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La bellezza della fine 「有終の美」

L’inizio delle cose è fondamentale. È il primo passo, l’ingresso in cui lasciare le scarpe e salire il piccolo gradino che ti introduce in una casa. È l’inchino che inaugura l’incontro tra persone, la prima sorsata di birra che Delerm indicava come uno dei minuti piaceri della vita.
L’inizio dona la sensazione duratura di conoscere qualcosa, è l’istante in cui i sensi afferrano le cose e danno loro un nome. Pare che la “prima impressione” su una persona si imprima nella nostra mente in non più di dieci secondi. 第一印象, daiichiinshō così si dice anche in giapponese. Letteralmente.

Ci sono poi persone con cui da subito ci si trova. Come se, davvero, ci si stesse cercando. Perchè trovare sottintende anche un cercare, più o meno consapevole, un bisogno senza nome che si avverte talvolta solo dopo che lo si è soddisfatto. E in questo Giappone che ho conosciuto tardi, tanto che a vent’anni neppure me lo figuravo nella mente se non come accumulo di tecnologia, robot e dubbia ilarità, io mi sono trovata. Senza neppure sapere di essere in cerca. Nel trovarmi ho capito che era questo ciò che volevo, il mondo che cercavo.

Ma l’inizio, in questo nostro mondo combustibile, sottintende anche una fine.
E’ un concetto crudele, ma per quanto l’inizio e la continuazione siano importanti è la fine che determina il ricordo duraturo. Il tempo nella fine si fa più inquieto, va in discesa.

  Esiste in giapponese una parola, un concetto che racchiude la fine e la sua bellezza. Come le mani del direttore di un coro che sembrano chiudere a ventaglio – tra le dita – tutte le voci sul finale. È la chiusura e tutti i suoni finiscono nella girandola e nel pugno.

È la bellezza della fine, il bel finale: 有終の美 yūshū no bi, con in coda il kanji di fine e, in testa, quello di avere. Un’espressione che si usa in coppia con la bellezza che è bi.

Lasciare un lavoro, ad esempio, sottintende tanti sentimenti: l’eccitazione per quello che verrà, l’inquietudine per un futuro che non si conosce, talvolta anche la stanchezza e l’impazienza. Lo ammetto, ero sorpresa di quanto ligio fosse Ryosuke nell’ultimo mese di lavoro nella società che avrebbe lasciato di lì a poco. Non capivo, proprio ora perchè non prendersi un giorno di riposo, fare quella gita che abbiamo tanto rimandato, dai, se non ora quando? Tanto sta per finire no?
Lasciare una stanza d’albergo dopo aver rifatto il letto, aver piegato lo yukata, aver aperto o chiuso una finestra, aver gettato ogni rifiuto nel cestino e aver magari anche serrato il sacchetto della spazzatura. Passare una mano sulla superficie del tavolo di un caffè, raccogliere le briciole in un palmo, allineare la sedia e il tavolo nella posizione originale.

È forte in questo paese la coscienza del prossimo, la consapevolezza di chi verrà dopo di noi. Siamo tutti di passaggio, in continua migrazione. “Tutto capita a tutti, prima o poi, se c’è abbastanza tempo” scriveva con la sua acutissima ironia George Bernard Shaw.
E d’altronde il senso del bel finale è concetto individuale. Bellezza a manciate, tanta da riempirsene le tasche, il cappuccio della giacca e i polmoni tutti.

Concludere in bellezza non solo le imprese, ma anche (e soprattutto) le piccole azioni del quotidiano: in questo io ci ho visto sempre un modo per appropriarsi di se stessi, dei propri gesti. Del tempo che se ne va via troppo veloce. Prendere coscienza delle mani, del corpo che inizia e conclude azioni, del sapore di una cosa e del retrogusto che rimane nella bocca.

「立つ鳥跡を濁さず」, tatsu tori ato wo nigosazu è un detto giapponese che recita così: “Un uccellino che spicca il volo non intorbidisce le acque”. Così come l’uccellino lascia dietro di sè limpida l’acqua così anche noi dobbiamo lasciare un luogo o una situazione con eleganza, pulizia e gentilezza, nel rispetto di chi ci succederà.

Con un fazzoletto pulire la superficie del tavolo di un caffè, risistemare la sedia. L’insignificanza della vita che nella fine acquista peso, volume e bellezza.

NIKONN, Sunday