malattia

Uno studente (quasi) come tanti

  Ero sul letto stamattina, chiedendomi non che cosa fare, ma cosa pensare. Chissà se mi è mai successa una cosa così.
Laura, cosa pensi? Cosa puoi pensare adesso? Cosa ti viene in mente? Cosa stai pensando? Cosa stai pensando?

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Il mio primo incarico all’università l’ho avuto a ventisette anni. Ricordo l’emozione, la soddisfazione, la paura, la curiosità. Negli anni classi e università sono aumentate.

Ognuna ha un suo paesaggio umano. Coincide in parte con il ranking, in parte con gli studi in cui eccelle.

Alcune studentesse vengono con le borse firmate Gucci e le perle al collo, altre con pantaloncini cortissimi, gambe chilometriche ed occhialoni tipo star, alcune con le ballerine ai piedi, altre con le ciglia finte ed unghie così lunghe e decorate che ti affascina anche solo starle a guardare affrontare la materialità del quotidiano. Alcuni faranno di sicuro un master negli Stati Uniti, passeranno le vacanze in Europa con i genitori o con la nonna, altri lavoreranno part time tutta l’estate.

DSC02781Alcuni ragazzi si godono l’università e stanno dietro al club di orchestra, a quello di danza; altri hanno solo fretta di inziare a lavorare. Alcune ragazze aprono lo specchio, osservano le loro lunghissime ciglia, poggiano le lenti colorate sul banco perchè “sensei, scusi sa, ma mi pizzicavano”. Altri sono destinati a diventare interpreti e traduttori, scrittori, politici ed artisti. Alcuni funzionari, altri a sposarsi e a fermarsi lì.

Alcuni ti dicono “arigatou” a fine lezione, altri ti salutano vociando e magari aspettano che escano tutti per chiederti consiglio su un ragazzo o una ragazza che gli piace. Università che sfornano eccellenze, altre che accolgono ragazzi complicati che però, più anche di quelli ricchi e bene educati, ti affidano la loro vita, hanno una sincerità in corpo che ti fa sentire, nel profondo, il significato del verbo insegnare, dell’essere sensei. Una figura per cui, a comprenderla per bene, si diviene un riferimento, un aiuto, talvolta un modello, a volte semplicemente qualcuno a cui raccontarsi.

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 Poi l’anno finisce. A volte sono due, a volte tre. Ma prima o poi finisce.

 Capita che ti riscrivano per raccontarti del loro viaggio in Italia. Ti chiedono anche di incontrarti, per un tè, una passeggiata al parco. Ci infilano dentro tanti ma dai, ma che davvero, ed altre espressioni piene d’una sorpresa che è nella lingua italiana, nell’entusiasmo che tutto accende come fuochi. Parlano di corsa, hanno voglia di dirti tutta la bellezza che hanno vissuto, di dimostrare progressi faticati ma profondamente goduti, perchè – ed è questo che cerchi sempre di insegnare – imparare dona un potere e una gioia che restano incorruttibili nel tempo.

 A volte, invece, tra te e loro non è più l’italiano ma solo il sè. La ricerca del lavoro, i colloqui, la loro vita che dopo la fine dell’università è andata in altre direzioni. Del ragazzo storico che sta per diventare marito, dell’amore che non viene, del figlio che vorrebbero ma è ancora troppo presto, dell’orario d’ufficio che è duro, della nostalgia nei confronti di quelle lezioni in cui eravate solo voi, ad affrontare una lingua bella, una cultura, il quotidiano di cancelli che s’aprono al mattino, della campanella.

DSC02836 Negli scorsi due anni, per il corso di italiano principianti e per quello intermedio, ho avuto un ragazzo speciale. Cinese d’origine ma giapponese – a suo dire – in tutto il resto. Il migliore nella graduatoria dell’università, un ragazzo motivato e intelligente. Un padre violento, una famiglia complicata, tanta voglia di superare i ventuno anni e di andarsene di casa. Voglia di rivalsa per un passato altrui di cui a volte la famiglia ti fa inconsciamente pagare lo scotto.

