imparare

習う, delle ali o dell’imparare

 Da questa camera d’albergo affacciata sul Mare di Okhotsk nell’Hokkaidō, dove un tempo vivevano solo gli Ainu e in cui in inverno la superficie si ghiaccia e a riva arrivano ernormi blocchi colmi di plancton, qui dove il pavimento è di tatami e il letto è un tutt’uno col legno scuro che profuma la stanza, qui dove fare l’amore è solo un rotolare e la pelle tocca materie inedite alla asettica pulizia della città, qui da cui si scorgono – nella stessa immensa cornice della finestra – pescherecci attraccati e monti abitati da cervi selvatici, volpi, aquile di mare ed orsi bruni, resto accucciata ad ascoltare lo stridere dei gabbiani mentre, guardando verso il cielo, ne osservo il ventre e, buttando giù nel mare gli occhi, ne scorgo il dorso.

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 Imparare ha ali d’uccello in questa lingua. Sono in origine i kanji di 「」 /u/ ali e quelli di 「」 /etsu/, che è particolare contenitore usato negli antichi rituali e il cui coperchio rimane un poco aperto, di modo che vi si scorgono dentro le preghiere al dio. Ed ecco 「習う」 narau che è imparare, apprendere, studiare.

 Sembrano ali bianche 「白」 (e nel contemporaneo ne hanno tutte le fattezze), ma celano in quel kanji a cinque tratti qualcosa che nell’antichità significava molto di più.  L’imparare ha delle ali la persistenza, il continuo movimento d’apertura e di chiusura che fa infine spiccare il volo ad un essere che, solo pochi istanti prima, sembrava invece ancoràto alla terra.

 Imparare a volare è emulare. Imparare è, per prima cosa guardare, ascoltare, assaggiare, toccare, annusare.

DSC04540 Poi apri un libro, leggi qualche pagina e, per quanto banale sia, la verità che è che ogni volta che lo chiudi sai qualcosa che prima di aprirlo non sapevi. Qualcosa che era altrui e che adesso è diventato tuo.

  Porta dipendenza l’imparare. Ha in sè una difficoltà iniziale cui segue una felicità duratura, un piacere nell’essere sè e, insieme, altro da sè.

 Si impara per riuscire un giorno a sbattere le ali. Per volare via magari da situazioni sociali e familiari, magari persino geografiche, che costringono ad un’esistenza che non si ama, che non ci si confà. Per non rassegnarsi, per non tenere rimpianti, per non arrivare al punto di non avere più il coraggio di provare e di buttarsi a capofitto nella vita..

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 Come un enorme televisore che mostra solo cose degne d’essere mostrate, mi siedo a strapiombo sulla visuale di questa stanza di Shiretoko 知床 (che in lingua Ainu significa “estremità della terra”) e guardo il mare tramontare, il cielo ondeggiare e la vita agitarsi pacifica al ritmo delle onde.

 Dorme Ryosuke, il corpo disordinato sul suo letto, il braccio a ripararsi dalla luce, il volto abbandonato al sonno. Quando si sveglierà glielo chiederò, ripetendo ripetendo ripetendo ancora domande che valgono come il riso o come il pane, come l’abitudine bella di ogni relazione che non muore.

Mi ami?

Ti amo da morire!

C’è bisogno di morire per amare?

Nella mia lingua serve, sì.

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  Lo yukata a sera poi ci stringerà i fianchi, le enormi maniche svolazzeranno sopra alle pietanze e servirà fermarle con una piccola pinzetta, ai piedi calzeremo ciabatte e fotograferemo il cibo solo per riguardarcelo tra noi e ricordarne la gioia. Che quando non la si ha tra le mani, la felicità sembra che non ci sia stata mai. La si scorda tanto facilmente.

  Imparare è forse questo. Ripetere uno stesso movimento, tentativi che non si esauriscono in una manciata di sassolini sul selciato ma s’ampliano a dismisura in un lunghissimo viale di cui la fine non si scorge mai. E imparare ad amare e a farsi amare non è diverso. È ripetere azioni, sentimenti, darsi la possibilità di sbagliare, di riprovare, di farsi perdonare. Ed è difficile ma bello.

 Tanto che, una volta iniziato a sbattere le ali, non si finirà probabilmente di farlo mai.

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♪ M83 – Wait (Kyogo Remix)

Dei kanji o dell’arte di creare storie

Spesso le cose più belle sono anche le più complicate.
Quello giapponese è un popolo la cui lingua nasce e perdura nel suono, acquista forma adottando disegni che sono scrittura. Accoglie la scrittura cinese ma vi applica sopra la propria lingua, elabora altri due alfabeti sillabici e dall’assemblaggio di questi tre elementi crea qualcosa di nuovo.

Il Giappone, all’inizio di tutta questa avventura, era per me solo una forma grafica, un miscuglio di segni fatti per essere decifrati, un linguaggio segreto come quello dei bambini. Ho sempre amato le cose complicate, mi restituivano il peso del mio valore e del mio impegno, misuravano la resistenza, la mia pazienza.
Che l’obiettivo sia più lontano possibile, mi sono talvolta trovata a pregare, perchè vivo la maledizione di una sorta di svuotamento quando raggiungo gli obiettivi che mi pongo. Come se nella realizzazione si celasse anche la fine delle cose.

