Il Fuji-san non è uomo e non è donna
Il Fuji-san non è uomo e non è donna. Non è divinità maschile nè femminile. E’ un monte ermafrodito. Così scrive Takeya Yukie. La lingua giapponese lo permette e non c’è bisogno di definire sempre il sesso delle cose.
In una vecchia canzone per bambini il Monte Fuji ha sembianze umane: ha la testache spunta dalle nuvole, il corpoavvolto in un kimono fatto di neve e i banchi di nebbia che si allungano in lontananza alle sue pendici non sono che le maniche di quell’immacolato kimono.
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Una antichissima credenza giapponese vuole che le montagne siano abitate dalle divinità e che, per questo, non sia lecito scalarle. Gli dei posseggono quei luoghi e gli uomini non possono e non devono disturbare la pace che vi regna.
Il Fuji-san, monte prediletto nell’immaginario dei giapponesi, era ed è tutt’ora considerato da molti una divinità. E’ la montagna più alta del Giappone ed è simbolo dello stesso concetto di “bellezza” per questo popolo. I giapponesi provano nei suoi confronti ammirazione sì, ma anche quel tipo di timore reverenziale che si avverte per le cose belle e, insieme, terribili.
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Accadrà e c’è poco da aver paura. I giapponesi vivono in perpetua attesa di qualche disastro che verrà. Perchè verrà. E dopo che accadrà per un po’ a Tokyo non si potranno stendere i panni fuori e l’aria sarà impregnata delle ceneri del dio che si manfesta. Si girerà forse con le mascherine e muteranno i disegni dei bambini che tanto spesso tracciano il profilo del monte sulla carta.
E in un territorio tanto “accidentato”, attraversato da frequenti tifoni, scosso da terremoti di notevole portata, travolto da tsunamie da una vasta gamma di altre calamità naturali, la solidarietà e l’aiuto reciproco sono indispensabili.
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Si dice che lo 「仕方ない」[shikata nai] il “non c’è nulla da fare” che spesso ripetono i giapponesi e che rende perplessi gli stranieri (i quali leggono in questa frase una eccessiva accettazione degli eventi), sia dovuto proprio alle intemperie climatiche cui questo popolo è abituato a fare fronte e che hanno modellato il suo carattere tenace, profondamente rispettoso e sempre collaborativo.
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Ma lo “shikata nai” viene spesso frainteso perchè non è un “non faccio nulla e aspetto che le cose si aggiustino da sole”, ma bensì la presa di coscienza della sfortuna da cui poi parte la volontà di fare bene e di “gambaru”, ovvero di dare il massimo nelle proprie possibilità.