persone

P + P + C = un viaggio in treno di lunedì mattina

Quando, alle volte, mi chiedo cosa di questa città mi abbia fatto innamorare penso subito alle Persone e alle Possibilità. Perchè in questo intricato labirinto di strade e vicoletti in cui ogni centimetro ha una sua funzione, ogni spazio – seppur minuto – un essere che lo abita, ho incontrato persone con cui c’è voluto tanto tempo per creare vicinanza ma che poi sono rimaste e mi deliziano la vita. Le posso contare sulle dita di una mano, dita con pochi anelli. Brillanti il giusto, senza esagerare. Ma che a guardarli mi rendono felice ed orgogliosa.
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Perchè se nella moda, come diceva Coco Chanel “quando è tanto è troppo”, in amicizia è uguale. Quelle dei giapponesi, poi, sono vite dense che permettono giusto spiragli e non camere vuote da riempire e chi, in questa città, ha poco da fare finisce per rattristarsi, forse anche per incattivirsi. Tutti intorno sono molto impegnati e se non si vive una vita – non dico frenetica, ma almeno punteggiata da un po’ di lavoro e piena di interessi – si rischia di sentirsi soli
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 Oggi zona Shibuya e scrivo questo post dalle ultime carrozze di un treno affollato della Linea Inokashira, seduta tra un salaryman dall’alito fetente e un ragazzetto che non stacca gli occhi dal suo cellulare, con davanti una ragzza che ha le unghie dei piedi con una coloratissima fantasia di coni gelato in rilievo, altri due salaryman – uno dei quali spicca per un’altezza non inferiore al metro e novanta – e infine una ragazza dai capelli tinti e permanentati, il volto fino, e un camicione a quadri da cui si stacca un bottone.
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Si china a raccoglierlo ed io colgo l’occasione per sbirciare mio marito seduto dall’altro lato della carrozza perchè un posto accanto non siamo riusciti a trovarlo. Ho una decina di minuti e poi chiuderò il pc e ci tufferemo nella folla del mattino di Shibuya.
Cosa mi ha fatto innamorare di Tokyo, dicevo.
E’ anche il Compromesso urbanistico che per assurdo mi riporta a ritroso nel mondo dell’infanzia, alle estati di quando ero bambina nella casa in montagna, alla prima bicicletta che mi venne regalata, all’emozione del pedalare che venne dopo tante cadute, tante sbucciature alle ginocchia e acqua ossigenata nel piccolo bagno che, in quei momenti, mi faceva una gran paura. Perchè – acqua ossigenata e cadute a parte – , qui posso muovermi in bicicletta per andare (quasi ovunque) al lavoro, mettere la spesa nel cestino e tornare pedalando verso casa. 
E poi perchè c’è tanta natura, campus universitari pieni d’un verde che commuove, di prati su cui sdraiarsi a guardare le nuvole passare. E poi ci sono così tanti piccoli parchi, incastonati tra casette a due piani con il giardino intorno. Proprio come accadeva quando ero bambina, nella casa in montagna. E nei giorni d’inverno, in lontananza, da Tokyo vedo anche loro, le montagne. E il Fuji-san che le supera tutte.
Non l’avrei mai detto prima di partire per il Giappone. Così come non avrei mai detto che a Roma non sarei più tornata, che avrei sposato un ragazzo giapponese e che avrei esaudito il sogno di lavorare all’università tanto presto.
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Eccole, le Possibilità.
Che si basano sul dare. E sul conseguente ricevere – sacrosanto – della vita che sognavo.
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Shibuya. E’ il capolinea. Noi scendiamo qua.