passeggiata

Raggiungere la meta è poca cosa

DSC06012È un giorno di pioggia. Ed è già autunno.

 I capelli crescono di mese in mese e il sogno di bambina, di veder le punte lenire i gomiti, inizia a realizzarsi. Ma vanno spuntati, che s’aprono a ventaglio nella fine, impazienti forse d’arrivare. Si dimezzano e così acquistano leggerezza, una levità che punta non al gomito ma al cielo.

 Ai è la ragazza che mi taglia i capelli da tre anni ed ha un piccolo salone a Shimokitazawa. Ci salutiamo con un abbraccio e la manina, come i bimbi. Poi, lasciandoci con la promessa di rivederci quando l’albero di melograno del suo guardino darà frutti e prepareremo insieme il risotto rosa del suo succo, inizio a scendere le scale.

 Arrivo alla stazione e lì, lì mi si apre la scelta.
Se tornare a casa, prendere la Linea Inokashira e far ritorno a Kichijoji. Oppure… oppure passeggiare, mutare itinerario. Ed oggi nelle gambe ho una gran voglia di andare. Così, anche se riprende a piovere e l’odore si fa intenso, inebriante, chiedo ad una guardia Shibuya dov’è? A destra o a sinistra? e comincio a camminare.

 Mi ritrovo a dirmi: “Non avere fretta di arrivare” e me lo ripeto a lungo, per non obliare le parole e perdere il pensiero. “Non avere fretta di arrivare”.

  La meta, benchè io sia solita inseguirla con testardaggine, costanza, e accanimento, spesso mi addolora. È la conclusione d’una avventura, la fine d’un sentimento d’arco e freccia.

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Oggi non ho appresso la macchinetta fotografica eppure scorgo scorci che meriterebbero un polpastrello, una rotazione, un lievissimo clic come d’una palpebra che si chiude per riaprirsi un istante dopo, con ancora più voglia di vedere.
Ma anche la dimenticanza è una benedizione, quella che ferma l’ingordigia, la tensione verso la memoria che a volte supera persino la voglia e la capacità di vivere il momento. L’accumulazione di scatti, il mostrare che non sempre coincide con un autentico vedere.

   Ecco, la sfida più che ricordare è forse proprio quella di vedere.

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Guarda Laura, tieni gli occhi aperti
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 Su quest’uomo dal capo rasato, sonori geta ai piedi, il legno che rende l’asfalto della strada uno stumento musicale, un kimono scuro e un arco di kyūdō stretto in mano. Osserva la discesa precipitosa di questa stradina, il suo cadere a capofitto nel proprio ventre, un piegarsi verso l’ombelico, per poi risalire subito dopo dritta come in una posizione ginnica in cui solo il centro del corpo resta a terra e gli estremi mirano al cielo, lottano contro la gravità.

  Un negozietto di dagashi, l’anziano proprietario in pantaloni beige larghi in vita e una cannottiera bianca come la sua capigliatura, due piccini di quattro o cinque anni che porgono monetine per i dolcetti da pochi yen che hanno raccolto nel piattino.

  Le strade serpentine che affiancano i binari del treno, l’eco dello scampanellare del passaggio a livello, sciamare di liceali all’uscita dalla scuola, il loro acuto vociare esclamativo, il verde maestoso che questa città nasconde nelle pieghe, un enorme parco di cui non conoscevi neppure l’esistenza.

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E penso che se fossi una guida turistica, in questa Tokyo che m’accompagna ormai da un terzo della vita, farei scendere il mio gruppo di curiosi in una stazione di minima statura e comincerei con loro a camminare, a mostrare di questa città il lato meno conosciuto, quello che si ama e che ha sia un tempo che si ferma sia uno che procede rapido verso il suo replicarsi e farsi male.

  Tanto che a Shibuya poi, non ci arrivo neppure propriamente, mi fermo prima, faccio perdere le mie tracce a me stessa, a quella che ha sempre fretta di arrivare, di finire e nella conclusione ha il vizio capitale di valutare tutto il resto.

  Non avere fretta di arrivare. Raggiungere la meta è davvero poca cosa. E si ciba del percorso che la precede e che sempre seguirà. L’idea della felicità cambia di spessore e consistenza a mano a mano che si procede sulla via.
  Così l’inizio di un viaggio, uno riuscito – nel senso di qualcosa che ci ha tolto di dosso qualche peso e ce ne ha aggiunto qualcuno di nuovo, che ha risposto a qualche nostra domanda ma ce ne ha donate, di domande, tante altre – è un inarrestabile cambiare, non solo del proprio modo di vedere,ma anche del luogo verso cui si è diretti.

