lingua giapponese

旧暦 o delle 72 stagioni del Giappone

  DSC01620 - コピーRyosuke ha nel palmo tutti i kanji del mio mondo. Con l’indice delinea uno dopo l’altro i tratti invisibili di un carattere e lo sospinge verso il suo significato. Una schicchera leggera e la barchetta di carta prende il largo. Verso il mare, verso il senso.

 È 蟷螂 kamakiri di mantide, 紅花 benibana di cartamo, 辣韮 di rakkyō, pesci e verdure che non ho mai sentito nominare in italiano, di cui neppure il dizionario inglese-giapponese ha una voce dedicata. Meraviglia che scaturisce dall’ignoranza che ripara le proprie malefatte. O meglio, le-cose-non-fatte.

  La sera, dopo il lavoro, Ryosuke torna a casa, la Gigia abbaia sull’uscio tutta la sua gioia e dal terrazzino ormai gonfio del buio della notte arrivano le voci intime di questo quartiere pieno di famiglie. Fuori piove, da un giorno all’altro siamo già nel pieno della stagione delle piogge.

  Lui cena, io sistemo la cucina, rispondo a qualche email. E intanto mi racconta. E intanto gli racconto. Poi la tavola viene sparecchiata, il parlare muta senso. Inizia il Nostro Tempo, 「二人きりの時間」.

  Apriamo il Libro delle Stagioni, le dita indugiano sulle pagine già lette, sulle illustrazioni che in pochi tratti di matita ci hanno narrato dei vari tipi di coccinelle che abitano questa terra, dei 16 tipi di verde che si rivelano a fine maggio, di antichi matsuri che sono il testimone della natura e della storia che ogni generazione si passa di mano.

  Quest’uomo, che amo di un sentimento senza sosta, mi spalanca piccoli orizzonti fatti di ricordi di bambino, d’un bambino qualsiasi di una scuola giapponese, di ciò che sua madre gli ha insegnato, della cultura che impregna la lingua e la mentalità del suo paese. L’inesauribile ignoranza che è propria della mia condizione di nata e cresciuta altrove è piacere di aspettare la sera per apprendere un nuovo sentire e farlo un poco mio.

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  Sono quattro le stagioni del mondo. Quarti d’una mela che si fa assaggiare con più o meno compattezza e che, a seconda dello spicchio o mezzo spicchio di pianeta, si riduce a due stagioni soltanto, cambia il ritmo, diventano tre, riproponendo nell’arco dell’anno temperature e colori con infinite variazioni che l’occhio inesperto fatica a registrare.

  Ma l’antico calendario giapponese 旧暦 dice un’altra cosa. Ovvero che ogni cinque giorni subentra una nuova stagione. Il calendario, la vita tutta delle cose elude e insieme affronta il mutamento, riproponendolo costante d’anno in anno. Cambia il tempo, cambiano i colori. Ma di quel cambiamento non ci si accorge quasi mai se non a conti fatti. Rimane un momento appena per contemplarlo ed ha già rimosso la sua scia. Tutto, come sempre, rimane – se rimane – nel ricordo.

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 Eppure la matematica che – si sussurra – non sia solo un’opinione, ha numeri alla mano. Merita fiducia. E infatti, per quanto tempo sia già passato dalla creazione di questo antico calendario, esso ci azzecca sempre.

  Perchè esci di casa e davvero, come racconta la stagione che va dal 10 al 14 maggio 「蚯蚓出ずる」“I lombrichi spuntano dalla terra”, i vermini a terra sono tanti; di quel matsuri di Asakusa che hai letto si parla anche alla tv; sul banco del pesce trovi i colori brillanti di quella creatura di cui hai già scordato il nome; dal fioraio si è aggiunta un’altra tinta.

  DSC02289Settantadue sono le stagioni del Giappone. Ventiquattro periodi sezionati, a loro volta, in altre parti. La primavera che inaugura la festa della vita inizia il 4 di febbraio, l’estate nasce il 5 maggio, l’autunno il 7 agosto, l’inverno il 7 di novembre.

