eleganza

Alla paura si va incontro eleganti

  Dolore e un po’ di sangue nella sera. Il tuo corpo si racconta. Ti dice cosa ha passato ieri, che il tempo cambia faccia quando non ha dentro piacevolezza e sembra allungarsi all’infinito.
 
  Un’analisi molto dolorosa in una piccola clinica di Tokyo. Al quarto piano d’un edificio alto e stretto, incastrato tra un supermercato, una galleria coperta e un piccolo tempietto di quartiere. S’apre la porta scorrevole dell’ascensore e davanti, sulla sinistra, c’è già la reception. Perchè questa città dello spazio fa scarpetta, dentro ogni metro quadrato s’agita la vita.
  Come tra due palmi un dado, avvicini le mani all’orecchio: chissà che numero uscirà.
  In questa piccola clinica appesa al mondo i dottori son veloci, non si perdono in chiacchiere, gli spazi sono sì minuti, ma l’attrezzatura è all’avanguardia. Tutto funziona e tutto va dritto al punto. Sia le cose che le persone.
  Farà male, ti avevano avvertito. E nei giorni che precedono la visita ti prepari non tanto al dolore – tanto a quello è impossibile prepararsi veramente – ma alla paura. Perchè tu ciò che devi fare lo fai sempre ma sei una fifona.
  Agli esami – tutti –, alla discussione della tesi di laurea italiana, a quella di dottorato di primo livello giapponese, a quella di master italiano, alle conferenze in Giappone e a tutti gli esami che hanno preceduto e succeduto ognuna di queste ed altre tappe, ci sei andata vestita sempre elegante.
  Bisogna affrontare la paura con un pizzico di eleganza, ti dici. Perchè per mantenere l’apparenza tu riesca a dissimulare – a te stessa – anche la paura.
  Oggi è il giorno. Farà male ma va fatto. Cosa ti metterai?
 Trucco leggero sulle guance, la matita marrone che scorre rapida intorno all’occhio, quella nera giusto un poco dentro in basso, il rimmel che spalanca ciglia e dice loro di aspettare, che guardare davanti è sempre la scelta migliore. Rimandare è un’attesa prolungata, una cosa che tradisce.

  Scegli l’abito bianco e nero a righe grosse, di stoffa spessa e liscia al tatto, che sembra diviso e invece è un one piece; è quello che hai guadagnato in una boutique di Shibuya grazie a una piccola strategia d’acquisto – madre e figlia che maneggiano l’abito in questione, l’ultimo (!), in saldo, lo appoggiano al corpo davanti allo specchio, fanno smorfie, c’è forse qualcosa che non va; ti notano, ma tu sai che il desiderio altrui rende – senza vera spiegazione – più forte il proprio, e magari lo compreranno solo perchè tu lo stai desiderando.
Allora inizi a vagare per il piano, fingi attenzione per altri vestiti, per altri negozi.
Dopo dieci minuti torni. Lo trovi appeso lì, il tuo trofeo, senza più nessuno a fargli compagnia. È tuo, ti sta proprio bene, costa niente, te lo sei guadagnato.

  È perfetto per la visita di oggi che, lo sai e lo stra-sai, che ti farà male.

  Scegli l’involucro migliore, il tacco comodo ma bello. La vanità che mette recinzioni alla paura.
  È il modo che hai di gestire il batticuore, l’ansia folle di fallire, la voglia dolorosa di riuscire, l’orgoglio che ti dà sonori schiaffi preventivi, il pessimismo che non riguarda mai nessuno tranne te.
Andare incontro alle proprie debolezze con una forma bella, con un pizzico di vanità, per evitare di lasciarsi andare al sentimento più facile: la fuga. Fuga di gambe ma anche fuga di emozioni. Paura chiama paura, dolore chiama dolore. Ed il sentire si fa solo uno specchio che amplifica se stesso e non si conosce.
  Esci. All’inquietudine si va incontro a testa alta, con un abito elegante e una forma a contenerti. Il resto, tanto tu già lo sai, non lo potrai evitare.