grazie

Dire grazie e dire scusa

Giorni fa ero in attesa al semaforo, ostinatamente rosso e prolungato, nonostante la fretta, nonostante la pioggia che cadeva lieve ma insistente. Quella pioggerellina ostile che ti bagna e ti rallenta, ma senza accollarsi più responsabilità di così.

Avevo Sousuke nel marsupio, imbambolato dal freddo tornato all’improvviso nella notte. Ancora poco e saremmo giunti nella seconda cuccia, l’asilo dove, già da un paio di settimane, è iniziato un inserimento dolce dolce. Stretto contro il petto, all’incrocio, con due borse gonfie nel cestino della bici, una per le mie scritture ed una per la sua mattina breve, d’un tratto ho sentito un tocco lieve sulla spalla.

Mi sono voltata, con la paura d’aver lasciato cadere qualche cosa, una mano che raccoglie come briciole gli oggetti che scivolano fuori da una tasca, oltre il bordo di una borsa. Era una anziana signora, con occhiali larghi dalla montatura corallo, imbacuccata in vari strati per ripararsi dal vento che faceva le bizze. Un gesto rapido del braccio ed eccoci tutti e due, Sousuke ed io, sotto la corolla del suo ombrello.

Ci porgeva il suo riparo, ci cedeva la sensazione bella d’essere all’asciutto nella pioggia.

 L’ho ringraziata, un po’ commossa.

“Ha freddo? Sta così buono” ha replicato sorridendo. E subito s’è affrettata a spiegarmi il gesto, come spalancando un finestra per mostrami un paesaggio, come vi fosse bisogno d’una giustificazione per essere gentili. Ma in Giappone serve spesso un buon motivo per rompere la distanza che qui è la base del rispetto, una doppia protezione per sè e per quello che dell’altro non si sa. “Sa, ho un nipote anch’io, sono una nonna. Ma purtroppo è lontano”

DSC06734 - コピーLe ho chiesto quanto spesso lo vedesse. “Quattro volte in un anno” ha risposto.

“Ma domenica prossima vengono a trovarmi” ha aggiunto subito raggiante.

“Un maschietto o una femminuccia?”

“Una bambina, di un anno e mezzo”

Poi è scattato il semaforo e il discorso si è interrotto. Il nuovo nipote che sta per arrivare è rimasto lì, in punta di lingua, la gioia solo apparecchiata. Ma le vite fuggono via rapide all’incrocio delle strade, si intersecano nei pochi metri di un pezzo di città, è un miracolo, è un attimo di pausa e subito ripartono veloci.

Grazie, grazie mille. Grazie tante. Grazie veramente.

Ogni lingua tiene un gran numero di frasi fisse tra le mani, si diverte a osservarne i mutamenti allo stesso modo in cui guarderebbe una creatura che evolve nei decenni, adattandosi a sopravvivere a un nuovo ambiente. Prima pinne e coda, poi gambe ed arti prensili, schiena dritta e linguaggio più complesso.

DSC06748 - コピー (2)Pensavo questi giorni alle tante sfumature di 「もったいない」/mottainai/, che sbuca nel parlato giapponese, a volte profondendosi in inchini, altre esortando alla sobrietà, altre ancora suggerendo mite di accorgersi del disequilibrio tra gli oggetti o i sentimenti, oppure spronando vigorosa a mettere riparo ad un errore.

Nasce originariamente proprio da un sentimento di riconoscenza, enfatizzato nell’abbassare chi parla. Una accezione vicina al 「申し訳ないくらい」 /moushiwakenai kurai/ , letteralmente “tanto da dover chiedere scusa”.

Ed allora:「もったいない言葉をいただく」 /mottainai kotoba wo itadaku/ ovvero “ricevere parole di cui non ci si sente degni”, magnifiche parole, lusinghiere.

DSC07520È un grazie che, come quasi sempre accade nella lingua giapponese, si mischia al sentimento del perdono, perchè questo popolo è consapevole di come spesso ciò che si riceve, sottrae qualcosa a chi lo dà.

“Grazie” e “Scusa” sono due espressioni che nel Sol Levante si tengono per mano.

Donare è rinunciare, farlo bene è non far intuire all’altro l’eventuale privazione. Il compito di chi riceve, invece, è non dare il ricevuto per scontato, operando piuttosto un esercizio di immaginazione che lo metta nei panni di chi dà e che, per quanto elegantemente lo celi, a qualcosa ha effettivamente rinunciato.

DSC06877 - コピーAl di là del sentimento di gioia che si può provare nel far del bene a un altro, concedere un favore è indubbiamente privarsi di un piacere o di una comodità, che sia dar la precedenza ad altri su una stretta via, spostarsi per lasciar passare una bicicletta, acquistare un dono, cedere tempo per ascoltare le ansie di un amico, preparare una pietanza a mano. Offrire il riparo del proprio ombrello ad altri, finendo per bagnarsi.

Amo il grazie che sempre si inchina in questa lingua.