  Settantadue sono le stagioni del Giappone. E hanno nomi pieni di poesia. Dentro vi trovi lucciole – come nella stagione che va dal 10 al 15 di giugno –, il calore del vento (7 – 11 luglio), il cinguettio della cutrettola ballerina 鶺鴒 (12 – 16 settembre) o della cicala crepuscolare 寒蝉 (12 – 16 agosto), i fiori di pesco (10 – 14 marzo).

  L’idea di stagioni che mutano di cinque giorni in cinque giorni è una produzione capitale di inizi. Suona la sveglia, si spalancano gli occhi su una nuova mattina e, con essa, su una stagione uscita or ora dalla zecca. È iniziato un nuovo periodo dell’anno. Tutto intorno a noi, a spingere i sensi, ci si rivela diverso.

  Arriva una sera, la quinta, cala la notte. Finisce una stagione che lava le colpe di quella precedente. Si porta via il negativo, offre la speranza che sarà tutto diverso.

 Vi si percepisce in questo modo antico di vivere il tempo, il piacere d’osservare un giorno che mai è uguale a quello precedente. E nella vita contemporanea, che viaggia veloce e fa del tempo atmosferico solo un vantaggio o uno svantaggio rapportato ai propri piani per il weekend, settantadue stagioni possono servire.
La conoscenza fornisce questo vantaggio: dà risorse per affrontare la banalità  dell’esistenza, il tocco ruvido di certi giorni ammalati di inerzia. La paura di non vedere chiaro un nuovo inizio.

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    Ebbene, ve ne sono 72. E in ognuna sono celate le meraviglie del mondo.

   ♪ Lykke Li – I Follow Rivers

「心の準備」o la preparazione al dolore

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S-chan non piange mai eppure ultimamente lo fa spesso.

È che ha deciso di fidarsi e quando si tenta di aprire il proprio cuore dopo anni di disuso, è come spaccare il guscio di una noce.

A volte si spalanca al centro, nella perfezione benedetta che suggerisce la metà, a volte invece si frantuma in tanti pezzi, da staccare con le dita e con le unghie, uno ad uno. Li si raccoglie pure a terra, perchè schizzano lontani, un panno a scivolare sulla superficie del tavolo di legno.

Il risultato, però, in fondo è sempre lo stesso. Il guscio si schiuderà, si gusterà infine il frutto. Sarà valsa comunque la pena di tentare.

S-chan guarda in basso e piange ancora. Le sue lacrime chiamano i miei palmi e, al di là della cultura del corpo che ci separa, non posso fare a meno di prenderle il volto tra le mani, lì in mezzo a una strada qualunque di Kichijoji, e dirle che andrà tutto bene, che sarà forte, ma che il dolore non lo si può anticipare, che la previsione delle cose negative non ce le risparmia veramente.

È una delle persone importanti della mia vita, un’amica di spessore. Dopo anni di storie da dimenticare sembrava aver trovato finalmente quello giusto. Ma poi da alcune settimane, lui non si fa più sentire. Un messaggio a settimana, promettendo presto una risposta che tarda ad arrivare e forse, forse, non arriverà.

 DSC09081  Immagini quello che sarà. E tenti, tornando ossessivamente al suo pensiero – come un girotondo intorno al mondo – di affrontare la paura di soffrire.

  Accade così di fronte a una cosa bella che lo sai che finirà, a un amore che senti sta scemando, a un lavoro che per contratto non si rinnoverà. A qualcuno che a breve morirà.

  Tutte cose che ti lasciano solo con la sensazione di non aver costruito nulla, d’essere vittima d’un costante punto e a capo, perennemente in balia di nausee e mal di testa lancinanti, perché di fronte a certe cose la mente – per quanto tu la possa stimolare – ti darà sempre le stesse risposte. Un ripetuto non lo so.

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 Che poi quando e se ci sarà veramente questa fine, perdita o abbandono tu invero non lo sai.