 Prima o dopo la lezione capitava spesso che ci vedessimo per parlare. Io avevo la mia adolescenza complicata, i miei terribili ventuno, le esperienze personali che varie coincidenze avevano purtroppo con la sua. L’identità, la ricerca, la costruzione passo passo della felicità che, seminata come farebbe Pollicino, fa sì che tu ritrovi sempre la strada verso essa. Gli dicevo di quanto avevo faticato io, di quanto ci avevo anche creduto, delle scommesse che vanno fatte nella vita perchè, prima o poi e in una misura che è impossibile prevedere, ti ripaga. E anche se non sono fuochi d’artificio ce lo si fa bastare. Si riesce, infine, ad essere gioiosi. Gli dicevo così.

DSC02432Si parlava di futuro, solo di futuro. Anche davanti ad un caffè, il marzo scorso, tornata dall’Italia, perchè aveva voglia di dirmi dei suoi studi, dei progetti. Di qualche dubbio che poi, ero convinta, con il tempo si sarebbe risposto da sè.

 Stamattina trovo una sua email nella posta e mi torna in mente che, proprio due giorni fa, con Ryosuke ci chiedevamo come stesse. “Bene, di sicuro. È un ragazzo in gamba”. Sorridendo, apro il messaggio.

 È ricoverato all’ospedale, ha un cancro maligno al cervello.  I medici dicono che è una massa molto difficile da curare. Martedì dovrà decidere se provare la cura o rinunciare. Mi scrive ordinatamente, in fila, gli orari di visita dell’ospedale. Mi chiede di andare a trovarlo prima di allora. Ha solo, ancora, ventuno anni.

 Ed eccomi tornare all’inizio di questa scrittura. Al letto su cui è sdraiato Ryosuke che ha la varicella e rimane scoperto e dolorante tra le lenzuola, alla Gigia che è alla finestra ad osservare mondi, avventure complicate di gatti, porte e farfalle che vede solo lei. E a me, a me che non mi chiedo cosa fare adesso, perchè da fare io non ho proprio nulla, ma cosa pensare, cosa pensare.

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Il risveglio

Pioggia che accoglie il corpo che fatica. Finalmente la stagione delle piogge si riappropria del suo nome e bagna questa terra.
Tokyo si fa un flipper e i colori sbattono veloci sull’asfalto, i semafori stampano cerchi irregolari di rosso, verde e arancio sulla strada.

Uno straniero in un caffè di Shibuya si vanta d’essere qualcuno con due sconosciute, ragazze giapponesi che ridono eccitate, gentili e insieme un po’ nervose. Lo straniero ha un atteggiamento assai aggressivo per lo standard giapponese. Ma spesso le diverte. Raramente le impressiona veramente. Lei si chiama Mia, o Mya. Lui non lo so. Non faccio in tempo a capirlo. Spingo play e la musica interrompe ogni altra traccia sonora.

In questo caffè di Shibuya il tempo scorre secondo più velocità. E mentre me ne accorgo ed immagino la scena di una storia scritta a mano, penso ad altro. Al fatto che per amore si rinuncia anche a quello che si ama. Un amore vince un altro e se davvero è più grande di tutto non lascia troppe scie di dispiacere. Certo, un’ombra resta, ma dopo poco Peter Pan se la porta via e la restituisce al suo giusto proprietario.

Sono state settimane concitate in cui la Gigia si è ammalata, reiterando quel che accadde un anno fa. Una ripetizione, questa volta, con meno garanzie e con la certezza che la fortuna più di due volte all’uomo non si dona. All’animale chi lo sa.

In attesa di quel che sarà e che non si può controllare, ho rivoluzionato la mia vita. La casa, nei pomeriggi liberi dall’università, tornerà ad essere abitata. E il tempo lo donerò a lei che vive come sette ogni mia ora, una settimana un giorno, sette mesi un solo mese, sette anni un solo anno. Il romanzo nel frattempo ha trovato un gran bell’editore, la tesi di dottorato chiede più scrittura. Chissà che l’altruismo verso questa creatura – che viaggia a una velocità moltiplicata per le vite dei gatti – non si riveli un egoismo di successo.

  Un amore vince un altro. Non sempre c’è bisogno di paragonare gli affetti, di edificarne una piramide ma, quando accade che lo spazio sia minuto, si operano scelte. E sì, per amore accade che si rinunci anche a ciò che si ama.

Circondata da odore di pane appena sfornato, da bocche di uomini e di donne che vedo muoversi ma non produrre suono, Shibuya è per me il luogo del risveglio.
Uno schiaffo in pieno volto.

