, e che molti iniziano ad adottare per domandarsi come sistemare, concludere e riordinare un paese in via d’estinzione.

Con il figlio più piccino di nove mesi appeso al marsupio, il piccolo volto esposto davanti a dondolare le gambette e il passeggino a fendere l’aria della stradina che percorro, noto un enorme americano (oppure brasiliano come suggerisce la maglietta?) che getta rifiuti nel cestino preposto alle lattine e bottigliette di plastica. Gli faccio notare con un sorriso che il luogo è sbagliato, mi risponde rabbioso “Lo so!” e continua…

Ricordo con vera vergogna una ragazza, amica di amici, che per non pagare il biglietto della metropolitana, fece la furba saltando i tornelli; credendosi molto spiritosa, in italiano prendeva in giro i giapponesi che le stavano accanto. Non mi toglierò mai di dosso quel maledetto disagio nel non poterla sgridare come avrebbe meritato facessi.

Giorni fa, al caffè, un ragazzo francese chiede alla proprietaria se può riempire la propria bottiglietta di plastica dell’acqua della brocca, quella a disposizione (insieme ai bicchieri) dei clienti. E lei, cosa può dire se non di sì? Ma si domanda una cosa così? Davvero si deve chiedere? L’idea che sia errato non ferma dal domandare?

Oppure noto turisti sedersi in un caffè, come Starbucks, senza ordinare nulla, come se lo spazio fosse gratuito. Oppure chiedere a qualcuno di gettare la spazzatura per loro, affidandola ai gestori di un caffè dove magari si è sostato per breve tempo. Altri baciarsi vistosamente in pubblico, come a “insegnare” ai giapponesi che sono loro ad essere troppo freddi e loro, gli italiani, gli americani, i coreani etc. ad avere ragione. Altri ancora telefonare sul treno, magari subito sotto all’adesivo che segnala che non si fa. Oppure mangiare a bordo di convogli metropolitani, lì dove nessuno lo fa.

Mi disgusta quella percezione soprattutto del “dobbiamo insegnargli come facciamo noi”, questo sentirsi superiori. Sempre. Comunque. Il continuo sospetto, l’accusa in punta di lingua di ottusità, di un eccesso di protocollo. Ma a nessuno viene mai in mente che sia proprio il rispetto di quel laborioso protocollo a rendere affidabili i treni che sfrecciano su fasci di binari e che traghettano milioni di persone ogni giorno, ogni ora in completa scurezza? Che rendono piacevole entrare in un negozio, acquistare o invece non acquistare niente, e uscirne sempre salutati, con un sorriso sulle labbra? Che fanno sì che perdere qualcosa, equivalga praticamente sempre a ritrovarlo?

Bisogna dare fiducia anche quando non comprendiamo il perché di qualcosa. Che a noi scatta subito la rabbia se qualcosa non va come vorremmo e diamo per scontato manchi la buona volontà da parte di chi non fa come vorremmo o ci aspettiamo. Ma ve lo garantisco, in questo paese, la buona volontà c’è. Sempre. Comunque.

E io? Anch’io non sono esente da errori. E ricordo ancora, con autentico imbarazzo, quando ormai quattordici anni fa, durante il mio primo viaggio in Giappone, l’unico da cui abbia mai fatto ritorno in Italia, quando gettai dei rifiuti nel grande secchio fuori da un ristorante ormai chiuso, al ritorno dall’aver sparato fuochi d’artificio nel parco di Inokashira, altra cosa probabilmente proibita.

Ecco, me ne vergogno ancora. E il solo fatto che lo ricordi mi segnala che fin da allora ne percepissi l’errore.

O quando ho incrociato le braccia, in bicicletta, per mostrare tutto il mio dissenso a una donna che – pur francamente eccessiva – mi segnalava la direzione sbagliata di marcia nonostante dovessi girare a un metro soltanto da lì. Perché il punto non sta nell’aver torto o ragione, ma nel non dover convincere il mondo che la si ha.

O ancora il fastidio che mostro ogni volta che mi viene domandato di compilare uno degli infiniti fogli che sono richiesti in farmacia o dal dottore, e magari mi viene da dire loro, ma a cosa diamine serve scrivere tutto se poi te lo devo ripetere a voce?

I giapponesi tendenzialmente non fanno appunti allo straniero o allo sconosciuto: è per evitare lo scontro, per mantenere quel clima di pace e armonia che noi tanto ammiriamo e che pure siamo pronti a giudicare come sbagliato, freddo, sconsolato: “Ma perché non dicono niente? Perché non si arrabbiano con i turisti?”

Il motivo è lo stesso che fa sì che qui non suoni il clacson praticamente nessuno. Solo nel pericolo si interviene. È il comportamento di tutti, proprio quell’evitare di dire sempre la propria e farlo sgridando il prossimo, che conserva l’armonia generale. Il dissenso, se proprio si rende necessario, deve essere mostrato con garbo e delicatezza.

