和室

Nella stanza del tatami  「和室」

  Il vento scuote i muri della casa. Fischia serpentino tra le fessure delle cose, s’allunga sinuoso e potente.
Poi, quando lo si è dimenticato, un colpo di coda ravviva la memoria della sua presenza. Fa trasalire il fischio che si ingrossa d’aria e si schianta sulle vetrate che proteggono gli shōji.
  È una notte ventosa e lo sarà anche il giorno che verrà, quello che è iniziato questa notte al tempio.
  È il primo giorno dell’anno.
  Le gambe immerse nel tatami, nella fessura quadrangolare che occupa il kotatsu. Il calore che sale dal fondo e unisce gambe, piedi, tavole di legno e letture. Ryosuke è alla mia sinistra, immerso nelle coperte e sdraiato sul tatami mentre legge calmo uno dei suoi libri. Io sono seduta, la lampada accesa sul nero del tavolino, le mani allungate sulla tastiera. Alzo lo sguardo dopo l’ennesimo boato del vento. A destra placido d’oro il butsudan, l’altare domestico dove riposano gli antenati.
  Un pugno di fiori, due confezioni di wagashi dai colori pastello e le forme invitanti. Due dita di riso. Gli antenati gusteranno i doni e rimarrà ai vivi qualcosa da mangiare, qualcosa invece da gettare via.
  “Quelli ritratti in foto sono i nonni di tuo padre?” chiedo a Ryosuke svegliandolo dal suo concentrato torpore.
  Davanti all’altare che s’apre, due zabuton  viola e oro accolgono le ginocchia di chi pregherà, accenderà bastoncini d’incenso e farà vibrare d’un suono prolungato il richiamo. Per coloro che vivono alle nostre radici e ci sostengono il passo.
  “Quella” dico a Ryosuke ed indico la linea che fa della parete un soffitto.
  Nella fessura è inserita l’immagine in bianco e nero di un uomo e di una donna in kimono, il viso serio e solenne di lui, la capigliatura raccolta in uno chignon, la posizione obliqua delle spalle di lei.
Ryosuke annuisce. È lo scatto del polpastrello sull’interruttore che accende memorie.
  Racconti di famiglia. Avventure, disavventure e grandi dolori. Discorsi che insegnano perdite e compensazioni. Mi dice del primo figlio dei nonni materni, un bambino morto pochissimo dopo essere nato. Sarebbe il fratello maggiore della madre, se fosse in vita. Nessuno ne parla e il nonno che è già novantenne non dice nulla. Il dolore è privato e chiude saracinesche.
Ryosuke racconta a suo modo, senza mai abusare di parole. La voce s’annebbia perchè, ho notato negli anni, gli uomini giapponesi non si vergognano della commozione. Ryosuke ricama l’essenziale e lascia me ad aggiungere aggettivi ed avverbi.
  È questo il nostro equilibrio.

Take me into your skin. Gli chiedo. E lui mi racconta.

  Parla e lo fa sussurrando, perchè è notte fonda e sul fondale del mondo i pesci si muovono lenti.
Il vento continua a seviziare le fronde in giardino, gli alberi esausti.
  La Gigia dorme su al secondo piano, nella stanza dei genitori di Ryosuke. Il padre che s’addormenta ogni notte allungando una mano sul ventre o il capino di lei.
   Scoccano le due, spegniamo il kotatsu, spegniamo la luce. Chiudiamo la porta della stanza del tatami. La maniglia è un cilindro incastonato nel legno con al suo interno una piccola leva.
E lentamente, con passo leggero, saliamo le scale, ci spogliamo e andiamo a dormire.
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