Cerimonia di fine asilo

Oggi sono inservibile.
“Cerimonia di fine asilo”, nella ritualità giapponese che cura sempre l’inizio e la fine delle cose. Io che piango di una commozione che al principio quasi non capisco, poi la individuo nel tempo che ho perso o che avrei voluto usare insieme di più. Nel sapere Sōsuke emozionato e nel sentirmi inadeguata, sempre, rispetto a ciò che vorrei (non dovrei, vorrei) essere, nonostante lui mi gridi ogni santa mattina «ti amo, ti voglio bene mamma, buona giornata, lavora tanto, ciao mamma» dalla strada, io affacciata alla finestra.
Ma questo giorno, queste emozioni profonde che non si disperdono ma convogliano nel sentimento di affetto che provo per lui, mi hanno fatto capire come una sorta di epifania il tipo d’amore che cerco. Era proprio sotto il mio naso. Perché non c’è possesso, non c’è attesa né gelosia. È questo preciso tipo di amore – concentrato naturalmente solo nel dare – quello che fa per me, per la persona che sono adesso.
Auguri Sōsuke, e congratulazioni piccino mio ♥️

Le 1200 parole per raccontare la pioggia in giapponese

Credo nella complessità. Credo nella disciplina. Credo nelle 1200 parole per dire «pioggia» in giapponese.
🌧️ Sfoglio il dizionario delle parole che in questa lingua raccontano la pioggia 『雨のことば辞典』e mi ripeto qualcosa che per fortuna ho capito presto, ovvero che la fatica è il terreno più fertile al successo.
La cultura è una cosa complicata. Lo è l’amore, lo è avere a che fare con le cose e le persone. So che in ciò che ha scorza e guscio si nasconde spesso il meglio.
☔ Lo descrissi anche in «Tokyo tutto l’anno», l’esatto momento in cui incontrai – prima ancora del Giappone – il giapponese.
«Quando vidi quei segni che si affollavano sullo schermo, scorrendo dall’alto in basso, da destra a sinistra, fu un colpo di fulmine. Per temperamento ho sempre amato la complessità, misurarmi con qualcosa che non accetta di aprirsi al primo incontro.»
Così, anche oggi, accompagnando i bambini oltre la porta, esclamo – Guardate che bello! – e mostro loro il tempo. Pioggia di primavera, lieve.
«Uno dei compiti che mi sono assegnata come madre, è quello di far apprezzare ai bambini giornate cosí, le pozzanghere, l’effetto dell’acqua sulle cose, il rumore diverso dei passi, gli abiti cambiati delle persone, stivali di gomma e impermeabili pieni di colore. Trovo deprimente che della pioggia si percepisca solo il fastidio e mi pare piuttosto un peccato mortale schiacciare la percezione dei bambini, che sarebbe invece naturalmente in grado di tirar fuori il meglio dalla realtà.»

Equinozio di primavera che significa vacanza

Un paese che fa dell’Equinozio di Primavera un giorno di vacanza nazionale è un luogo del cuore per me.
Oggi in Giappone lo è, 春分の日, visto che ieri era domenica.

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⟨A fine mese sarà uno spettacolo immenso quello dei ciliegi che si affacciano languidamente sul fossato dalla parte di Kudanshita.
Lo saranno anche i riflessi delle loro braccia nodose, ingentilite da nuvole appese di petali e pistilli, sul laghetto del parco Inokashira a Kichijōji dove, sulla scia di un entusiasmo che nella ripetizione non si infiacchisce, ho scattato per piú di dieci anni fotografie tutte uguali della primavera.

Col tempo ho tuttavia scoperto angoli meno noti, come in prossimità della stazione di Takaidō sulla linea Inokashira, in cui il paesaggio pare in miniatura rispetto al piú noto Naka-meguro. Se sono solo i ciliegi a interessare, e non invece tutta la cornice umana di struscio, bancarelle profumate di cibo, chiasso di gioia condivisa, i migliori sono senza dubbio questi scorci, piú intimi e godibili.

La parabola è chiara. «I doveri del vento sono pochi, – scriveva Emily Dickinson, – accompagnare sul mare i navigli, | scortare i flutti, presentare marzo, | significare ovunque libertà».