Non è solo 「ありがとう」  /arigatō/ , 「ありがとうございます」/arigatō gozaimasu/, 「感謝しています」/kansha shiteimasu/ (le sono riconoscente)  ma è anche 「すみません」/sumimasen/ ,「申し訳ありません」/mōshiwake arimasen/, poi c’è 「どうも」/dōmo/ privato dell’arigatō che spesso segue.
Ed è giusto così, che una parola importante come “grazie” non cresca solo di intensità nell’aggiunta di “davvero, molto, mille”, ma che sveli i suoi tanti sentimenti.

Da quando è nato Sousuke scelgo del grazie soprattutto le sfumature del perdono, il sumimasen e moushiwake arimasen e, in genere, pronuncio queste frasi con una frequenza superiore. Sia perchè la dolcezza che manifesta la gente per questo bimbo esuberante è tanta, ed ho molto di cui essere grata, sia perchè effettivamente far quadrare ogni pezzo della catena di montaggio che è l’allevare una creatura è  complicato, richiede ingegno, richiede negli altri una clemenza, una tolleranza, una flessibilità che di ovvio non hanno proprio nulla. D’un tratto ciò che non si può controllare supera di molto quel che invece è stabilito e non si muove. Quindi grazie, ma anche scusi, scusa, scusate.

DSC07535Il kanji di /arigatō/ del resto lo racconta. È 「有難う」, in cui c’è 「有る」 /aru/ che è “essere/esistere” e  「難い」 che è /katai/ ovvero “difficile”. Pertanto si ringrazia considerando la difficoltà dell’esserci di qualcosa, del ricevere un favore, un gesto di gentilezza che non deve essere accolto come ovvio.

Per prima cosa… grazie!

Oggi, chiacchierando con una cara amica su skype – di quelle conversazioni che ci separano di due o tre continenti a seconda della sua mutevole collocazione – mi è tornata in mente un’ intervista ad una atleta giapponese mandata in onda un paio di mesi fa in televisione durante un popolare programma della mattina. 
Si parlava della preparazione alle Olimpiadi di Londra, dell’allenamento ma anche dell’attitudine mentale in vista della grande prova. Questa atleta – forse una maratoneta, non ricordo –  spiegava all’intervistatore che, come esercizio di supporto psicologico, scriveva sul suo quadernino questa frase, la stessa ogni giorno: 

“Grazie di cuore della medaglia d’oro ricevuta alle olimpiadi di Londra”

Il quadernino che mostrava alle telecamere era fitto fitto di scrittura. Righe tutte uguali che recitavano la stessa frase piena di riconoscenza per una medaglia (ovviamente) mai – o non ancora – ricevuta.
In questo modo, lei diceva, riusciva a trasformare l’ansia da prestazione in riconoscenza e grazie a questo sentimento a caricarsi ogni giorno di positività.
E commentavamo con la mia omonima amica, che attraversa per amore continenti, che è proprio così che bisognerebbe affrontare le sfide e i grandi progetti della vita. 
 

L’addio agli aghi o l’importanza delle cose.

Oggi in Giappone è il giorno in cui gli aghi da cucito che si sono rotti vengono portati al tempio「針供養」(harikuyo).

Mi sono chiesta il perchè. Aghi? Rotti? E perchè al tempio?
Mi hanno risposto le studentesse e mia suocera che ho raggiunto al telefono mentre aspettavo il treno. Pezzetti di informazioni che cuciti tutti insieme hanno fatto di una tradizione, come sempre, un dono. Qualcosa che è di tutti ma, da oggi, anche un po’ mio.

Una tradizione che risale all’epoca Edo e che ha la finalità di ringraziare gli aghi per il lavoro svolto. Aghi dalla cruna rotta, aghi spezzati, piegati dallo sforzo. Un gesto che è bello per davvero. Dedicare tempo e un viaggio verso il tempio ad un oggetto che, con dedizione, ha lavorato per noi a lungo.
Quanta delicatezza, ho pensato.
Ed anche se adesso sono ormai soprattutto le persone che lavorano nell’ambito della sartoria giapponese ad onorare questa tradizione, penso a quanto da quest’ultima ci sia ancora da imparare.

Vorrei che questa attenzione al lavoro svolto dagli oggetti, potesse essere estesa a molte altre cose che circondano la nostra quotidianità e che ci limitiamo ad usare e, una volta che non ci servono più, a gettare via.

Dare più importanza a ciò che acquistiamo e che ci accompagna nella vita di tutti i giorni avrebbe come risultato quello di curare maggiormente noi stessi. E il consumismo avrebbe finalmente un freno. Perche’ nell’attribuire anima a una cosa la si cura. La si sostituisce solo quando è veramente necessario.

E allora osservo la copertina tutta rovinata del mio dizionario elettronico, il cucchiaio di legno che accompagna le mie danze in cucina da tantissimi anni, lo schermo rigato del mio cellulare, la custodia del mio pc portatile, la pentola consumata in cui ho cucinato i miei primi piatti per Ryosuke.

E mi dico che tra tutti, quelli più consunti, sono proprio quelli che di me raccontano di più. Quelli che conosco meglio. E che di me sanno più degli altri.

*Trovate qui la successione fotografica dell’evento. (in giapponese)
* In fotografia alcuni scatti della nostra gita a Jindaiji 深大寺
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