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11.3.11

DSCN2058Articolo  da me scritto e pubblicato su Donna Moderna il 5.3.2014

“La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”
(detto amerindio)
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 “Il 6 agosto 1945 una bomba atomica distruggeva la città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo Nagasaki fu a sua volta colpita. L’8 agosto, nell’intervallo tra i due episodi, il tribunale internazionale di Norimberga si era arrogato il diritto di giudicare tre tipi di crimini: i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Nel giro di tre giorni, i vincitori della seconda guerra mondiale avevano aperto un’èra nella quale la potenza tecnica delle armi di distruzione di massa rendeva inevitabile che le guerre diventassero criminali rispetto alle stesse norme che stavano emanando.
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 Questa «ironia mostruosa» avrebbe segnato per sempre il pensiero del filosofo tedesco più misconosciuto del XX secolo, Günther Anders […] uno dei rarissimi pensatori che abbiano avuto il coraggio e la lucidità di paragonare Hiroshima ad Auschwitz senza togliere nulla al triste privilegio che possiede il secondo di incarnare l’orrore morale senza fondo. Ha potuto farlo perchè ha capito, come Hannah Arendt e probabilmente prima di lei, che una volta superati certi limiti, il male morale diventa troppo grande per gli uomini che ne sono responsabili e che nessuna etica, nessuna razionalità, nessuna norma che gli esseri umani si possono dare ha la minima pertinenza per valutare ciò che è successo.
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C’è bisogno di coraggio e di lucidità per fare questo accostamento, perchè Hiroshima rappresenta ancora, nella testa di molta gente e, a quanto pare, della stragrande maggioranza degli americani, l’esempio per definizione del male necessario […]  Interrogarsi sulla razionalità e sulla moralità della distruzione di Hiroshima e Nagasaki vuol dire anche trattare l’arma nucleare come uno strumento al servizio di un fine. Sennonché un mezzo si perde nel suo fine come un fiume nell’oceano, ne è completamente assorbito. La bomba, invece, va al di là di tutti i fini che le si possono dare o trovare. […] Perchè l’orrore morale del suo impiego non può esser percepito? Perchè questa «cecità dell’apocalisse»?”*


Mi capita raramente di citare a lungo brani di un autore senza avvertire la possibilità di rielaborare, spiegare, ingoiare e restituire a parole mie qualcosa.   Questa è una di quelle occasioni preziose che svelano come vi sia chi ha saputo, in un brevissimo saggio, illustrare l’Assurdità del male con lucidità perfetta. È Jean-Pierre Dupuy, professore di Filosofia sociale e politica presso l’ Ècole Polytechnique e l’Università di Stanford e il suo libro si intitola “Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo”. Merita d’esser letto per intero nelle sue cento paginette o poco più.

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  Il detto di apertura di questo piccolo intervento è anch’esso partorito dal libro suddetto. “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”. È un po’ come quando Jorge Luis Borges scrive che “Possiamo dare solo ciò che è già di altri” e ci ricorda il debito che fin dall’istante in cui nasciamo – come esseri viventi oltre che come produttori di parola – abbiamo contratto nei confronti di tutto ciò e di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno.  Nulla è nostro, in sostanza. A noi tocca solo amministrare una concessione, un prestito. Una lunga catena di debiti su cui varrebbe la pena di riflettere ogni volta che si decide di muoversi verso la distruzione di qualcosa, di qualunque cosa.
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   Oltretutto, e questo forse più di ogni altra cosa mi indigna, immenso è l’egotismo dell’uomo che è convinto che questo pianeta sia cosa sua. Forse, in un tempo in cui la terra, le foreste, la natura tutta si ritrae ferita, sotto il passo incessante ed arrogante dell’essere umano, sarebbe il caso di domandarsi chi gli ha dato il diritto di arrogarsi il possesso del pianeta, quale religione auto-architettata ed auto-imposta gli abbia concesso la possibilità di agire a proprio piacimento. Da dove nasce l’eliminazione dell’alterità, il senso di mostruosa superiorità che egli esercita con una disinvoltura ancora più mostruosa?

