kawaii

Cosa mi sorprende ancora del Giappone~

E al volgere dei miei sei anni e mezzo in Giappone cosa ancora mi sorprende?

Fino a un anno fa non ci pensavo così tanto. Avvertivo l’eccezionalità di certe abitudini, di certe scene tokyote che ormai erano divenute per me la “normalità”, solo parlando con gli amici italiani durante una delle mie sporadiche trasferte.
Vivevo la bellezza del mio oggi ma non fotografavo il poliziotto vestito da mascotte (foto 2) che agita la mano davanti al koban di Takadanobaba (centro di polizia di quartiere), non riflettevo sul fatto che anche in tv i presentatori fanno sempre un piccolo inchino prima di iniziare a parlare e, ancora una volta, al momento di congedarsi. Attendevo pazientemente che la schermata dell’ATM passasse oltre senza notare che anche lì due immagini rispettivamente di un uomo e di una donna si inchinavano per ringraziarmi del servizio, scusandosi se necessario.
Non avrei fermato lo sguardo ad Aoyama sulla donna vestita in kimono che alza la mano, srotolando l’ampia manica rossa, per chiamare un taxi (foto 1).

E la mattina, quando l’immondizia va buttata, non avrei avvertito stranezza nel controllare il calendario perchè ad ogni giorno corrisponde un tipo differente di spazzatura da buttare. Avevo smesso di stupirmi di fronte all’incredibile precisione dei treni e degli autobus che se recitano 16.03 sul tabellone puoi star certo che alle 16.03 tu salirai a bordo e arriverai a destinazione esattamente quando prevedevi. E quando, nei giorni di pioggia, il capotreno ricorda ai passeggeri di non dimenticare l’ombrello, non avrei sorriso.
E quando ti si invita per un caffì tu, qui, sai che è per un tè. Perchè se gli italiani dicono “andiamo a prendere un caffe’?” i giapponesi te lo chiedono immergendo l’invito in una tazza di tè, sia che tu beva l’uno o l’altro「お茶でも飲みに行きませんか」.

Non mi sarei sorpresa di ottenere incarichi in università prestigiose senza conoscere nessuno dell’ambiente, senza avere neppure un parente su cui contare o amicizie dall’interno. Forte del mio curriculum ad affrontare ogni concorso e a vincerli tutti. Uno dopo l’altro. Perchè qui vige la meritocrazia.

Del Giappone non mi stupisce più il rispetto, l’indifferenza dosata e distribuita nei confronti dell’aggressività latente di alcuni. Qui non si litiga. Ci si scusa a priori, si blocca la rabbia dell’altro e solo dopo – se necessario – se ne parla.

La lista è ancora così lunga. Il pulsante, nei bagni pubblici, da premere per coprire i rumori imbarazzanti, 1m X 1m di grandezza di quelli privati. I grandi templi ma anche quelli minuscoli incastonati tra due grattacieli o quelli, ancora più minuti, che si trovano persino in cima ai palazzi di Tokyo.

Le divise, i tassisti, gli autisti d’autobus che indossano guanti bianchi. Le portiere del taxi che si aprono e chiudono da sole. L’efficienza, sempre.
Incontrare un atleta di sumo nella metro (foto 4). La fila ordinata e spesso lunghissima di chi attende l’autobus. Anche trenta persone, l’una dietro l’altra. I pacchetti regalo, il modo tutto giapponese di incartare gli oggetti. Le voci stile manga delle donne negli esercizi commerciali. Le grida/frasi di benvenuto all’ingresso di ogni negozio o ristorante. I bimbetti di sei anni che tornano da soli a casa attraversando Tokyo con la loro cartella rigida in spalla e il cappellino sulla testa, quelli, ancora più piccini, portati in giro dalle maestre dell’asilo in immensi carrelli (foto 3). Li guidano fino al parco, per le strade meno affollate, li portano a guardare i treni passare…

Ma poi un anno fa è successo quello che è successo ed ho sentito il bisogno di spiegare, di documentare quello che stava veramente accadendo a Tokyo. E da lì ho aperto questo blog, ho iniziato a portarmi sempre dietro la macchinetta fotografica nella borsa e il mio sguardo ha ripreso a stupirsi, a notare cosa da italiana mi sarebbe sembrato “eccezionale”.

Defamiliarizzazione, così la chiama Shklovsky . Una presa di distanza dalle cose che permette di vederle sotto un’altra, inedita, luce. Rinfrescare lo sguardo e riprendere a vedere tutto ciò che era inghiottito dalla ripetitività del quotidiano.

E dato che è una cosa preziosa, intendo continuarla.
Grazie pertanto a chi mi legge, a chi mi scrive spesso e con affetto. Nel desiderio di mostrare a voi, vedo anch’io. E ogni giorno mi sorprendo.

    r’⌒ヽ
ノ o ○、
(,,,O,,,,)
(´・ω・`)
ノ つつ
⊂、 ノ アラエッサッサ
し’

Del kawaii e del "Diamoci la mano"

Lunedi’ scorso, nell’antica giocattoleria di Ginza, sotto al bancone delle casse, ho trovato attaccato questo poster, stranamente pieno di キャラクター (personaggi) giapponesi, francesi, tedeschi, russi ecc. che si possono trovare praticamente su ogni gadget per bambini e per adulti con il senso del かわいい (kawaii, carino).

