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「心の準備」o la preparazione al dolore

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S-chan non piange mai eppure ultimamente lo fa spesso.

È che ha deciso di fidarsi e quando si tenta di aprire il proprio cuore dopo anni di disuso, è come spaccare il guscio di una noce.

A volte si spalanca al centro, nella perfezione benedetta che suggerisce la metà, a volte invece si frantuma in tanti pezzi, da staccare con le dita e con le unghie, uno ad uno. Li si raccoglie pure a terra, perchè schizzano lontani, un panno a scivolare sulla superficie del tavolo di legno.

Il risultato, però, in fondo è sempre lo stesso. Il guscio si schiuderà, si gusterà infine il frutto. Sarà valsa comunque la pena di tentare.

S-chan guarda in basso e piange ancora. Le sue lacrime chiamano i miei palmi e, al di là della cultura del corpo che ci separa, non posso fare a meno di prenderle il volto tra le mani, lì in mezzo a una strada qualunque di Kichijoji, e dirle che andrà tutto bene, che sarà forte, ma che il dolore non lo si può anticipare, che la previsione delle cose negative non ce le risparmia veramente.

È una delle persone importanti della mia vita, un’amica di spessore. Dopo anni di storie da dimenticare sembrava aver trovato finalmente quello giusto. Ma poi da alcune settimane, lui non si fa più sentire. Un messaggio a settimana, promettendo presto una risposta che tarda ad arrivare e forse, forse, non arriverà.

 DSC09081  Immagini quello che sarà. E tenti, tornando ossessivamente al suo pensiero – come un girotondo intorno al mondo – di affrontare la paura di soffrire.

  Accade così di fronte a una cosa bella che lo sai che finirà, a un amore che senti sta scemando, a un lavoro che per contratto non si rinnoverà. A qualcuno che a breve morirà.

  Tutte cose che ti lasciano solo con la sensazione di non aver costruito nulla, d’essere vittima d’un costante punto e a capo, perennemente in balia di nausee e mal di testa lancinanti, perché di fronte a certe cose la mente – per quanto tu la possa stimolare – ti darà sempre le stesse risposte. Un ripetuto non lo so.

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 Che poi quando e se ci sarà veramente questa fine, perdita o abbandono tu invero non lo sai.

 A volte allora è inutile il dolore. Va sprecato. Fa al lupo al lupo e ti rende, per assurdo, meno preparato al dolore che davvero giungerà.

 Perché magari la storia si trasformerà, passerà una fase di dolore per poi farsi nuova vita, per mettersi un abito elegante e magari fare il grande passo. Perchè il contratto invece si rinnoverà o, a distanza di un tempo breve, uno nuovo si presenterà. Perché chi muore vive nei nostri ricordi, ci accompagna come un’eco nei giorni in cui quel qualcuno lo chiameremo a noi.

 Ci si può preparare ad alcune cose. Si può fare quella che i giapponesi chiamano 「心の準備」 /kokoro no junbi/ la preparazione del cuore, letteralmente. Per una lunga attesa,  piccoli fastidi o disservizi,  maldestri scherzi della vita.

Ma non ci si può preparare a tutto.

  Per il dolore, quello che non si scioglie facilmente, che come olio nell’acqua vien sempre in superficie, per quel tipo di passione lì c’è poco da anticipare. A nulla serve immaginare catastrofi, architettare al millimetro il futuro negativo che ci attende, lustrare l’ingresso del nostro edificio di sventure.

 DSC09054 Me lo ha detto una volta una persona dolce, al telefono, mentre sul letto mi arrotolavo in eventuali, futuri, dispiaceri.

“È solo un anticipare” mi ha detto. “Non serve ad anestetizzare il dolore. Perchè tanto cambia poco e il sapere che il dolore sarà enorme non ti aiuta a sentirlo meno forte quando arriverà”.

  E mentre ho tra le mani il volto di S-chan, con gente che ci passa a destra e sinistra a piedi e in bicicletta, ripenso a quelle parole ricevute, assaggiate, masticate, poi ingoiate, digerite e fatte infine mieLe dico allora che bisogna esercitarsi al positivo, che il cuore, per certe cose, non lo si prepara mai.

 DSC09105 Che stasera “messaggiamo” tra di noi. Che domani è invitata a cena, con me, Ryosuke e la Gigia. Che le preparo anche un piatto coreano che le piace tanto. Che poi la accompagnerò a casa in bicicletta e parleremo, parleremo fino a esaurire, per quel giorno, la dose di lacrime e disperazione di cui è capace il suo organismo. Che ci scriveremo anche quella sera, prima di dormire, che il giorno dopo ancora ci vedremo allo Starbucks e parleremo, e parleremo per tanti giorni ancora in attesa di quello che verrà.

