takadanobaba

Della neve che preannuncia primavera

Basta aprire le tende, così di colpo, la mattina. E la città è lì davanti a te. Oggi tutta bianca. I tetti coperti dalla neve. L’orizzonte ingoiato dai fiocchi e dalla foschia.

Che spettacolo! mi sono detta e quasi mi dispiaceva andare a lavorare solo per non poter andare in giro a scattare foto nelle mie zone preferite. Ma il mio lavoro, per fortuna, l’adoro e so che il prossimo anno, di nuovo, nevicherà~

La Gigia stamattina era tutta felice e non appena ha visto la neve ha iniziato a correre. Io dietro di lei, con la macchinetta fotografica. Con i grandi stivali rosa sono andata anche al lavoro. Niente bicicletta. Nei giorni di neve è autobus.

Forse è la mia romanità, il fatto che fin da bimba la neve è sempre stata un evento eccezionale, ma la adoro. Inoltre, sembra che la città acquisti un non so che di poetico.
Di giorno e anche di notte. Quando le luci dei lampioni, i fari delle macchine, le tinte accese delle insegne della Tokyo più insonne, si ammorbidiscono.

E mentre i miei viaggi in metro vengono spesso sfruttati per scrivere, per leggere e studiare, nei giorni di neve non riesco a rimanere concentrata. Tolgo persino gli auricolari e mi volto a guardare i tetti bianchi susseguirsi l’uno dopo l’altro dietro le ampie vetrate della Tozai o della Chuo Line. Gli alberi carichi di bianco, i campi che mutano colore.

Quando sono arrivata a Takadanobaba nevicava ancora, un pochino meno forte. A malincuore ho chiuso l’ombrello e sono entrata nel caffè.

E’ l’ultima neve dell’anno. La neve che preannuncia la primavera.

Così, quasi esagerando sul paradosso del binomio, recitavano oggi in televisione. Durante una di quelle appassionanti discussioni sul tempo tutte giapponesi. Pupazzetti che animano cartelloni preparati per l’occasione, mostri che soffiano vento in direzione del Giappone, soli o nuvole sorridenti. Tutto trasformandosi in un gioco.

* In fotografia Takadanobaba coperta dalla neve, la piazza e le “orme” dei bus e dei taxi che vi girano tutto intorno (1); una donna che sale su un taxi, il suo volto di profilo, l’altra che aspetta che arrivi la prossima vettura (2); un tempietto piccino picciò coperto dalla neve di questa mattina (3).

Di sfuggita dalla Yamanote in corsa

Il 24 dicembre. Vicino a Takadanobaba. Un paesaggio che durante la settimana mi è spesso capitato di vedere di sfuggita dal treno mentre passavo da una stazione all’altra. Dal lavoro al riposo. O dal lavoro a dell’altro lavoro.
Dal finestrino ogni volta mi dicevo quanto mi sarebbe piaciuto scattare una foto a quel paesaggio “fluviale” di acqua, ponti e alberi a picco. Il fiume Kanda. E quel blu che luccicava un istante prima che il treno – la linea Yamanote – portasse oltre il mio sguardo.

Poi il 24 dicembre, sempre dal treno in corsa, l’ho mostrato a Ryosuke che era venuto a prendermi al lavoro. Un secondo ed il paesaggio è sfuggito via, come al solito.

“Quanto mi piacerebbe vederlo da vicino.”
“E allora perche’ non scendiamo?” mi ha detto.
“Certo! Scendiamo!” ho risposto.

Ed è così che ho esaudito un piccolo desiderio che nutrivo da tempo. E non vi sarà più rimpianto nel guardare quel paesaggio dal treno uscendo dal lavoro.

Rompere le abitudini fa infinitamente bene ai ricordi.

Tokyo, su un treno. Una mattina, un uomo e…

Qualche settimana fa mi è accaduta una cosa. Delle tante che accadono in questa città. Ero in treno, proprio come stamattina, seduta eppure stipata in mezzo ad una grande folla di salarymen, office lady, impiegati e studenti. Il venerdì e il mercoledì prendo la Tozai Line. Quella blu. Da Kichijoji torno apposta fino a Mitaka per poter salire sul treno al capolinea. Davanti ad ogni entrata ordinatamente attendono decine di persone. Per questo, pur tornando con lo stesso treno fino alla stazione di partenza, è necessario scendere e rimettersi in fila dietro a chi sta già attendendo. Lo trovo molto civile.

Ma il punto non è questo. Ero stanca. Un po’ nervosa per non ricordo più quale motivo. Fatto sta che avevo esattamente davanti a me un uomo piuttosto grasso, con una grossa borsa che finiva regolarmente sul mio pc che tenevo aperto sulle gambe – chiudendomelo. E così, quando è arrivata la mia fermata, mi sono alzata con fatica e con immenso fastidio per il fatto di non essere riuscita a sfruttare propriamente quel tempo mattutino a causa del borsone dell’uomo e quasi (lo ammetto) innervosita al pensiero che proprio lui andasse ad occupare il mio agognatissimo posto a sedere.

Scendo spinta da ogni parte. Takadanobaba la mattina presto è una vera baraonda. Mi avvio verso le scale, circondata ovunque da persone.

“すみません!すみません!すみません!”
Scusi, scusi, scusi” sento da dietro.

Mi giro. E’ lui, l’uomo grasso con il suo borsone che mi chiama.
Le è caduto questo“, mi dice allungando il palmo.
Abbasso lo sguardo su quella grande mano. E lo fa porgendomi uno degli oggetti per me più preziosi al mondo. Il mio pen drive con tutte le lezioni dentro, i miei articoli, gli spunti, i romanzi… tutto nella mano di quell’uomo.

Lo ringrazio ma non ho il tempo di farlo per bene perchè non è la sua fermata e lui si precipita per risalire sul convoglio che nel frattempo si è svuotato e poi riempito ancora più di gente. Quell’uomo era sceso dal treno, aveva rinunciato all’agognatissimo posto libero solo per restituirmi un piccolo oggetto.

E’ lè che si capisce. Quanto sia sbagliato innervosirsi. E quanto perfida sia la superficialità del sentire. Del reagire.

Con riconoscenza ricordo quell’uomo, la sua inaspettata generosità, la mia superficialità e la stazione di Takadanobaba gremita di gente.

*L’autunno a Tokyo e una splendida illustrazione ASCII di cui il treno (giapponese) è protagonista.