I giapponesi dicono 「人事を尽くして天命を待つ」 ovvero “Fai tutto quello che e’ in tuo potere e attendi la decisione del cielo”.
Ed io ho fatto tutto il possibile. Adesso aspetto.


♪ Switchfoot – Awakening

Delle parole che non vorresti mai imparare

Da quando ho incontrato la Gigia ho imparato la parola ecografia 超音波検査, lastra レントゲン検査. Subito dopo l’adozione della Gigia, abbiamo imparato termini mai sentiti neppure in italiano perchè pare abbia una malformazione cardiaca e che ogni operazione sarà sempre un rischio. Ma lei è gioia pura e da fuori non si direbbe affatto che sta male.

Ad ogni modo, anche se sono complicate queste parole, così lunghe e così lontane dal mio mondo linguistico, le imparo. Me le scrivo e faccio in modo da non dimenticarle.  Arriva però il giorno in cui devo imparare parole anche più dure come, in associazione, vescica 膀胱  e poi tumore 腫瘍.

Martedì dal veterinario, scopro infatti che la Gigia ha un tumore. Maligno o benigno non si sapeva ancora. Ma le parole promettono cose. E se sono termini con echi sinistri, belle non possono essere. E, purtroppo, avevo ragione.

 Guardo questa creatura inconsapevole di tutto e mi dico che vorrei tanto non aver imparato queste parole ma anche che da oggi, per curarla, ne dovrò imparare ancora altre, anche di più complicate. E voglio che siano termini in cui vi sia spazio per l’azione, per il fare. Per il curare.

Passa intanto una settimana e nell’ignoranza che mantiene ferma ogni azione – perchè nello specifico ancora non ci sanno dire, le analisi sono imprecise, il corpo un giocattolo troppo capriccioso –  capisco che forse è arrivato il momento di arrabbiarsi. E per la prima volta da anni mi arrabbio. E grido impazienza. E allora ci indirizzano in un ospedale dove ogni cosa si fa più semplice e più chiara. Anche se, inevitabilmente, più costosa.

Non trattengo niente dentro. Sono così. Di chi non amo non mi curo – taglio via la bruttezza della gente come un paio di cesoie i rami secchi. Ma di chi amo mi curo in modo persino maniacale e non c’è dettaglio che non noti. E di questa cagnolina, incontrata in un giorno d’estate in un canile di Shinagawa, posso dire di sapere tutto.

E torno alla memoria a quel giorno.

“Aspetti qui che gliela porto” mi dice il veterinario del canile mentre con un micino bianco e nero sulla spalla si allontana lungo un corridoio pieno di porte e di luce.

Sono emozionata. E come accade quando sono emozionata il cuore diviene un organo che si sente, qualcosa che non è ovvio che ci sia.

L’uomo torna. Lo vedo arrivare e automaticamente mi accuccio per accogliere quella creatura che non ho ancora incontrato ma che ho già deciso di fare figlia e migliore amica. Tira forte perche’ e’ eccitata quanto me, mi si butta addosso e nelle mani è magra e perde pelo.

“Vuole sapere il nome con cui la chiamavano prima?” mi chiede il veterinario del canile.

“No” rispondo decisa. “E’ un nome che ha dentro un abbandono. Le posso dire pero’ il suo nuovo nome. Si chiamerà Gigia. Come Topo Gigio, ma al femminile. Sa, in italiano abbiamo il genere dei nomi. Basta cambiare la -a in -o e viceversa”

Sorride. Ma piano. Ha un viso serio questo veterinario. La dolcezza la nasconde nel sorriso che, di tanto in tanto, gli trasforma il volto. Forse, penso, è una di quelle persone che per lavoro hanno a che fare con la cattiveria della gente. Del resto chi ha portato lì la Gigia ha firmato un foglio in cui autorizzava la sua eventuale soppressione…

Così, mentre al secondo piano dell’edificio vado a seguire il seminario in cui il veterinario mi spiega come accudire il cane, mi mostra in barattoli di vetro cosa fa la filaria alle viscere di un cane, mentre prendo appunti dalle slides in power point, ho nel cuore l’emozione di quella creatura con il naso nero e umido che ho incontrato poco fa.
E’ la procedura per adottare un cagnetto dai canili giapponesi. Due lezioni, due seminari di un’ora circa l’uno. E dopo qualche scartoffia la creatura è tua.

