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L’Ufficio Postale del Futuro

Se esistesse un servizio di posta dilazionato nel tempo. Se scrivessi una lettera con la promessa che ti sarà recapitata un anno più tardi.

〒 Cosa sceglieresti di dirti?
〒 Cosa sceglieresti invece di non dirti?
〒 Userai parole semplici, quotidiane per raccontarti? Oppure scalerai i massimi sistemi, andrai dritta alle grandi emozioni?

Scriverai a te o a qualcuno che ami? O magari a qualcuno che non sai se tra un anno sarà ancora nella tua vita?
Sei sicuro che abiterai la stessa casa?
E se così non sarà, chi credi leggerà quella lettera quanto ti sei scritto?

Durante il viaggio in Hokkaido – di cui ci resta ancora addosso forte l’eco – abbiamo scoperto un angolo della ryokan che parlava di posta e di futuro, per l’esattezza Mirai yūbinkyoku 未来郵便局.
Ho letto con quella fame tipica della scoperta (e della meraviglia che sempre l’insegue) ogni riga scritta intorno alla futuristica cassetta postale, sui toni del bianco e dell’azzurro.

Ecco allora che Mirai yūbinkyoku 未来郵便局 è un servizio creato da un privato (Yoshiaki Kaihatsu) che, in dieci zone del Giappone, in certi periodi precisi, offre la possibilità di spedire una lettera che verrà tuttavia recapitata dopo un intero anno. Il servizio costa 200 yen, ed è comprensivo della carta da lettere, un cartoncino blu intenso, la busta, il francobollo già apposto.

 Cercando in rete ho tuttavia scoperto come in Giappone esista un altro servizio attivo tutto l’anno e su tutto il territorio, che custodisce lettere e capsule del tempo fino a cinque o dieci anni. Cartoline, lettere e veri e propri pacchetti pieni di  tesori di quel tempo preciso che si vuol ricordare, alla maniera di quel gioco che è tanto diffuso in questo paese e che ho ritrovato spesso nei film, nei libri e nei manga giapponesi, ovvero la creazione di capsule che venivano poi seppellite in giardino, o in un parco, in luoghi che si credeva sicuri e, in qualche modo, eterni.

Spesso capita che i protagonisti – in momenti particolarmente critici della loro vita – rinvengano per caso quelle capsule, e si accorgano di quanto il tempo li ha allontanati dalle cose importanti, dagli affetti, da una semplicità del vivere che si perde spesso crescendo. Quell’incontro con i se stessi del passato, di solito stravolge la trama, rimette moralmente in sesto i protagonisti dopo averli stravolti ben bene emotivamente.

 Del resto, per capire quanto questo gioco col tempo sia profondo nell’immaginario di questo paese, basta inserire le parole chiave su google per veder sbocciare non una ma più aziende che si occupano di questo stesso desiderio di comunicare con un sé del futuro o con una persona importante.

Noi, quel giorno a Shiretoko, di lettere ne abbiamo comprate tre.

 E sul tatami della ryokan, poco prima di partire per la destinazione successiva e lasciare la stanza, ci siamo seduti, il tavolino basso davanti. Eravamo accanto ma nessuno ha detto nulla nè ha sbirciato le parole dell’altro.

Perché Ryosuke mi ha scritto. E io ho scritto a lui.

Quando ho finito, però, ho scritto una seconda lettera, questa volta destinata a me stessa. Non posso dire cosa mi sono scritta, perché serve io lo dimentichi per poterlo un giorno “sentire”.

Perché il gioco non è solo quello della previsione ma della forza che ha il tempo. Sapere che c’è stata – e quindi c’è sempre – una me stessa che ha pensato alla me che diventerò l’anno successivo, e quello dopo ancora. E così via.

Mi ha ribadito in qualche modo il concetto per cui siamo noi coloro che devono vegliare su noi stessi. Che serve considerarsi in terza persona per volersi più bene.

 E scommetto che, anche se questo anno che viene fosse un disastro, sarà bello sapere che mi sono pensata con quell’affetto, che mi sono data ottimi consigli come Alice nel Paese delle Meraviglie, che forse non ne ho seguito nemmeno uno, ma che sono stata capace di volermi bene, di pensarmi con affetto. E quello, più di ogni altra cosa è importante.