E mentre noi stiamo a dibattere su Hiroshima, Pearl Harbor, le responsabilità di allora, le efferatezze e simili diatribe prive di reale conoscenza e di spessore, è interessante quanto sconvolgente notare – come fece lo stesso Günther Andersen (che nel 1958 si recò alle commemorazioni ad Hiroshima e Nagasaki) – che:

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  “La regolarità con cui [i giapponesi] omettono di nominare gli autori, con cui tacciono del fatto che la catastrofe è stata prodotta dall’uomo; e con cui, benchè vittime del delitto più orrendo, non mostrano il minimo risentimento – tutto ciò mi pare eccessivo, non mi piace affatto
  Un sentimento che ahimè comprendo e che riconosco parte dell’animo giapponese che, al contrario del trattamento che subisce per crimini di un lontano passato certamente commessi (ma non più efferati di quelli perpetuati dalla nostra civilissima Europa o dall’America o dall’Asia in millenni di guerre e d’una quotidianità violenta e brutale), non condanna nè attacca chi ha fatto loro un torto tanto grande.
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  L’idea è 「ひどい事をしたから、ひどい事をされても仕方ない」 “Dato che abbiamo fatto cose terribili, ci sono state fatte cose terribili. Non c’è nulla da fare”

  Qualcosa che l’occidente di questo paese ignora tutt’oggi totalmente. Qualcosa che un occidentale non comprenderà probabilmente mai. Del resto il mix di uno stereotipo ben edificato dai suoi detrattori, unito ad un’indole affatto accusatoria, porta il Giappone ad essere vittima di insopportabili (solo per me che sono occidentale) affronti.
Accompagnata dalle melodie della meravigliosa canzone composta da Sakamoto Ryuichi e interpretata da Hajime Chitose “Shinda onna no ko” (La bambina morta), rivolgo una preghiera alle vittime di Hiroshima e Nagasaki e soprattutto una preghiera per l’uomo, senza sterili differenziazioni di nazionalità.  Perchè si renda conto della responsabilità che ha, della bellezza e fragilità del pianeta che abita e della terribile capacità che ha di distruggere qualcosa che neppure gli appartiene.
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♪ Sakamoto Ryuichi e Hajime Chitose  “Shinda onna no ko” 
✿ Le meravigliose illustrazioni sono dell’artista Seiji Fujishiro
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*(il grassetto e la spaziatura, nel testo citato in apertura, sono miei)

Un kimono bianco e un abito da sposa

  Un giorno che inizia presto la mattina, come accade a chi cerca densità. Ryosuke è accanto a me in un letto immenso nella stanza che porta il nome di un fiore, la più bella della ryōkan. Siamo a Kamakura, è il 3 novembre del 2009 e oggi ci sposiamo.
Fuori dalle finestre si sparge il mare a riempire ogni imprecisione della costa mentre sulla destra il Fuji-san s’erge maestoso e gabbiani volano avviluppati alle correnti. Gli zii e i miei cugini sono forse sulla spiaggia a scattare foto.

  Mi vesto lentamente, gustando l’attimo di niente che precede l’esplodere del tutto. Poi scendo al piano terra. S’apre in fondo, accanto al giardino, la sala della ryōkan dove avverrà la vestizione. Vi sono paia di scarpe che attendono all’ingresso, abbandono anch’io le mie e salgo il gradino. Lì dove mia madre mi raggiunge insieme a mia sorella che ha appena vinto il concorso di magistratura e che fino all’ultimo non si sapeva se sarebbe riuscita a venire oppure no. Ma c’è anche lei e tutte le donne più importanti della mia vita sono qua.

  Al primo piano un’anziana ed una giovane donna s’affaccendano intorno al kimono bianco con disegni d’airone che indosserò.
Ma prima mostrerò il viso e chiuderò gli occhi, allungherò le braccia nude e aprirò le mani, raccoglierò i capelli e porgerò la schiena. Perchè in ognuno di questi frammenti di corpo il pennello bianco disegnerà il mio essere una sposa.
Le labbra saranno rosso fuoco e una parrucca che pesa forte sulla testa imporrà la tradizione delle antiche acconciature. Le setole fanno solletico sulla pelle e nello specchio immenso davanti a me osservo la trasformazione.

   Da dietro vedo spuntare mia madre che è felice come una bimba nel suo kimono nero ed oro. Quasi non mi dà retta tanto è bella e fiera. Lo abbiamo scelto insieme dal catalogo che Ryosuke ed io le abbiamo inviato per email. E della sua bellezza parleranno ancora tutti dopo anni, amici che ricordano questo giorno e mi diranno rapiti: “Come stava bene tua madre in kimono. Come lo portava bene”.

