distacco

『可愛い子には、旅させよ』 o della maternità

È un serpente che si ingoia la coda. Che si arrotola su se stesso e diventa una girella. Torna e ritorna il pensiero di quello che accadrà, di come andrà. E poi c’è il “se” che rende traballanti fondamenta.

Ed io che son ripetitiva nell’affetto quanto fuggo invece la ripetizione nel linguaggio, che di questo tornare e ritornare sempre sulla stessa cosa sono cosciente senza però la capacità di migliorare, chiedo perdono. Mi scuso in e con continuazione.

DSC00387“Dico sempre le stesse cose, faccio le medesime domande. Mi dispiace. Ma… secondo te andrà bene? Piacerà? Manca così poco. Verranno a trovarmi? Sarò all’altezza? Andrà bene? Piacerà?”

Ma Ryosuke non mi ignora, mi risponde, ed è sempre un rassicurare. Che è normale, anzi ovvio:

「ピッチャの子供だから」

“E’ perchè è tuo figlio”

Ed è vero. Che i figli non sono solo di carne o di pelo, ma anche di carta, di bites, di tempera, di stoffa, di farina e uova, di colori, di un progetto finanziario o fotografico, di una causa, di parole, di lezioni, di cure ad un paziente, di un viaggio organizzato etc. etc.

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E questo sentimento di maternità e di paternità è in fondo un segno di un possesso che non corrisponde ad un comprare ma che è innanzitutto un desiderio ed un impegno.

Perchè ci sono cose che capitano, come capitano a volte i figli, ma ci sono donne e uomini per cui quel che capita per caso e naturalmente ad altri non è ovvio, e loro se lo devono guadagnare, architettare, in un faccia a faccia costante con se stessi e con la propria paura di non riuscire mai. Cose che richiedono un gran tempo e un gran coraggio, perchè la tenacia porta spesso in egual misura a successi e a fallimenti.

Si può allora essere madri e padri a pochi anni, di qualcosa che ci coinvolge da vicino, che sentiamo prolungamento d’arti e di interiora, qualcosa che poi però bisogna avere il coraggio di prendere per mano e spingere con delicatezza al centro di un palco, fuori dal portone di una casa. Qualcosa da presentare un giorno al mondo. Che i cassetti sono fatti per i desideri che non sono ancora maturati a sufficienza per uscire, per cadere come frutti da un ramo ed essere mangiati. Ma che, per quelli già belli e fatti, i cassetti sono tombe.

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Per rispettarli i propri sogni è importante prima o poi lasciarli andare, proprio come i figli.

Li saluti a gennaio. Alcuni li vedrai, altri mai più. Forse li incrocerai per strada, nelle casualità che capitano a frotte in questa città enorme. Ed è bella la leggerezza nel distacco, questa inconsapevolezza del mai più. Sono gli studenti che incontro ad aprile, sotto la fioritura piena dei ciliegi, e che lascio andare in inverno, quando scende ormai la neve e il gelo scuote la spina dorsale.

Crescono, un anno è l’arco di un pensiero profondo che alcuni affrontano, altri subiscono, altri ancora ignorano. Arriverà l’anno successivo. Ogni dramma un’occasione per imparare presto la propria forza e la propria debolezza. E non c’è alcuna banalità nella parola “amore”, un sentimento che io avverto per questi ragazzi e che tanti di loro mi dimostrano nel tempo.

In giapponese c’è un proverbio dolce che recita così: 『可愛い子には、旅させよ』/kawaii ko ni wa tabi saseyo/ e che letteralmente significa “il bambino amato, facciamolo viaggiare”. Perchè la tua creatura la vorresti sempre vicino, il bambino amato perennemente tra le braccia per proteggerlo da tutto e anche, egoisticamente, per coccolarlo ancora a lungo.

Ma proprio perchè il bambino è amato va lasciato andare, va liberato, va provato. Bisogna dargli la possibilità di misurarsi con la vita.

Merita fiducia.

SayCet, Circonflex