Scriversi una lettera. Inviarla all’Ufficio Postale del Futuro. Aspettarsi. Poi dimenticarsi. Ricevere una lettera da qualcuno che non siamo più noi

Lasciare nel tempo parole per i noi che ogni giorno si sommano a strati fino a formarci, proprio come gli anelli nei tronchi degli alberi.

 Ci ricorda quanto serva un po’ di distacco per acquistare oggettività su di sè. Che forse è la cosa più complicata in assoluto da ottenere.

習う, delle ali o dell’imparare

 Da questa camera d’albergo affacciata sul Mare di Okhotsk nell’Hokkaidō, dove un tempo vivevano solo gli Ainu e in cui in inverno la superficie si ghiaccia e a riva arrivano ernormi blocchi colmi di plancton, qui dove il pavimento è di tatami e il letto è un tutt’uno col legno scuro che profuma la stanza, qui dove fare l’amore è solo un rotolare e la pelle tocca materie inedite alla asettica pulizia della città, qui da cui si scorgono – nella stessa immensa cornice della finestra – pescherecci attraccati e monti abitati da cervi selvatici, volpi, aquile di mare ed orsi bruni, resto accucciata ad ascoltare lo stridere dei gabbiani mentre, guardando verso il cielo, ne osservo il ventre e, buttando giù nel mare gli occhi, ne scorgo il dorso.

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 Imparare ha ali d’uccello in questa lingua. Sono in origine i kanji di 「」 /u/ ali e quelli di 「」 /etsu/, che è particolare contenitore usato negli antichi rituali e il cui coperchio rimane un poco aperto, di modo che vi si scorgono dentro le preghiere al dio. Ed ecco 「習う」 narau che è imparare, apprendere, studiare.

 Sembrano ali bianche 「白」 (e nel contemporaneo ne hanno tutte le fattezze), ma celano in quel kanji a cinque tratti qualcosa che nell’antichità significava molto di più.  L’imparare ha delle ali la persistenza, il continuo movimento d’apertura e di chiusura che fa infine spiccare il volo ad un essere che, solo pochi istanti prima, sembrava invece ancoràto alla terra.

 Imparare a volare è emulare. Imparare è, per prima cosa guardare, ascoltare, assaggiare, toccare, annusare.

DSC04540 Poi apri un libro, leggi qualche pagina e, per quanto banale sia, la verità che è che ogni volta che lo chiudi sai qualcosa che prima di aprirlo non sapevi. Qualcosa che era altrui e che adesso è diventato tuo.

  Porta dipendenza l’imparare. Ha in sè una difficoltà iniziale cui segue una felicità duratura, un piacere nell’essere sè e, insieme, altro da sè.

 Si impara per riuscire un giorno a sbattere le ali. Per volare via magari da situazioni sociali e familiari, magari persino geografiche, che costringono ad un’esistenza che non si ama, che non ci si confà. Per non rassegnarsi, per non tenere rimpianti, per non arrivare al punto di non avere più il coraggio di provare e di buttarsi a capofitto nella vita..

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 Come un enorme televisore che mostra solo cose degne d’essere mostrate, mi siedo a strapiombo sulla visuale di questa stanza di Shiretoko 知床 (che in lingua Ainu significa “estremità della terra”) e guardo il mare tramontare, il cielo ondeggiare e la vita agitarsi pacifica al ritmo delle onde.

 Dorme Ryosuke, il corpo disordinato sul suo letto, il braccio a ripararsi dalla luce, il volto abbandonato al sonno. Quando si sveglierà glielo chiederò, ripetendo ripetendo ripetendo ancora domande che valgono come il riso o come il pane, come l’abitudine bella di ogni relazione che non muore.

Mi ami?

Ti amo da morire!

C’è bisogno di morire per amare?

Nella mia lingua serve, sì.

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  Lo yukata a sera poi ci stringerà i fianchi, le enormi maniche svolazzeranno sopra alle pietanze e servirà fermarle con una piccola pinzetta, ai piedi calzeremo ciabatte e fotograferemo il cibo solo per riguardarcelo tra noi e ricordarne la gioia. Che quando non la si ha tra le mani, la felicità sembra che non ci sia stata mai. La si scorda tanto facilmente.