 A volte allora è inutile il dolore. Va sprecato. Fa al lupo al lupo e ti rende, per assurdo, meno preparato al dolore che davvero giungerà.

 Perché magari la storia si trasformerà, passerà una fase di dolore per poi farsi nuova vita, per mettersi un abito elegante e magari fare il grande passo. Perchè il contratto invece si rinnoverà o, a distanza di un tempo breve, uno nuovo si presenterà. Perché chi muore vive nei nostri ricordi, ci accompagna come un’eco nei giorni in cui quel qualcuno lo chiameremo a noi.

 Ci si può preparare ad alcune cose. Si può fare quella che i giapponesi chiamano 「心の準備」 /kokoro no junbi/ la preparazione del cuore, letteralmente. Per una lunga attesa,  piccoli fastidi o disservizi,  maldestri scherzi della vita.

Ma non ci si può preparare a tutto.

  Per il dolore, quello che non si scioglie facilmente, che come olio nell’acqua vien sempre in superficie, per quel tipo di passione lì c’è poco da anticipare. A nulla serve immaginare catastrofi, architettare al millimetro il futuro negativo che ci attende, lustrare l’ingresso del nostro edificio di sventure.

 DSC09054 Me lo ha detto una volta una persona dolce, al telefono, mentre sul letto mi arrotolavo in eventuali, futuri, dispiaceri.

“È solo un anticipare” mi ha detto. “Non serve ad anestetizzare il dolore. Perchè tanto cambia poco e il sapere che il dolore sarà enorme non ti aiuta a sentirlo meno forte quando arriverà”.

  E mentre ho tra le mani il volto di S-chan, con gente che ci passa a destra e sinistra a piedi e in bicicletta, ripenso a quelle parole ricevute, assaggiate, masticate, poi ingoiate, digerite e fatte infine mieLe dico allora che bisogna esercitarsi al positivo, che il cuore, per certe cose, non lo si prepara mai.

 DSC09105 Che stasera “messaggiamo” tra di noi. Che domani è invitata a cena, con me, Ryosuke e la Gigia. Che le preparo anche un piatto coreano che le piace tanto. Che poi la accompagnerò a casa in bicicletta e parleremo, parleremo fino a esaurire, per quel giorno, la dose di lacrime e disperazione di cui è capace il suo organismo. Che ci scriveremo anche quella sera, prima di dormire, che il giorno dopo ancora ci vedremo allo Starbucks e parleremo, e parleremo per tanti giorni ancora in attesa di quello che verrà.

  E se il dolore arriverà lo metteremo in bella vista innanzi a noi, guarderemo in dettaglio cosa accade ad una noce quando s’apre.

  E concluderemo che sì, per quanto si possa soffrire, vale sempre la pena  di spaccare il guscio. E, con la cautela che richiede ogni scoperta, guardarci dentro. In un continuo, inevitabile, batticuore.

 ♪ Miura Daichi, “Anchor”(三浦大知 「Anchor」)

におい o dell’odore

  Vi sono in giapponese parole che si pronunciano allo stesso modo ma che, a guardarle bene, rivelano un corpo differente. Gemelli con voce che coincide ed aspetto che non suggerisce parentela.

  In una piccola variazione di intonazione, la carta si fa dio oppure dei, e poi, in un altro salto della corda, si sfa in una ciocca di capelli. È kami, si dice sempre kami, ma allo specchio ogni kanji si vede per quello che è. 「紙」 「神」 「髪」e sciogliendoli, come si fa con i nodi del mare, ne scaturiscono storie differenti.

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  La poesia 「詩」che si fa morte 「死」, che si trasforma in un guerriero 「士」, poi in un figlio 「子」, nel quattro 「四」, nella città 「市」e nel filo 「糸」, nei testi musicali 「詞」, in qualcosa che collega un’altra frase, come una “e”. E tanti tanti altri che però, nell’ascoltarli letti dalle labbra di qualcuno, sono sempre e solo shi.