  E se il dolore arriverà lo metteremo in bella vista innanzi a noi, guarderemo in dettaglio cosa accade ad una noce quando s’apre.

  E concluderemo che sì, per quanto si possa soffrire, vale sempre la pena  di spaccare il guscio. E, con la cautela che richiede ogni scoperta, guardarci dentro. In un continuo, inevitabile, batticuore.

 ♪ Miura Daichi, “Anchor”(三浦大知 「Anchor」)

Alla paura si va incontro eleganti

  Dolore e un po’ di sangue nella sera. Il tuo corpo si racconta. Ti dice cosa ha passato ieri, che il tempo cambia faccia quando non ha dentro piacevolezza e sembra allungarsi all’infinito.
 
  Un’analisi molto dolorosa in una piccola clinica di Tokyo. Al quarto piano d’un edificio alto e stretto, incastrato tra un supermercato, una galleria coperta e un piccolo tempietto di quartiere. S’apre la porta scorrevole dell’ascensore e davanti, sulla sinistra, c’è già la reception. Perchè questa città dello spazio fa scarpetta, dentro ogni metro quadrato s’agita la vita.
  Come tra due palmi un dado, avvicini le mani all’orecchio: chissà che numero uscirà.
  In questa piccola clinica appesa al mondo i dottori son veloci, non si perdono in chiacchiere, gli spazi sono sì minuti, ma l’attrezzatura è all’avanguardia. Tutto funziona e tutto va dritto al punto. Sia le cose che le persone.
  Farà male, ti avevano avvertito. E nei giorni che precedono la visita ti prepari non tanto al dolore – tanto a quello è impossibile prepararsi veramente – ma alla paura. Perchè tu ciò che devi fare lo fai sempre ma sei una fifona.
  Agli esami – tutti –, alla discussione della tesi di laurea italiana, a quella di dottorato di primo livello giapponese, a quella di master italiano, alle conferenze in Giappone e a tutti gli esami che hanno preceduto e succeduto ognuna di queste ed altre tappe, ci sei andata vestita sempre elegante.
  Bisogna affrontare la paura con un pizzico di eleganza, ti dici. Perchè per mantenere l’apparenza tu riesca a dissimulare – a te stessa – anche la paura.
  Oggi è il giorno. Farà male ma va fatto. Cosa ti metterai?
 Trucco leggero sulle guance, la matita marrone che scorre rapida intorno all’occhio, quella nera giusto un poco dentro in basso, il rimmel che spalanca ciglia e dice loro di aspettare, che guardare davanti è sempre la scelta migliore. Rimandare è un’attesa prolungata, una cosa che tradisce.

  Scegli l’abito bianco e nero a righe grosse, di stoffa spessa e liscia al tatto, che sembra diviso e invece è un one piece; è quello che hai guadagnato in una boutique di Shibuya grazie a una piccola strategia d’acquisto – madre e figlia che maneggiano l’abito in questione, l’ultimo (!), in saldo, lo appoggiano al corpo davanti allo specchio, fanno smorfie, c’è forse qualcosa che non va; ti notano, ma tu sai che il desiderio altrui rende – senza vera spiegazione – più forte il proprio, e magari lo compreranno solo perchè tu lo stai desiderando.
Allora inizi a vagare per il piano, fingi attenzione per altri vestiti, per altri negozi.
Dopo dieci minuti torni. Lo trovi appeso lì, il tuo trofeo, senza più nessuno a fargli compagnia. È tuo, ti sta proprio bene, costa niente, te lo sei guadagnato.

  È perfetto per la visita di oggi che, lo sai e lo stra-sai, che ti farà male.

  Scegli l’involucro migliore, il tacco comodo ma bello. La vanità che mette recinzioni alla paura.
  È il modo che hai di gestire il batticuore, l’ansia folle di fallire, la voglia dolorosa di riuscire, l’orgoglio che ti dà sonori schiaffi preventivi, il pessimismo che non riguarda mai nessuno tranne te.
Andare incontro alle proprie debolezze con una forma bella, con un pizzico di vanità, per evitare di lasciarsi andare al sentimento più facile: la fuga. Fuga di gambe ma anche fuga di emozioni. Paura chiama paura, dolore chiama dolore. Ed il sentire si fa solo uno specchio che amplifica se stesso e non si conosce.
  Esci. All’inquietudine si va incontro a testa alta, con un abito elegante e una forma a contenerti. Il resto, tanto tu già lo sai, non lo potrai evitare.
 

