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Gli stereotipi sono abiti logori

  “Sei felice in Giappone?”
“Si’, da morire”

E’ un dono ma anche una maledizione perchè sai che non potrai più vivere altrove. Quindi, tanto vale capire a fondo il paese che ti vedrà morire.

   E’ forse questa la motivazione profonda per la quale non mi accontento del sentito dire, dell’iniziale percepito che conserva in sè le difficoltà delle prime volte, la solitudine abbacinante che comporta il trasferirsi soli in un estero tanto remoto. Per questo, perchè so che qui io ci morirò, lo stereotipo del “dicono che i giapponesi…”, del “mi è sembrato che questo paese…” non mi serve a niente.

E’ come chi vuole convincerti che il mondo fa schifo, che la gente tutta vuole solo prenderti in giro, che l’uomo è capace solamente di bassezze. Persone che ci mettono una dose troppo esagerata di entusiasmo nel ribadirlo, un’eccitazione ributtante nell’enumerare tutte le “ragioni sacrosante” per cui la vita è un mucchio di bugie, perchè loro hanno capito tutto e tu nulla. Persone che si scagliano contro chi in quella sfera d’acqua, mare, carne e tanto altro, ci vede anche del bene e ci crede persino. Cazzate, dicono, non hai capito niente, sei solo un ingenuo.
Ho la sensazione, da sempre, che il desiderio di condividere la bruttezza sia un tentativo malriuscito di liberarsene. Un desiderio destinato miseramente a fallire, perchè a ripetere il negativo lo si aumenta. E allora tentano almeno di contagiare chi hanno intorno in modo da non avvertire il continuo fallimento del non essere stati capaci di vederla, la bellezza.

Per questo, dopo tanti anni ormai, sono refrattaria alle sciocchezze o semplicemente ai giudizi pronunciati prima del tempo. Come che per i giapponesi soffiarsi il naso in pubblico è come defecare (!!!), che se non succhi il ramen o la soba sbagli, che i giapponesi sono solo apparenza, che sono ipocriti, che la loro gentilezza e’ solo in superficie, che sono bambini, che non parlano mai etc. etc.
Pensare male è tanto più facile. Cercare di capire richiede invece umiltà, sforzo, tanto tempo e una dosa immensa d’amore. E’ come con le persone, nè più nè meno. Se le ami cerchi di capirle, ti metti in discussione. E non si può amare chiunque. A volte si ama e non si è amati, altre si è amati e non si ama. Molto più rararamente accade il miracolo e il sentimento è corrisposto secondo lo stesso grado di passione.

Così io amo il Giappone e ci sono voluti anni, tre per la precisione, per iniziare a capire e, soprattutto, per cambiare atteggiamento nei confronti del diverso. Sospendere il giudizio, fermare l’opinione prima che giri l’angolo e scompaia là dove le mani non possono più riafferrarla e, in caso, cambiarle la pettinatura.

Gli stereotipi sono abiti logori, indossati da troppi, pregni del sudore di molti, della rabbia, del rancore, spesso ancor più della frustrazione e della tristezza di chi non è riuscito o non ha il coraggio di provare, della fretta, della vergogna di non aver capito, dell’insofferenza che scatta per la stessa ragione, della presunzione. A volte solo del disinteresse.
Ebbene preferisco confezionarne di nuovi, scegliere io il colore dei miei abiti e la loro misura.

Il malcostume della nostra amata Italia frizzantina è anche insito nel giudicare sempre tutto, nel criticare con asprezza senza certezza delle proprie ragioni, nel cercare sempre il risvolto della giacca per evidenziarne cuciture, nell’esser certi che “a pensar male il più delle volte ci si azzecca”, nel credere più al brutto che al bello, alla colpevolezza che all’innocenza. Nel pensare che nella scortesia sia insita la sincerità e nella gentilezza la falsità.

Donne a comizio sulla spiaggia, raccolte sotto a un ombrellone, tutte intente a indicare cellulite, nasi grossi, costumi che rivelano inestetismi, abiti che “non ci si può proprio permettere” o, nel caso di persone conosciute, pettegolezzi che naturalmente pendono sempre sul disprezzo, sulla riprovazione per qualcosa.
Il gruppo è rinforzato dall’esclusione di un elemento estraneo, l’amicizia dalle critiche severe verso un terzo.
Non mantiene saldo il rapporto solo ciò che c’è di bello in esso ma anche il sentimento di riprovazione da condividere a discapito di altri. Una tendenza che è insita nella maggior parte di noi italiani e che spesso un poco incrina la qualità della nostra vita. Ma è una scelta e un’abitudine sociale e culturale e, pertanto, non c’e’ da sentirsi meno di nessuno.

Eppure in un mondo tanto differente come quello giapponese non solo è sbagliato giudicare secondo la scala di valori del proprio ecosistema (l’antropologia culturale lo insegna) ma è come bruciarsi un’occasione. Un’Occasione. Quella di essere diversi, di scegliersi ed educarsi, di comportarsi con più misericordia e maggiore garbo. Per me, almeno, e’ stato cosi’. E solo di me posso parlare.

E allora mi dico che è valsa la pena sbattere la testa contro l’incomprensione, la solitudine, farmi male, soffrire a fasi alterne per tre anni perchè non ero sicura che questo fosse il posto adatto a me.
Ne e’ valsa la pena. Perchè adesso alla domanda: “Sei felice?” io rispondo sempre “sì”.