Ci sono persone che hanno storie da raccontare, oggetti che suggeriscono viaggi, luoghi che dicono tanto di chi li ha attraversati, amati e lustrati sotto suole di scarpe, sotto zampine.
Così, con lo stesso carico di misteriose connessioni, viaggiano nel mio immaginario i kanji.

  È la parte più complessa della lingua, quella più volatile, quella che non si fa possedere mai del tutto. Come un animale selvatico di fascino e fierezza che non si lasci addomesticare e rimanga a guardare, con occhio vigile ai lati del bosco, i nostri movimenti. Misurando le distanze.

Per apprendere i kanji non basta l’occhio ma serve la mano, il movimento del braccio, l’impugnatura solida delle dita e il movimento che differenzia un carattere dall’altro. Una cosa, questa, che una tastiera non è in grado di fare. Perchè i tasti sono troppo vicini, le dita a pigiare sempre le stesse e l’occhio – sovrastimolato nel quotidiano – del risultato se ne fa poco o niente. Lo accetta ma non lo problematizza e la didattica insegna che è il percorso – quello dello studente che non capisce e quindi ipotizza – a fissare il ricordo. È la strada costruita con fatica a riportare il kanji al suo “proprietario” e non l’inverso. Non basta guardarli. Non sono gioielli da esibire ed ammirare ma cose da usare, con cui aprire barattoli, con cui tagliare frutti. Sono maniglie che aprono porte. Bisogna toccarle.

I kanji devono diventare come quelle melodie provate così tante volte al pianoforte che basta la prima nota – e non più lo spartito – per far scattare la danza sicura delle dita. È innanzitutto automatismo.
È la parte più dura della lingua. Non cede alle preghiere. Tempra e giudica la motivazione di chi studia.

Eppure, a guardar bene, sono solo disegni, collage di elementi presi dal mondo vegetale, minerale ed animale. Da un tempo di uomini e dei che, con tono perentorio, decisero la definizione delle cose, la fecero disegno e infine scrittura. E anche nel sopraggiungere dei secoli serve tornare ancora a quel tempo per capire il perchè di alcuni caratteri, il pensiero che vi sottostava.

Allora non è più solo il Giappone ma anche la Cina e l’antropologia che scava usi e costumi di uno dei tanti popoli che furono.

Così la neve (yuki) è una mano che spazza via la pioggia. La pioggia (ame) che si trova nella nuvola (kumo), nella foschia (kasumi), nella nebbia (kiri), nel tremore etc. etc. E di volta in volta ha ruoli diversi.
La parola esame 試験 (shiken), composta da due caratteri, si rifà all’antica Cina in un periodo in cui gli affari bellici e religiosi erano centrali nella vita del paese. La parola natura 自然 (shizen) racconta della Cina dell’antichità, della carne del cane e degli dei. Spiriti, capre, esecuzioni, elmi, fuochi ed accette.
Amore (ai) è guardarsi indietro ed esitare. Il marito (otto) ha uno spillone conficcato nella chioma. La sera (yoru) ha la luna sotto il tetto. Il nord (kita) sono due uomini che si danno le spalle.

A volte sono storie crudeli, di un’era in cui c’erano meno uomini, meno diritto ma più natura, meno distruzione delle risorse del mondo. In cui c’erano lance, porte di legno, cani e cavalli. Nei kanji spesso periscono uomini e animali, si celebrano gesti rituali rivolti alle divinità, abiti dell’epoca, spiriti maligni, campi di riso, rocce e bandiere svolazzanti nel vento.

La spiegazione della loro origine è spesso controversa e sembra una di quelle storie che hanno ancora e sempre avranno un margine di spazio perchè le si possa rimaneggiare, reinventare.

Insistete, insistete a studiarli. E nel farlo divertitevi, inventate storie, giocate con le assonanze (che son tante) con la nostra lingua, fatene un tic, un passatempo. La matita alla mano e un pezzo di carta da incidere di disegni che vi faranno sentire sempre un po’ speciali perchè nessuno intorno a voi li comprenderà.
Fatene un linguaggio segreto, come nel Club dei 7 o dei 5, un vizio e diletto.

Niente in questa vita è tanto serio da non accettare il gioco e i kanji sono creature ludiche, sono ragazzini che corrono via non appena li perdete d’occhio. Bimbi piccini che hanno bisogno di vedervi spesso per ricordarsi di voi. Per questo ci vuole costanza nello studio dei kanji perchè basta niente che scappino via.   
  Teneteli forte per mano e ogni settimana ritagliatevi uno spicchio d’ora per disegnarne la forma dietro a uno scontrino della spesa, sul bordo di un libro, su un volantino distribuito fuori dall’università.

Imparatele come poesie. Cantatene le letture. Aiuta.

Migliaia di versi che la nostra generazione non è più abituata a maneggiare. Come un Omero dei tempi recenti, diamo ad ogni kanji una forma mentale, facciamone versi, creiamo favole. Ne usciremo con più conoscenza, maggiore memoria e persino più immaginazione.

♪ X JAPAN, Rusty Nail

Fonti (per saperne di piu’)

→ 常用字解 第二版 [単行本] 白川 静 (著)
→ 白川静さんと遊ぶ 漢字百熟語 (PHP新書) 小山 鉄郎