         植物に水をあげる、話しかける・・・
……..Do l’acqua alle piante e parlo loro…

  Accade anche con l’olfatto e il sostantivo che in questa lingua si tira dietro gli odori. È nioi 「匂い」 ed è nioi 「臭い」, solo che il primo loda ciò che è gradevole, l’altro accusa quello che fa senso.

  DSC09799Ogni volta che la Gigia torna da casa dei miei suoceri me ne accorgo. Che una famiglia nasce da un odore, che quest’ultimo è il cibo che si prepara e che entra a far parte del corpo di ognuno, il detersivo che libera i panni dalle macchie, è l’animale che abita la casa, il sole che batte sulle finestre se vi batte, la vegetazione che allunga rami sul balcone e dentro casa. È l’umidità che s’infila nei muri e ne indebolisce la trama e la salute. È il deodorante per ambienti, è la cucina che magari è un tutt’uno con la sala da pranzo, è la quantità di carta che si spalma sulle pareti, il legno del parquet, è la fragranza del caffè, del tè che si preferisce, è il bollitore del riso, il sugo della pasta.

  Frammenti di un aroma che, come un puzzle, determinano quel particolare odore e nessun altro.

  È l’odore della casa. È l’odore del Giappone.

. Per me il Giappone è lo zampirone che caccia le zanzare e chiama i miei ricordi. Perchè fu in estate che giunsi, per la prima volta, in questo paese. Quando nella stanzetta dell’homestay quello che mi agitava veramente era la lontananza da un ragazzo italiano, dal mio cane Topo, dalla solitudine in cui vivevo già dai sedici anni. Era una stanza con la moquette rosa, senza tende spesse che accoglievano quindi la luce tutta, uno shock per me che ero avvezza più al buio che alla luce. La camera dei signori Kusama, la scrivania di legno chiaro su cui studiavo fitto kanji, la lampada nera che un gatto di pezza cavalcava.

  E poi c’era il daruma di un qualche studente che in quella stanza aveva vissuto prima di me il suo Giappone, un solo occhio disegnato, l’altro probabilmente chiuso per sempre nel biancore.
Sono come le monetine a Fontana di Trevi, gli occhi del daruma. Perchè chi viene, e si innamora, vuole ritornare e spera che non passi troppo tempo.

DSC09792   È strano ma trovo spesso in queste stradine tanto lontane da casa i profumi dell’infanzia, la montagna bella dell’Abruzzo, il mare di Nettuno e quelle sere in spiaggia quando il solo sopraggiungere del buio era un evento.

  Nel minuscolo bagno che in Giappone accoglie il water, accendo una piccola stufetta elettrica, dopo la pausa dell’autunno, e ne esala un odore dell’infanzia, delle ciambelle, del pane del forno a Nettuno, le mattine in cui ci si voleva viziare e si comprava la pizza da farcire con prosciutto e mortadella.

DSC09857  Scopro così che gli odori si assomigliano nella diversità e non nella coincidenza. Perchè il ricordo olfattivo richiede precisione, perfetta adesione. Perchè uno stesso cibo profuma diversamente a seconda di dove lo si mangia, di chi lo prepara, di chi lo mangia. Ci sono troppe incognite nel gioco degli odori. Ma il profumo arriva inaspettato, non lo si architetta così come non si costruiscono i ricordi. Proprio come i due kanji dell’odore, che sono vicini (nioi 「匂い」nioi 「臭い」) , si leggono persino uguali eppure sono il più e meno di qualcosa. Il positivo e il negativo.

  L’odore preferito è quello della pelle di Ryosuke. Mi trasmette pace. E infilo il naso nello spazio tra la maglietta e il suo collo.
Entro in casa e non conosco più il suo odore perchè mi si deve essere posato addosso in questi anni, e non lo potrei più distinguere da me.

E avvicinandomi a qualcuno mi affascina pensare che ognuno si porti dietro l’odore della propria casa e dei propri affetti, forse acre oppure dolciastro, l’odore delle scelte, del vivere da soli, del vivere insieme ad un cane o ad un bambino.

