Murakami Haruki

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (3/3)

Ho sempre pensato che leggere Murakami Haruki è come bere un bicchiere d’acqua sul cui fondo, però, vi si scorge qualcosa che sembra scintillare. E così, volente o nolente, per guardare da vicino quel baluginare e capire di cosa si tratti, si manda giù il contenuto tutto del bicchiere, qualcosa che, a seconda del giorno e della condizione fisica, sa dissetare o invece nauseare.
Qualcosa che è come il protagonista di questa storia: incolore, vuoto eppure perfetto contenitore di storie inverosimili e insieme possibili.

D’altro canto, come conferma anche quest’ultimo romanzo, lo stile di scrittura di Murakami Haruki è piatto, semplice al limite della banalità. La frase inizia e finisce nella più prevedibile sintassi. Egli utilizza sempre la stessa gamma di termini tanto che mi sento di poter consigliare questo romanzo anche a stranieri che desiderino leggere un testo in lingua giapponese senza dover necessariamente consultare il dizionario. Il linguaggio è pressochè sempre colloquiale e composto da brevi frasi.

Ribadisce più volte gli stessi pensieri: una ripetizione che fa sì che si possa riprendere il libro in mano anche dopo una settimana di abbandono. Replica fino all’ossessione il sentimento del momento – un momento lunghissimo che si trascina dall’inizio alla fine del racconto senza significative variazioni.

Forse anche per questo Murakami Haruki ha ricevuto più consensi all’estero che in Giappone.
Perchè nella traduzione la sua prosa rende un po’ di più. Acquisisce un’eleganza che il suo giapponese non possiede.
La facilità di fruizione del suo stile, d’altronde, è una delle chiavi del suo successo. La sua accessibilità linguistica, a fronte d’una lingua e una cultura per molti versi intraducibili, espande il suo pubblico a livello planetario. La moda, come in ogni altro campo, ha fatto il resto.

Nel caso di questo romanzo, la cui tematica è incentrata sulla mancanza di colore del protagonista, sul suo essere scialbo, insicuro, privo di caratteristiche forti, tale stile di scrittura potrebbe però risultare persino efficace, voluto e per questo tollerabile anche a chi, come me, gli preferisce piuttosto stili corposi, varietà lessicale, caratterizzazione meno stereotipata dei personaggi.

Ad una prosa tanto piatta s’accompagna però l’architettura perfetta della trama. Ogni pezzo del puzzle è perfettamente funzionale e funzionante. Quel lampo sul fondo del bicchiere d’acqua luccica dall’inizio alla fine del romanzo. Un punto interrogativo di cui vien voglia fortemente di sapere la risposta.

Concepire l’impossibile è difficile. Magritte lo sapeva. “Sia nei momenti ordinari della vita, sia in quelli straordinari, il nostro pensiero non manifesta appieno la sua libertà. È incessantemente minacciato o coinvolto in ciò che ci accade. Coincide con mille e una cosa che lo limitano. Questa coincidenza è quasi permanente.”
John Berger parlava qui di Magritte come di chi cerca di sperimentare ed esprimere l’Impossibile, ultima sponda della libertà.

Credo che al di là del reale valore della letteratura di Murakami Haruki, cosa che pur tenendo conto della fama del momento (e della moda ad essa indissolubilmente annessa) saranno solo i posteri a decretare, è proprio questo anelito alla libertà, al diritto all’inspiegabile ad affascinare i lettori.
I suoi personaggi sono spesso stereotipati, piatti. Camicie ben stirate ma null’altro. Nessun guizzo. Le storie che li coinvolgono però sono extra-ordinarie, rimescolano il concetto di normalità rimettendo in discussione tutto.
Si tratta di quel sentimento di scoperta del reale che stupisce e fa sperare che vi siano misteri nella nostra vita che, spesso incolore, scivola via.

Parte 1/3
Parte 2/3

♪AI  ハピネス

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (2/3)

L’incolore Tazaki Tsukuru.
Colourless Tsukuru Tazaki.
色彩を持たない多崎つくる.

È questa la prima parte del titolo del nuovo libro di Murakami Haruki.
Ma dopo c’è un “と” che è l’inglese “and” e il nostro “e”. E cosa?

e gli anni del suo pellegrinaggio
And His Years of Pilgrimage
と巡礼の年

 
  Gli anni del suo pellegrinaggio sono sedici per la precisione finchè nella vita dell’insicuro, del vuoto, dell’incolore Tsukuru entra Sara e lui, per la prima volta, vuole che questa donna resti nei suoi giorni. Un desiderio che non ha precedenti e per questo tanto più prezioso.

Lei avverte in lui quel grumo di irrisolto e con la schiettezza di una donna più matura lo convince ad affrontare il suo passato. Non andranno più a letto finchè Tsukuru non farà il primo decisivo passo per sciogliere quei nodi. Finchè non andrà ad incontrare i suoi amici di Nagoya, farà loro domande, e non scoprirà i perchè, i come e i cosa di quel rifiuto che lo ha cambiato per sempre.
Quasi tutto si saprà. Il resto si potrà dolorosamente intuire. Lo farà lui, Tsukuru, e lo farà anche il lettore a cui Murakami non è avvezzo a spiegare mai ogni cosa.