DSC05925 È il sentiero heideggeriano*, “un sentiero” che non dà alcuna garanzia a priori d’essere quello giusto, d’essere capace di condurci alla meta. Eppure “la nozione stessa di procedere verso qualcosa non soltanto precede il raggiungimento di qualunque fine ci siamo proposti, ma, in un certo senso equivale a questo fine per dignità e significato”*

  Non anticipatevi mai nulla. Non sottraetevi la verità dell’imparare, la gioia del fallire, il dolore del riuscire.
La meta, davvero, è poca cosa.

  ♪ SEKAI NO OWARI  『スターライトパレード』

A Shibuya piace cambiare, salire e scendere le scale.

Scendi a Shibuya. E non è mai per caso.

  Tokyo è carne, sangue, stoffa e cellulari. Shibuya è il tripudio degli abiti e degli stili. Mi mette allegria vedere gente tanto diversa percorrere strade che, col tempo, sono diventate così familiari da macchiarsi d’uno strano senso di nostalgia. Perchè Shibuya, se la ami, poi ti manca.

  E allora ci vado sola, magari sulla via di qualche incontro di lavoro, oppure con il profilo di Ryosuke accanto al mio o ancora con la mia amica Miwa che di questo quartiere conosce più cose di chiunque. Alcuni luoghi così maledettamente belli da dover rimanere per forza segreti.

  Ci incontriamo un lunedì pomeriggio in una bolla di profumo. E’ il primo piano del grande magazzino Seibu dove i trucchi li puoi provare gratis e tra matite e rossetti, circondata da giovani donne che sorridono d’ogni movimento d’aria, ti viene voglia di essere più bella.
Usciamo nel sole di luglio e iniziamo a camminare.

  C’e’ una stradina incastrata tra gli edifici e in fondo un minuscolo tunnel sopra cui sfreccia la verde Yamanote. E per attraversarlo, colmo di biciclette a destra e sinistra, ti sembra sempre di dover chinare il capo. Passa un tipo in moto, di quelle grosse, nere e roboanti.

  Fuori dal tunnel c’è un parcheggio ma a destra s’apre una stradina piena di bar di pochi metri quadrati, infilati a mo’ di cuccette nella carrozza di un treno di seconda classe.
Come una freccia vi scocchi lo sguardo, e alla fine della via – decorata con lanterne bianche e rosse – un uomo salta e l’altro scatta. Nella foto quel ragazzo volerà, sembrerà librarsi in aria. E’ Natsumi che lo dice.

  S’apre una scala azzurro cielo, tre ragazzi cingono l’entrata. Uno è seduto a terra, un altro in piedi a destra appoggia il corpo alla ringhiera. Un terzo è alto, tatuato ed ha uno sguardo così intenso che ti fa abbassare il tuo. Attraversi. Scala e corpi.

  Cosi’ saliamo, perchè Miwa lo sa che io adoro due cose: le altezze e le fotografie.

  Scopro così che il parco Miyashita 「宮下公園」 che prima era rifugio dei senzatetto – celesti nell’immaginario dei tokyoti per il colore intenso delle coperte di plastica con cui avvolgono se stessi di notte e le loro povere cose di giorno – è stato rinnovato dalla Nike ed ora è uno spazio che accoglie ragazzi e il loro desiderio di sport.

  Sbatte la tavola da skateboard, la senti chiaramente insieme al secco rumore delle ruote. La vedi subito. E’ una grossa gabbia in cui ragazzi – giapponesi e stranieri – salgono e scendono da dossi artificiali con più o meno complesse acrobazie. Questi surfisti del cemento e dell’asfalto hanno occhi solo per se stessi, per le loro tavole di legno e per il percorso che immaginano davanti.

  Continui a camminare e ti lasci la gabbia alle spalle. Un campetto di calcio. Poi, salendo di nuovo sul ponte di metallo che ti porterà dall’altra parte dello stradone su cui sorge il nuovo Hikarie, noti in basso un gruppo di ragazzi, uno spazio vuoto e un enorme specchio davanti a loro. E’ lo spazio per la danza.