Il primo regalo che le fai è il nome. Allegro, pieno della dolcezza delle gi e della bellezza della tua lingua madre. Il secondo è un collarino blu che hai comprato insieme a Miwa il giorno prima, quando Ryosuke ti ha detto che c’è un inu (cane, cagnetta) che si può andare subito a prendere ma che, dato che nella parola giapponese non c’è il genere, tu – chissà poi perchè – hai pensato fosse un maschio.

Da quel giorno sono passati due anni e lei è diventata a tutti gli effetti nostra figlia.

La Gigia non ha la coda. Ma ti guarda. E i suoi occhi restano puntati nei tuoi occhi.
Ed io voglio esserne all’altezza.


***Ci vuole tempo, cura e tanta pazienza. Settimane indaffaratissime. Per un po’ sottrarrò tempo al pubbico per concentrarmi sul privato.
Torno, sì. Ma con tanto meno tempo per gestire tutto. Grazie dell’affetto – in una misura che mai avrei immaginato – che mi avete mostrato. Mi ha convinto a non chiudere nè pagina nè blog.
Il mio secondo admin si occuperà completamente della gestione del blog. Io vi entrerò quando avrò da inserire nuovi post. Mi perdonerete se leggerò con ritardo i commenti. Lo farò tutto in una volta, tra un po’. E anche sulla pagina ci sarà qualcuno che mi aiuterà. Grazie a loro ma anche a tutti voi. Mi scuso e vi abbraccio. Laura

Della spiritualità e dei "koinobori"

Oggi, tornando a casa a piedi, ho allungato il giro, per il puro piacere di sentire il tempo. Di ogni passo che significa qualcosa e diviene collezione di un’immagine, di un prufumo.

Ed è proprio attirata dal profumo intenso di peonie che mi sono avventurata in un piccolo tempio. Per poi scoprire che era la residenza dei monaci e che il tempio vero e proprio era a uno o due edifici di distanza. Annuso a lungo il bianco, il rosa e il fuxia dei fiori le cui corolle sono sparse qui e là a terra e a prenderle in mano occupano un palmo intero.

Accanto vi è una stazione dei pompieri. E’ il rosso dei camion e il suono squillante delle voci maschili che si rincorrono tra il primo e il secondo piano della struttura. Oggetti dall’utilizzo misterioso, guardo e non capisco.

Vado ancora avanti e sulla sinistra noto un minibus parcheggiato che, sul retro, è in fase di manovra. E’ per far scendere un anziano in sedia a rotelle che ha il viso completamente perso nell’eta’ e nella malattia. Un grumo nero sotto il naso e gli occhi fissi davanti a sè. Distolgo lo sguardo perchè mi sembra di rubare. E lo strazio del corpo e del cuore sono di chi li possiede e di chi si vuole li condivida con sè. Di nessun altro.

Oggi, tornando a casa piedi, mi sono fermata a pregare. 

Ho atteso che la vecchina che lentamente mi precedeva salisse i gradini di legno, lasciasse il suo carrellino a meta’ strada e raggiungesse il luogo di preghiera sui suoi piedi.
E intanto preparavo monetine color bronzo da gettare tra le fessure che accolgono le preghiere della gente.
Inchini e battiti di mani e palmi giunti e occhi chiusi.
Perchè il mio desiderio si avveri e mi faciliti discese.

C’è bisogno di spiritualità a questo mondo.

Sono giorni di vacanza, intervallati da altri di lavoro. Facendo a zig zag tra il piacere ed il dovere la Golden Week e’ iniziata e continuera’ per altri sei giorni.

Ed ecco che questo maggio pieno di colori si rivela attraverso le sue feste. Sono due settimane circa che colgo fuori dai balconi delle case e nei cortili delle scuole i koinobori, le carpe di stoffa colorate che s’agitano al vento.

Una antichissima leggenda cinese racconta che una carpa, risalendo le fortissime correnti di una cascata, si tramutò in un dragone. Gli crebbero due corna sulla testa e divenne una creatura florida e potente.

La leggenda giunse in Giappone dove le famiglie dei samurai e dei mercanti iniziarono ad allestire i koinobori per pregare per la buona crescita dei figli maschi della loro stirpe.

Che i bambini crescano forti e in salute come carpe. 
Che risalgano la corrente e si facciano strada nella vita.