Tutto combacia perfettamente in questo libro. 「無駄がない」 “non c’è nulla di superfluo“: un’espressione che ricorre spesso qui come anche nei romanzi di Ogawa Yoko. Murakami sembra ricamare l’essenziale, un’architettura in cui tutto ciò che c’è è necessario. E così anche la seconda parte del titolo fa riferimento al leitmotiv del romanzo all’interno del quale, come sempre capita nei romanzi di Murakami, vi sono anche molte note e pentagrammi.

Scorre un particolare sottofondo musicale: è Liszt e “Gli anni del pellegrinaggiosono il titolo di un’opera per piano di ventisei brani divisa in tre parti corrispondenti ciascuna alle fasi dei viaggi del musicista compiuti tra il 1835 e il 1839: la Svizzera, l’Italia e poi ancora l’Italia.

Torna nel libro più volte. Una melodia suonata dalle mani di Shiro e tornata nel tempo di Tsukuru perchè Hai la riporterà in forma di cd a casa sua. E rimarrà brano di bellezza, ricordo e nostalgia per tutta la durata del romanzo.
“L’incolore Tsukuru e gli anni del suo pellegrinaggio” è un’opera attraverso cui l’erotismo (eterosessuale e omosessuale) passa serpentino. Vi si raccontano le prime esperienze sessuali, sogni erotici di incredibile vividezza, dettagli descritti nudi e crudi. Termini “forti” che Murakami non lesina al lettore ripetendoli con ostinazione, accompagnandovi aggettivi ed avverbi che ne enfatizzano l’intensità.

Murakami Haruki è innanzitutto un fenomeno mediatico prima ancora che letterario. Cameraman di varie reti televisive e giornalisti di testate nazionali sono andati a riprendere ed intervistare i lettori devoti che dalla tarda notte alla prima mattina stavano ordinatamente in fila fuori dalle librerie per acquistare le primissime copie. La famosa libreria di Jimbocho “Sanseido” a Tokyo, per la prima settimana dall’uscita del romanzo, ha mutato il proprio nome in “Libreria Murakami Haruki” omaggiando così lo scrittore.

Egli ha l’indubbio talento di riuscire a creare mondi, a insinuare il dubbio che vi sia una realtà oltre quella da noi quotidianamente percepita, un mondo in cui le regole vigenti siano stravolte o, cosa ancora più destabilizzante, leggermente diseguali. Lo scarto tra esse, la fessura che s’apre tra realtà ed illusione è il luogo prediletto di Murakami Haruki. Negli interstizi di ciò che è spiegabile si insinua l’inspiegabile.

In questo romanzo la dualità del Reale/Altro Reale o Illusione si gioca all’interno dell’individuo, sul suo lato rischiarato dalla luce e quello in ombra. Come le facce della luna, scrive Murakami in una pagina di questo libro. La differenza tra la percezione che si ha di se stessi e quella che gli altri hanno di noi e’ la chiave di lettura dell’incolore Tsukuru che si crede tale ma forse non lo è.

♪ Liszt – Années de pèlerinage. Première année: Suisse, S. 160 [André Laplante]

(fine seconda parte)

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (1/3)

Tazaki Tsukuru. Cognome e nome, nell’ordine che in giapponese mette la famiglia prima della scelta. Suo padre ha destinato a lui queste tre sillabe “tsu-ku-ru” e ne ha fatto un kanji che è proprio quello che significa “costruire, edificare, fabbricare”. 「作」. Un nome che è un presagio.
Tsukuru è affascinato fin da bambino dalle stazioni, sia da quelle delle grandi città che accolgono treni gonfi di gente sia da quelle che collegano piccole località di campagna dove il tempo sfuma pigro tra un transito e un altro. Si siede lì Tsukuru, e resta ore ad osservare il diverso traffico di gente che aspetta, sale, scende e se ne va.

 
  È l’unica cosa che sa fare. Costruire, progettare, risolvere problemi e migliorare quel microcosmo che è la stazione. Tutto il resto sembra sfuggirgli di mano. L’amore, le amicizie, la stessa coscienza di sè.
Ha trentasei anni, è in buona salute, discretamente attraente, è un tipo pulito, non beve e non fuma, ha un lavoro che lo soddisfa, una buona fama nell’ambiente, una casa di proprietà in un bel quartiere di Tokyo. Ciò che ha minato la sua sicurezza e che lo rende l’ombra di se stesso, è un avvenimento accaduto sedici anni prima. Un fatto scioccante che lo ha portato sull’orlo della morte e di cui lui, ancora adesso, non conosce la ragione.