  Ma io rimango a fissare il mio kimono, quello bianco con l’ampio copricapo, che mi accompagnerà fino alla sala delle presentazioni e poi al tempio, e ripenso a quando mesi fa l’ho scelto a Yokohama in un palazzo a sette piani che ospita tutti gli abiti del mondo. Un piano per i kimono bianchi, quelli tradizionali. Un altro per quelli multicolore da indossare al ricevimento. Un altro ancora per quelli occidentali, il bianco che infesta desideri spesso già esauditi. E poi un altro piano pieno di tinte per i vestiti che fanno Rossella O’Hara in Via col Vento, grassi di stoffe, ricchi di ricami e di volumi.

   Allungo le dita a toccare abiti appesi e a svoltare cartellini per capire se posso desiderarli o meno. Devo capirlo subito o il desiderio poi mi trascinerà. Però non li comprerò, perchè qui non è tradizione farlo e perchè non voglio che l’ombra di un armadio troppo angusto li consumi.
Lo abiterò, affittandolo per quel giorno solo, e poi lo restituirò perchè altre donne vi si immergano. Mi chiedo – quasi sperando – se qualcuna dopo di me lo abbia indossato in questi anni, se la mia felicità e quella delle spose che mi hanno preceduto si sia infilata nelle trame della stoffa.
Gli abiti sono centinaia, migliaia. Provo due kimono per la cerimonia ma la scelta è immediata. Per il ricevimento ne seleziono invece tre in stile occidentale da provare. Uno che avevo visto sul catalogo, un altro che stringe forte la vita e svela la schiena e un altro più costoso e voluttuoso, d’un bianco che acceca. Sarà il secondo e ne sarò perdutamente innamorata.
Sono tanto magra, come non lo sono mai stata e mai più lo sarò: è la stanchezza delle spose. Non c’è ancora la Gigia a dirmi di tornare a casa presto, il lavoro e questa vita piena d’eventi sono la priorità.

  E poi è arrivato il 3 novembre. Ed ora che il trucco è fatto manca solo la fine della vestizione, che è molto complessa e da sole non si puo’ fare. L’anziana e la giovane donna mi avvolgono in strati e strati di stoffa.
Io alzo le mani al cielo, ruoto il corpo e mi preparo a trasformarmi.

*Le foto di noi sposi le scatto’ il mio talentuosissimo cugino. Grazie Andrea!

Il nuovo lavoro e il gatto del tempio.

Un gatto al posto di un bonzo nel cabinotto che, all’entrata del tempio, è solitamente dedicato alla vendita di oggettini, お守り, libretti, collane etc.

Il cabinotto era chiuso e un gatto bianco sorvegliava dall’interno il traffico (pressochè nullo) di persone che entravano nel recinto del tempio. Una foto scattata un mese fa, il 3 novembre, nel Giorno della Cultura – che era anche il nostro anniversario di nozze – ad Oshiage.
E’ nella foto accanto, lo vedete? Un raro colpo d’occhio che ringrazio.

Una notizia bella e una fastidiosa. Un nuovo entusiasmante lavoro per Ryosuke – che sempre mi stupisce per la sua eccezionale versalità – e un brutto raffreddore per me. Della seconda non mi curo (o meglio, lo faccio standomene a letto) e della prima gioisco.

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E’ davvero interessante osservare il mondo del lavoro giapponese dal punto privilegiato della “moglie”. La documentazione, i colloqui. Ed ammiro l’esser trasparente del mio 8 (otto, , in giapponese significa “marito”) che ha cercato – e trovato – un impiego che per contratto non ha straordinari. E nei colloqui, con sincerità, spiega che l’equilibrio familiare per lui è la prima cosa e che un lavoro che lo tenga oltre l’orario stabilito in ufficio non fa per lui.

Ed io, inutilmente, spero che un po’ di quella sana intelligenza contagi pure me. Che non mi passi solo il gusto per certi cibi o bevande che una volta neppure mi sognavo di assaggiare, ma che mi siano trasmesse anche disposizioni mentali, serenità interiori a me spesso ignote.

Il lavoro sarà a Yokohama. Ryosuke, che nella regione del Kanagawa è nato e vissuto fino agli anni dell’università e che ha fatto il liceo proprio a Yokohama, ne è entusiasta.
La conosco poco, ma già non vedo l’ora di farci qualche capatina armata di macchinetta fotografica… ❤

(nella seconda fotografia un pochino di Natale nel quartiere)