  Quanto sono bravi i ballerini giapponesi. Resto sempre ammirata. Spingo il punsante dello scatto:
è una ragazza che, come si trattasse di un neonato, avvolge il proprio capo nell’incavo del braccio e, in quell’istante, s’innamora di se stessa.

  Dal ponte di ferro, a destra e a sinistra, panorami gemelli. Clic, clic.
Quanta bellezza! Giro, scatto. Giro, scatto. Sembro una turista anche se questa ormai è anche casa mia. Ma io ancora giro e scatto. Scatto. Giro. E’ come una vertigine.

  Miwa dice che le piace stare con me perchè sono entusiasta e sono allegra. Perchè trovo bellezza ovunque.
Gliel’ho spiegato tante volte.

  E’ che sono innamorata.

A zonzo per un piccolo quartiere di Tokyo, Oshiage.

Per il nostro secondo anniversario di nozze giovedì scorso, che era anche il Giorno della Cultura in Giappone, siamo andati a Oshiage 押上 sulla Toei-Asakusa Line, una linea metropolitana che passa per il famoso quartiere di Asakusa.

Durante la visione del programma del sabato mattina sulla Nihon Television –
「ぶらり途中下車の旅」 (Burari tochu gesha no tabi) – di cui avevo scritto in un precedente post -, siamo rimasti catturati dalla puntata che presentava delle passeggiate a partire dalle stazioni intermedie della suddetta linea.

Quale la nostra sorpresa quando, uscendo dalla stazione, ci siamo subito trovati sulla destra l’imponente torre dello SKY TREE, la cui costruzione verrà ultimata entro marzo~maggio del prossimo anno e da cui sarà possibile osservare Tokyo a 360° dal punto più alto in assoluto.

Uno dei miei scatti preferiti la ritrae tagliata orizzontalmente e verticalmente dai fili della luce, quando ormai il cielo di Tokyo stava lentamente incupendosi (foto 1).

Durante la visione del programma televisivo, un ristorante molto peculiare di tempura, in particolare, ci aveva incuriositi. Ci siamo andati, abbiamo ordinato ed era….. delizioso. Delizioso. Delizioso. E dalla preparazione assolutamente originale.

Uscendo dal ristorante abbiamo scoperto che esattamente davanti si ergeva uno splendido tempio. Il giardino era piuttosto ampio e l’autunno aveva iniziato a modificarne qui e là le tonalità. Il secondo scatto prende parte dell’antico ponte di legno che collegava il tempio ad altre zone di preghiera/abitative e l’inizio del sentiero che guida verso il rigoglioso giardino che si apriva sulla sinistra (foto 2).

E così abbiamo continuato a camminare….

Il quartiere degli strumenti musicali e le stradine secondarie

Sabato scorso, andando verso il Festival della Lettura che si teneva nel quartiere delle librerie di Tokyo, ci siamo persi nelle stradine secondarie che dalla stazione di Ochanomizu portano verso Jimbocho.

Nonostante abbia perso un pochino il lustro di una volta, Ochanomizu è ancora il quartiere per eccellenza dove acquistare strumenti musicali. Basta procedere lungo il viale principale che scende verso Jimbocho per accorgersene.

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E’ pieno di negozi che esibiscono chitarre classiche ed elettriche, violini, bassi etc. al loro ingresso. Ryosuke, appassionato (e un tempo anche studioso) di musica, ha bazzicato spesso per Ochanomizu negli anni dell’università.
E’ stato lui a presentarmi questo delizioso quartiere.

Passeggiando verso la nostra meta abbiamo scoperto un festival universitario (cadono proprio in questo periodo la maggioranza di essi), un piccolo tempio di quartiere, un negozietto di 下駄 (geta) scarpe tradizionali giapponesi incastrato tra due grandi palazzi, uno dei quali decorato da un murales sui toni del blu e straziato dalla luce del mattino (foto n.1).

Sono i colori di Tokyo a stregarmi. I verdi, i blu, i rossi.

E poi uno spiazzo dominato da un grande albero che sorge davanti al piccolo tempietto di cui sopra (lo si nota dalla tipica decorazione che corconda il tronco) e una piccola fila di persone per entrare nel ristorante all’angolo dall’altra parte della strada (foto n.2).
Di nuovo la luce che entra dappertutto, io che scatto qualche foto e Ryosuke che va a leggere le iscrizioni all’ingresso del tempio.

Delle tante fotografie, per oggi, queste due.