E ora che Ryosuke mi fa questo discorso, ora che capisco il pericolo reale che corre il Giappone – perché io stessa incontro senza sosta questa torva di gente, la noto crescente, chiassosa, sgarbata e insofferente in questa città dall’altissimo profilo civile – ecco che riesco a tenere ancora più sotto controllo il mio temperamento, a non arrabbiarmi, pulisco anche quanto non ho sporcato in prima persona, cerco di sorridere quando posso e l’umore me lo permette, di ignorare quanto davvero non mi sta danneggiando ma solo un poco infastidendo.

E un turista? Come dovrebbe fare? Leggere, ad esempio, prima di partire, documentarsi, farsi guidare da gente che ha la patente per farlo (per inciso: lo sapevate che è illegale fingersi guide in Giappone senza aver studiato e passato uno specifico esame? si sottrae lavoro a chi ha studiato una vita per farlo ed è scorretto esattamente come dichiararsi medici senza aver preso la laurea in medicina o proporsi come giornalisti senza aver passato il concorso nazionale).

E poi bisogna fare come i bambini, guardarsi intorno, adeguarsi al contesto. Cercare nell’intelligenza dell’osservazione la risposta al diverso, all’inadeguatezza che coglie chi non sa come comportarsi.

È come andare a casa di un’amica e fare invece come se si fosse a casa propria: stare discinti, lasciare oggetti dovunque, lordare, fare rumore. È strano come capiamo queste cose solo facendo paragoni con il privato, perché il pubblico per noi vale sempre molto poco e tutti, paradossalmente, possono metterci bocca. E invece il pubblico è definito in Giappone. È la parte più importate di tutte, proprio perché condivisa.

Ci crediamo tanto intelligenti a trovare una terza via ogni volta che ci sono poste due alternative, ma è giusto? Non è forse meglio esercitare il proprio intelletto su altro? Nella comprensione della diversità, ad esempio, nella considerazione che aspetti che tanto lodiamo, come l’onestà, la cortesia, la pulizia, si basino anche su quelle regole che riteniamo scavalcabili, fastidiose?

Ecco, un invito. Godete invece della diversità del contesto, come a trovarvi in un videogioco: abbassate di un poco la voce, scoprirete quanto è bello il sottobosco dei suoni in un treno, in un ristorante; non baciatevi in pubblico vistosamente, trattenetevi e poi, con la tensione che scatena il desiderio, fate l’amore a lungo in albergo; fate la fila, proverete l’emozione di vederla muoversi molto più rapidamente di quanto non credevate.

Ecco vorrei tutti avessero chiara la percezione di quanto importante sia rispettare le regole, di quanto vada preservato questo microcosmo che è il Giappone, il garbo sostanziale, la cura, il popolo stesso che, come diceva Lévi Strauss, è il primo patrimonio del paese.

Basta sorridere! Basta perdonarsi perché in fondo siamo di un’altra cultura! No, no e ancora no! Non è lontanamente tollerabile indulgere sul “tanto…”, perché “tanto non conta” è sbagliato, e conta eccome. Ogni minuscolo gesto. È faticoso, e lo dice una che ci abita da tredici anni in Giappone. Ma è una fatica che vale la pena.

Più l’esempio negativo invaderà il Giappone, più il Giappone, goccia a goccia, con l’avanzare dell’invecchiamento della sua popolazione e del calo demografico, rischierà di mutare. E comunque ho capito negli anni che è anche da come si comportano in Giappone, dai discorsi che fanno, che è possibile saggiare la pasta delle persone.

Ed ecco infine la preghiera. Comportatevi bene in questo paese, siate eventualmente voi a far notare ad altri turisti che stanno sbagliando, date fiducia a questo popolo mite, non credete di avere sempre ragione, non dubitate neppure un momento vi stiano ingannando, perché la possibilità d’esser derubati o raggirati è vicina allo zero.

Sì, comportatevi bene. Rispettate le regole, tutte. Non credetevi più intelligenti di loro nell’infrangerle. Se esistono, un motivo, assai ponderato sicuramente c’è, anche se non lo cogliete o non lo comprendete.
Ricordate che ogni cultura è un puzzle 3D, anche un pezzo apparentemente insignificante è parte delle fondamenta che lo tengono su.

Amatelo invece, traete ispirazione da quello che vi piace di più. E se non siete disposti a scendere a patti con un altro sistema-mondo, rimanete a casa.
Che casa è l’unico luogo dove è giusto imporre la propria ottusità, il proprio egoismo, la propria orrida “autenticità”, il muso duro “perché sincero”. La propria, amata, imbecillità.

Non imponetela ad altri, godetevela a casa.