  Negli anni del liceo Tsukuru faceva parte di un gruppo di cinque amici, affiatati ed uniti come capita raramente nella vita. Si erano incontrati ad un campo estivo di volontariato cui, casualmente, avevano aderito solo loro: Tazaki Tsukuru, Akamatsu Kei, Oumi Yoshio, Shirane Yuzuki, Kurono Eri. Tre ragazzi e due ragazze.

I punti in comune tra di loro erano tanti. Erano tutti originari di Nagoya, le loro famiglie erano più o meno benestanti, erano brillanti.
Con il tempo il rapporto tra i cinque si era irrobustito, inspessito, cementificato. Quel circolo privato ed esclusivo divenne per ognuno di loro qualcosa di irrununciabile, una presenza quotidiana che li rendeva l’uno assolutamente indispensabile all’altro. Una sola regola: nessuna relazione sentimentale tra loro.
Finito il liceo solo Tsukuru si allontana da Nagoya per seguire a Tokyo l’università mentre tutti gli altri decidono di restare in città. Gli amici gli mancano ed ogni volta che gli si presenta qualche giorno di vacanza sale sul primo shinkansen e corre a Nagoya per incontrarli.
Fa così anche all’inizio delle vacanze estive del secondo anno di università. Sale con pochi bagagli sullo shinkansen e torna a Nagoya. Appena arrivato chiama come sempre gli amici, uno ad uno, ma chi risponde al telefono – con voce che Tsukuru percepisce crescentemente imbarazzata – gli dice che non sono in casa. Nessuno lo richiama quel giorno, nè il giorno seguente. Prova ad insistere, richiama. Ma, ormai Tsukuru l’ha capito, continuano a farsi negare.
Poi una sera, dopo le otto, arriva una chiamata. È uno di loro che esordisce così:
“Scusa ma vorremmo non chiamassi più a casa nostra”
Silenzio. Imbarazzo. Tsukuru è terrorizzato e perplesso. E quando chiede infine e debolmente il perchè l’amico gli risponde: “Se ci pensi, lo capisci da solo, no?”

Da quel momento, come recita l’incipit del romanzo, Tazaki Tsukuru inizia a vivere pensando ossessivamente alla morte, tocca il limite e dopo sei mesi, per una qualche ragione che gli è ignota, torna a vivere. Riprende peso, ricomincia a mangiare, smette di pensare solo alla propria morte.

Eppure Tsukuru è letteralmente un sopravvissuto, e chi sopravvive perde dell’esistenza la percezione che ha chi, invece, ha avuto la fortuna di essere sempre solo vissuto. Si trascina nei giorni con apatia, torturato dalla sensazione che chiunque entrerà nella sua vita si accorgerà prima o poi di quanto egli sia vuoto e incolore e lo abbandonerà definitivamente e senza prevviso. Terrorizzato a quel pensiero, Tsukuru fatica a imbastire rapporti sociali e amorosi. Avverte costantemente la fine di ogni cosa e sul filo del conscio-inconscio decide di non investire più nei sentimenti.
La sfera onirica insegna a Tsukuru il significato di sentimenti potenti, ingestibili, sentimenti che lui – ferito a morte nell’emotività – non crede neppure d’essere più in grado di poter provare. I sogni, in questo romanzo, sono funzionali al protagonista quanto se non più della vita reale che, scialba, egli conduce suo malgrado.

『色彩を持たない多崎つくると、彼の巡礼の年』 “Colorless Tsukuru Tazaki and His Years of Pilgrimage” ha una copertina piena dei colori che, in modo martellante, vengono fuori nel romanzo a gridare una presenza e soprattutto una mancanza. Incolori sono i giorni ma anche alcuni modi di dire, alcuni visi, alcune persone. Qualcosa a cui manca colore quindi sapore, qualcuno o qualcosa che è monotono, scialbo, vuoto.

I colori in questo nuovo romanzo di Murakami Haruki sono quattro più uno. Principalmente. C’è:
il rosso, Aka (Mister Red) diminutivo di 赤松慶 (Akamatsu Kei);
il blu, Ao (Mister Blu) ovvero 青海悦夫 (Oumi Yoshio);
il bianco, Shiro (Miss White) soprannome di 白根柚木 (Shirane Yuzuki);
il nero, Kuro (Miss Black) diminutivo di 黒埜恵理 (Kurono Eri) .

A parte – e molto dopo – viene il grigio, Hai (Mister Grey) che degli altri quattro non sa e non saprà mai nulla.

Di quel gruppo di amici del liceo, così unico, morboso e irrinunciabile, solo Tazaki Tsukuru non ha il “colore” nel cognome. E così, da un semplice gioco di parole, nasce l’insicurezza. S’allarga, s’ingigantisce. Lui, tagliato fuori per sempre e senza spiegazioni da quel gruppo pieno di tinte, è l’unico senza colore.

L’incolore Tazaki Tsukuru.
Colourless Tsukuru Tazaki.
色彩を持たない多崎つくる.

(fine prima parte recensione)

Parte 2/3
Parte 3/3

♪ リスト/巡礼の年報 第1年「スイス」 4.「泉のほとりで」,S.160/R.10,A159