 

  E tra una manciata di giorni sfoglierò “Tokyo Orizzontale”, vi immergerò il naso nella libreria di una città italiana, chissà quale, e già so che quello diventerà un nuovo ricordo.

  Sarà l’odore del mio primo libro, di un romanzo che mi ricorda tante cose, della gioia di raccontare una storia tutta mia e di condividerla con chi la leggerà.

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  Non vedo l’ora.

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♪ The Irrepressibles, In This Shirt

風 o del vento che è un dragone

  Giorni di vento e nuvole immense. Cielo di lapislazzuli e biancore di cotone. Sembra che ti venga incontro questo cielo, così alto e gonfio all’orizzonte.
  Giorni in cui il vento ha fatto tremende piroette e nel tornado in cui si è trasformato ha divelto tetti, devastato campi, spezzato pali della luce nella zona di Saitama e Chiba. I notiziari rincorrono la sua scia, i testimoni oculari raccontano la furia di quel vento che non si avverte soltanto ma si vede, mentre come un fuso di strega s’avviluppa tutto in tondo collegando terra e cielo.
  In giapponese si chiama 竜巻き (tatsumaki) ed è la tromba d’aria, il tornado, un vortice di vento.
  Ma come sempre basta seguire il filo d’una parola, il kanji di cui s’adorna, per immaginare altri mondi. tatsu/ryū è “il drago, il dragone” in giapponese e  巻き maki è “arrotolare, arrotolarsi, avvolgere”.
  Così il tornado suggerisce d’un tratto il volo di un dragone verso l’alto, il corpo avviluppato nelle proprie spire che trascina con sè, nello slancio del suo corpo massiccio e delle sue immense ali, ciò che gli capita intorno. Allora ecco che la segnaletica stradale si scardina da terra, le tegole abbandonano la superficia piana dei tetti, le costruzioni un po’ accrocchiate perdono peso e si spargono nella campagna circostante, sui fili dell’alta tensione. Terribile, terribile. Ma nella parola che rappresenta tutto questo anche tremendamente affascinante.
  Cosa è allora il vento, mi chiedo. Cosa si nasconde dentro alla parola giapponese che ne custodisce il significato?
  È 風 (kaze, fū) e mentre mi torna in mente la gonna che oggi s’agitava scalmanata sulle gambe in bicicletta, una mano a tenerne fermo l’orlo e l’altra a dirigere il manubrio, l’ampia campana dell’abito bianco e nero acquistato una lontana estate newyorkese e indossato in tanti appuntamenti d’amore con Ryosuke, mentre il vento rende infermi i miei movimenti e ritarda la mia corsa verso il lavoro, scopro che la forma del suo kanji non racconta l’aria che si muove ma dipinge esseri che abitano il tetto del cielo. Uccelli, dragoni.
  Nell’antichità si credeva che il dio del vento avesse l’aspetto di un volatile, che viaggiasse per terre diverse e influenzasse così la nascita di differenti costumi, tradizioni (風俗) e paesaggi (風物) locali.
  Così, nel mutamento del vento sbocciano ali di uccello, spire di drago, creature che abitano il cielo e con le loro volute, la violenza del tornado, la dolce brezza della sera, trasformano anche i paesaggi e le persone.


♫ Enya, Flora’s Secret

ちょっと o della chiarezza del non detto

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  Ci sono parole misteriose. Che sembrano una cosa e poi sono tante altre.

Studiare una lingua straniera e soprattutto poi provarla sul campo è un notare continuo non solo del suo “centro” – delle sue vie alberate, delle strade eleganti piene di negozi, delle piazze con nomi famosi e altisonanti – ma anche delle sue apparenti “periferie” – viuzze, slarghi e rotonde poco frequentate da chi non conosce la città ma di cui, chi la abita, non può fare a meno.
Periferie che di una parola, di un’espressione, fanno spesso qualcosa di diverso.