Ed eccolo marzo, s’insedia torturando i ciliegi, rendendo ancora piú fragile questo paesaggio esitante, sempre sbilenco. Precipitare fa parte dell’immaginario dei ciliegi: tutto lo segnala, che niente è destinato a restare e che tutto farà ciclicamente ritorno.
La prima persona singolare sarà sempre diversa. La prima persona plurale – ovvero quella che conta – rimarrà invece per sempre.⟩

da «Tokyo tutto l’anno: Viaggio sentimentale nella grande metropoli», Einaudi editore

Benvenuta primavera~🌸

📷 Scatto di Tōkyō di Hiro Goto @hiro_510 su Instagram

Ciò che non si dona ammuffisce

Ho la assoluta convinzione che ciò che non si dona ammuffisca. Che ciò che non si condivide si perda.
Così accade alle parole, che hanno un loro tempo (e, a seconda del tempo, un diverso significato), così ai sentimenti che vanno spesi, ora, adesso, mentre li si possiede, senza mai cedere al timore di restarne a corto.
Anzi, più ci si regala più ci si crea.
A me accade con la scrittura, con le persone e con la rete.
Risparmiare fotografie, racconti e pensieri che mi paiono belli, magari allo scopo (pure comprensibile) di dilazionarne nel tempo o inserirle altrove, è, secondo me, un errore.
Si affina lo sguardo, invece, a cercarne sempre di nuove. Perché più le si dona, più di avverte l’urgenza di trovarne.
E allora guardo Emilio alla finestra (1) che si proietta sull’orizzonte di Hakodate, e mi dico che certe cose – se non le si cerca – l’occhio comunque non le trova. Prima serve immaginarle, come un figlio, come un progetto complicato. Bisogna sognarle.
Ecco allora ponti di neve che uniscono due giri di scale (2), un ponte elevatoio, forse una scala sospesa nel nulla; e orizzonti di mare che sono territori di pirati e meduse giganti (3).
Ecco le terme cittadine (4), gente che nel bel mezzo di uno snodo di tram e macchine di Hakodate si sfila le scarpe, solleva un po’ la gonna o arrotola i pantaloni, e immerge piedi e gambe nell’acqua termale.
Sì, se certe cose non sei pronto a vederle non le vedi. E se sei avaro nel raccontarle, le perdi. ♥️

Il profumo della neve dell’Hokkaido

Di uno dei tanti perché io adoro la città di Hakodate.

Il profumo della neve vaga per le strade in Hokkaidō, ti si presenta compatta appena apri la finestra. I vetri sono doppi, perché ne apri uno e, dopo lo spazio di un palmo, eccone un altro. Così anche le porte. Il caldo ha due protezioni ed è buffo ma gli abitanti dell’Hokkaidō a Tōkyō hanno freddo. Il riscaldamento qui è esagerato.

Questo profumo di bianco ha un sinonimo nella mia memoria: freschezza, che è il benessere dell’aria.

Prima di partire Francesca mi ha scritto che “ogni viaggio un poco ci cambia”. Non ho replicato ma ho conservato le sue parole. Ho la fortuna di amici che amano come me le parole e sanno il lungo viaggio che esse sono capaci di fare.

Tutto questo bianco. Ripeto i gesti della sveglia, la colazione sempre un po’ sbagliata in albergo, le parole imperfette che si dicono la mattina.
Scendiamo in treno verso ovest e la neve arretra. Il cielo smorza il verde e resta la terra e la pelle degli alberi, la corteccia nuda.

Da sempre l’Hokkaidō mi affascina per la solitudine che ispira, questo tanto che è lo spazio e questo poco che è l’uomo e le cose che ha costruito. Come una casa collegata da infiniti corridoi, come le regge visitate in Europa: quel percorso artificiale che ti portava dalle stanze della regina all’anticamera di uno degli innumerevoli salotti, alle stanze di un aristocratico e soffitti che sognavano cieli e pavimenti che chissà che passi avevano accompagnato.

Francesca aveva ragione, viaggiare cambia. È il come che non so ancora, perché il viaggio è fatto del suo ritorno tanto quanto del sogno che lo precede, e del partire.

E io non ho alcuna fretta di tornare.