La forma del dolore o del "kijō"

Ci si svela sempre. Lo fa per noi la capigliatura arruffata, la linea a volte netta sotto agli occhi, il sopracciglio che s’arcua e si distende, il labbro superiore che s’arriccia, l’occhio che s’accende e poi si spegne quasi fosse animato da interruttore e da corrente, l’acqua si fa spazio tra le ciglia, le narici che si divaricano forte per inspirare più aria, più vita.

  Il dolore ha una forma, esattamente come la possiede una bottiglia di uroncha, il tavolo in soggiorno, una confezione di formaggio, un catalogo d’arte. E come questi oggetti, tutti in fila e sull’attenti, anche la forma del dolore può mutare. S’adatta come l’acqua alla forma che l’accoglie. Ne acquista il volume e il peso.
È, nel caso del dolore, anche una questione di cultura. Perchè vi sono popoli per cui esso va dimostrato, i capelli vanno strappati, le vesti lacerate, la gola straziata dalle urla, gli occhi imbevuti di lacrime sincere.
E poi c’è il Giappone che il dolore non lo rifugge ma lo contiene.

  In giapponese si dice che più qualcuno si mostra forte, maggiore è la compassione che merita”.
Perchè chi si mostra forte di fronte a un grande dolore non è insensibile agli eventi ma sta soffrendo profondamente solo che, per non straziare chi sta vivendo il medesimo dramma, sta trattenendo la sua disperazione.
È il concetto del kijō 気丈: il ki che ha dentro lo spirito, l’indole, l’animo, il sentimento e il che è la lunghezza delle cose e della vita e insieme anche la forza, la solidità espresse in una parola come ganjō 頑丈o che, nell’aggettivo jōbu-na 丈夫な, indica la resistenza, la robustezza di qualcosa o di qualcuno.

Il concetto del kijō 気丈esprime il mostrarsi forti, il non cedere mai completamente alla disperazione. I giapponesi sono portati a non mostrare i propri sentimenti non certo per una mancanza di emozione ma perchè la cultura insegna a mettere davanti a sè l’altro, a non far prevaricare il proprio dolore su quello altrui. Perchè in una situazione di disperazione collettiva il dolore di uno deve essere comunque rispettoso del dolore di tutti gli altri.

  Così è stato nel marzo 2011, in un Giappone ferito e straziato, dal quale arrivavano immagini che stupivano gli stranieri che, per l’occasione, ripetevano la parola “compostezza”. Era il kijō: la sofferenza che era e resta enorme ma che i giapponesi non mostreranno mai in modo clamoroso.
Tra quelle migliaia di sopravvissuti c’era chi aveva perso una madre, un padre, un figlio, un fratello o una sorella, il cane o il gatto, chi la propria casa, chi gli amici più cari, chi aveva visto sfumare i sogni di una vita, il proprio lavoro. Il dolore di uno vale tanto quello degli altri. Non c’è chi piange più forte, chi raccoglie maggiore cordoglio. Tutti si sostengono gli uni con gli altri e cercano di andare avanti.

  Ho sempre pensato che il dolore, le lacrime siano cosa delicatissima. Come un dito infilato in un carillon. Ci vuole poco per fermare la musica e la danza della ballerina col tutù che volteggia sempre più lentamente al centro della scatoletta. Perchè quando tu, solo tu piangi per qualcosa che è accaduto a te, a te sola e l’altro nell’ascoltarti piange, persino più forte, con singhiozzi e parole strascicate, allora ti fermi.

  La com-passione si fa furto. Le lacrime non sono più tue. Non riescono più a uscire e ti trovi paradossalmente a dover consolare l’altro. Il dolore che era cosa tua diventa altrui e lo spazio di espressione è ormai preso.

  Penso poi che è curioso che in questo abbinamento di kanji, di ki e di – che viene dopo altri due in ordine di scelta sul dizionario e sul software di word – , ci siano parti di due delle espressioni più comuni in questa lingua.
E’ il ki di genki 元気, che significa “stai bene, come stai?” coniugato ad ogni persona ( l’io, il tu, il lui e il lei, il noi, il voi e il loro) e il che è anche di daijōbu 大丈夫, parola che si ripete nel quotidiano come un mantra “va tutto bene? va tutto bene! va tutto bene, vedrai”.

Sì, andrà sempre tutto bene.