Lo insegno sempre ai miei ragazzi, che più una parola la si usa più è soggetta a mutamento. Passa di bocca in bocca, attraversa regioni, fasce d’età, stati d’animo e ama cambiare, come le scale a Hogwarts, come le ragazzine di Shibuya.

Delle tante espressioni di cui ho imparato a scoprire giardinetti nei sobborghi, viuzze ignorate dalle cartine più importanti, ce n’è una: ちょっと che si pronuncia “chotto”, “ciotto”, e che, per il mio orecchio italiano, ha fascino nel suono. Ciotto, ciottolo, ciò, ciotola. Ha dentro un rumore che rotola via.
Ha il suono dell’acciottolio delle stoviglie nell’acquaio, di qualcosa di tenero e cicciottello, diminuisce ciò che rappresenta e insieme lo ingrassa.

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ちょっと  adesso lo si scrive in hiragana ma, insegna il giapponese di una volta, poteva essere anche un kanji, anzi due 「一寸」 dove 「寸」 era un’antica unità di misura e 「一」 è l’uno in giapponese oppure 「鳥渡」 che è un uccello, un volatile che attraversa. E chi lo sa che cosa era… 

Chotto matte ne. (Aspetta un attimo)Vuoi la torta?
Chotto dake. (Solo un po’)

Chotto, una parola che significa “un po’” ma che in realtà ha molto più tempo e materia al suo interno. Chotto non è solo un avverbio per chiedere di attendere un po’, per indicare una quantità limitata; è anche una risposta già di per sè. E spiega un altro pezzetto del popolo che lo pronuncia.

Scusi potrebbe dirmi quando arriva questo libro?
Chotto… (wakarimasen)

Quando crede si libererà un tavolo?
Chotto… (wakarimasen)

Il chotto sospende, omette, ferma l’interlocutore senza dire. E proprio qui sta il punto. Che non c’è bisogno di dire no, di dire , di dare una qualsiasi risposta. Il chotto mette Pause su tutto ed interrompe.
Diventa allora traducibile come un “non saprei”, un “ehm”. Sottintende una negazione.

Ma tra di voi che rapporto c’è?
Chotto…

Perchè non vuoi parlare con lei?
Chotto…

  Chotto è la distanza dalle cose, da un giudizio, tra una persona e tutto il resto del mondo. Una bolla che circonda e che ferma mani curiose, domande impertinenti, intrusioni nel privato. Perchè non c’è bisogno di dire – in giapponese non c’è n’è mai veramente – e la sospensione basta. L’altro capirà che non si può chiedere oltre.

Quel che ho capito in questi anni di un Giappone, che per me non è e mai sarà part-time, è che a dire le cose all’italiana spesso si arriva prima all’obiettivo ma che ad attendere e non dire alla giapponese spesso si arriva lo stesso, ci si mette tanto tempo e non si procurano ferite.

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  Non c’è un modo giusto, non c’è l’illusoria “via di mezzo”, c’è una situazione e varie possibili soluzioni e sta a chi cavalca due o tre o quattro culture scegliere quale strategia comunicativa usare. Mai privarsi dell’essere italiani ma mai far assurgere la propria cultura a quella “giusta”. Limita, rovina.

Il non so, il chotto che sospende è qualcosa che all’inizio confonde e indispettisce lo straniero “eccheppalle, un po’ di elasticità”, “suvvia, rispondi, un’approssimazione perlomeno” ma che poi, a lungo andare, lo rassicura “se lo ha detto è sicuro che sarà così, ci si può fidare”. Perchè nel tempo del non so, non posso dire non c’è menzogna.

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  Chotto poi serve anche a chiamare e insieme a protestare. Che suona come un “Ehi, scusi…”. Magari qualcuno che ti sta coprendo una visuale che ti spetta di diritto, qualcuno che intralcia il passo e allora diventa “scusi, permesso”.

Ma la lista è lunga ed io mi fermo qui.

Perchè Laura, adesso cosa devi fare?
Chotto…  ^^;