Il Giappone e’ famoso per la suddetta filosofia che spesso stupisce e confonde gli stranieri che prendono i giapponesi per eterni bambini, adulti con un che di infantile. Personalmente ho cambiato opinione con il passare degli anni. Prima ne ridevo (ed ogni tanto, lo ammetto, ne rido ancora) ma senza piu’ il peso del giudizio.

Aggiungere qualcosa di grazioso alla vita quotidiana, piccolezze che strappano un sorriso, credo sia assolutamente delizioso. Mi stupisco, piuttosto, di chi considera il mondo degli adulti necessariamente separato da quello dei bambini. Creando una profonda cesura tra l’eta’ adulta e l’infanzia ho l’impressione che ci si perda qualcosa.

Tornando al poster, comunque, quando sono tornata a casa mi sono collegata al sito internet segnalato in basso a destra sull’illustrazione e ho scoperto che, nonostante di solito tra i vari personaggi e mascotte vi sia una forte competizione, per dare coraggio ai bimbi e riportare loro il sorriso dopo la tragedia dell’11 marzo, tutti si sono dati la mano ~~~ Da questo concetto, dell’unione e della collaborazione e’ nata questa iniziativa.
Il titolo del poster, infatti e’ 「てをつなごう」 “Diamoci la mano”.

Sul sito web (http://www.teotsunago.com/) e’ possibile scaricare i poster in varie dimensioni, leggere i messaggi di incoraggiamento e trovare importanti link per le donazioni. Le indicazioni sono sia in giapponese che in inglese ^o^
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E voi, del “kawaii” cosa ne pensate?
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Lunghezze, inviti e tartarughe

Oggi lunghe corse tra l’A. University, la scuola di Koenji, l’I. University e di nuovo Kichijoji. Il martedì inizia presto e finisce tardi, come ogni giorno che si porta dietro la necessità di rinnovarsi e di mutare. I giorni più stanchi, per me, sono quelli che si concludono ad un’ora più tarda… come se sentissi la necessità di trasformarli. E se la cifra distintiva della giornata è stato il lavoro, allora la sera sarà lunga e si porterà dietro attività del tutto differenti.

E così questa sera ci sono i pancakes per Ryosuke, una nuova ricetta che ci rende stupidamente allegri, alberghi di cui perfezionare la prenotazione (perchè checchè se ne dica nessun receptionist, italiano o giapponese, parla davvero il clientese), shinkansen il cui orario è da stabilire, bento (cestini da pranzo) in viaggio da architettare, un nuovo ドラマ (soap opera giapponese) da vedere in tv e questo blog da continuare.

Oggi abbiamo consegnato gli inviti al matrimonio a quattro persone. Ne ho lasciato uno sulla porta dello studio della prof.ssa Ito all’università, un altro l’ho dato a mano a Tokuhira-san. Ryosuke ne ha inviati due per posta. Ed io me lo guardo e me lo riguardo ancora incredula che l’invito alle mie nozze sia stampato in due lingue tanto distanti ma che affianchi due persone, come me e Ryo, oltremodo affini. Sono fili di parole ed un trapezio, due culture così appassionate ed amanti di se stesse da accettare difficilmente compromessi… eppure accade. Ed io mi sono innamorata di questi pezzetti di carta infilati l’un nell’altro ad invitare uno le persone al ricevimento e un altro alla cerimonia.

Mi ha molto colpito il fatto che qui in Giappone, al contrario che in Italia, siano relativamente pochi gli invitati al rito e che, invece, la maggior parte delle persone si riunisca direttamente al party successivo. Eppure a pensarci bene non mi risulta affatto assurdo, anzi.
Il momento più intimo è il primo. La festa, giustamente, viene dopo.

L’invito quindi è di base solo al ricevimento ed esclusivamente per le persone particolarmente vicine, all’interno del cartoncino, verrà incastrato un pezzettino di carta che indica luogo ed orario della cerimonia shintoista. Nella busta inoltre si è soliti inserire una cartolina, già comprensiva di francobollo, con cui gli inviati confermeranno la loro presenza tracciando un cerchio intorno al simbolo di Presenza 出席 o Assenza 欠席. Su quelle cartoline, inoltre, gli invitati trascriveranno il loro indirizzo che servirà agli sposi per inviare, dopo il matrimonio, una lettera di ringraziamento.

Concludo postando una fotografia che ho scattato oggi pomeriggio al supermercato mentre cercavo qualcosa da mangiare per pranzo (T_T) e attendevo l’orario di arrivo dell’autobus.

Quello a sinistra è un panino dolce al melone che affonda le sue radici addirittura nella seconda metà del periodo Meiji e che, in questa panetteria, ha preso la forma di una tartaruga grazie ad un gioco di parole. Ovvero:

kame (亀 tartaruga in giapponese) + meron pan (メロンパン melon pan) = KAMERON カメロン.

Ryosuke, appena ha visto la foto che gli ho mandato sul cellulare, mi ha pregato di comprarlo. Troppo tardi, ero gia’ all’università: della serie il bello e il brutto di avere un sistema di trasporti che funziona.

Usaghino, il nostro coniglietto dal caratterino esuberante, si prende la parola e dice “Uuuuu” a tutti in attesa che vengano postate anche le sue foto su questo blog.