  Imparare è forse questo. Ripetere uno stesso movimento, tentativi che non si esauriscono in una manciata di sassolini sul selciato ma s’ampliano a dismisura in un lunghissimo viale di cui la fine non si scorge mai. E imparare ad amare e a farsi amare non è diverso. È ripetere azioni, sentimenti, darsi la possibilità di sbagliare, di riprovare, di farsi perdonare. Ed è difficile ma bello.

 Tanto che, una volta iniziato a sbattere le ali, non si finirà probabilmente di farlo mai.

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♪ M83 – Wait (Kyogo Remix)

Sapporo e del 「季節限定」

Se fosse un sapore sarebbe quello speziato e liquido del soup curry スープカレー, la consistenza solida del riso, quella pastosa delle patate, la sensazione granulosa delle pannocchiette tra denti e lingua, la croccantezza del formaggio arrostito in una sfoglia sottile. Poi sarebbe il gusto accomodante della melanzana, quello setoso della carne di pollo che si scioglie sul palato.

  Sapporo per noi è soprattutto un sapore che, in alcuni fine settimana pigri di Tokyo in cui non sappiamo deciderci dove andare a mangiare, torna alla bocca. Desideriamo allora tornare da Dominica, scovare questo ristorantino senza la difficoltà della prima volta, impugnare la maniglia della piccola porta di legno ed entrare nell’India giapponese che non è più India ed è ormai, e del tutto, Giappone.

Rincorriamo da sempre il cibo. Piacere del palato e del corpo tutto.
Ci piace soprattutto ciò che è limitato nel tempo e che i giapponesi riassumono in una espressione precisa  季節限定 (kisetsu gentei) se la limitazione si riferisce alla stagione, 期間限定 (kikan gentei) semplicemente alla durata  – o 地域限定 (chiiki gentei) se invece essa è relativa alla regione. Perchè rende più piacevole la vita, sottolinea la necessità di goderne in quel preciso istante e spinge anche i più abitudinari a fare nuove esperienze.

La scadenza del kisetsu gentei è il tempo che perde il cerchio e si fa linea, di cui quindi è possibile concepire una conclusione e non l’infinito ripetersi. È la scusa per cogliere il momento: “tempus fugit”, “carpe diem” dicevano i latini, 「時は金」 (toki wa kane) dicono i giapponesi riprendendo il nostro detto “il tempo è denaro”.

L’oggi che in questo secolo liquido sembra un continuo presente e che nelle grandi città offre tutto sempre, fragole in ogni stagione, frutti tropicali, pesce che in mare starebbe ancora lottando per riprodursi e prosperare. Avere tutto sempre, come se i desideri avessero il diritto di essere perennemente soddisfatti, confonde, a volte persino castra la voglia di provare nuove cose.
Perchè sono lì, sempre ci saranno e non c’è fretta di provarle. E invece sentire il tempo passare, le stagioni scambiarsi di posto a volte persino con la velocità di certi giochi di sedie e di bambini, fa bene. Che abbia il sapore di una bevanda ai fiori di sakura, del sushi di polpo, del tempura di nanohana non importa. Purchè accada.

Per noi viaggiare è camminare e poi mangiare. Fare fotografie e poi fermarsi ad un caffè per scrivere (io), per leggere (lui). La neve rallenta i passi, rende goffi gli scarponi che procedono su venti, trenta o più centimetri di neve ormai ghiacciata che ricopre quasi tutti i marciapiedi. Sembra di camminare sospesi, in bilico tra la terra e il cielo, che le ha sbrodolato addosso tanta neve.

Per noi Sapporo è anche andare al cinema, vedere film che abbiamo rimandato a lungo perchè a Tokyo i weekend sembrano finire troppo presto e c’è così tanta voglia di fare e di vedere che chiudersi in una sala buia sembra un peccato capitale. Ma in vacanza abbiamo il tempo dalla nostra, in una quantità che ci vizia.

Andiamo allora verso l’ex fabbrica della birra che prende il nome dalla città (la Sapporo Beer), un complesso che è stato completamente rinnovato ed ora ospita un centro commerciale arioso e pieno di luce. Anche la sera mangeremo soup curry perchè conosciamo un altro ristorante delizioso. Fuori intanto continua a nevicare. Fiocchi grassi, generosi.

  
  Un’altra notte in quella stanza, in quel letto ampio e profumato. Domani partiremo, verso un altro spicchio dell’Hokkaido. Hakodate.

♪ GLAY 誘惑