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Jizō o dei ciliegi che vegliano sui bimbi

  È la primavera delle prime volte.

  Per la prima volta salgo sulla Torre di Tokyo e sotto ai piedi si stende a tappeto la città che non rivela e mai rivelerà ad occhio nudo i suoi confini. I capricci della stagione la bagnano di pioggia, la incupiscono di nuvoloni grassi ed incostanti. È la mutevolezza di marzo che si trascina dentro aprile.

  A 360°ecco la città e premere il corpo oltre le balaustre per far combaciare il tondo dell’obiettivo con le vetrate rovinate dal vento.

  Dei tanti semicerchi divisi per distanza dalla linea dell’orizzonte – che, in alcuni punti è mare, ponte e in altri, la maggior parte, riserve di palazzi e agglomerati d’alberi – vi è il tempio scelto dal clan Tokugawa per proteggere la città di Edo dagli spiriti maligni.

  D’una grandezza che oggi, dopo le varie riduzioni, lo rende l’ombra di se stesso. Ma chi nasce nel presente non immagina e non può sapere. E neppure dispiacersi.

  Il tempo consola.

  Il tempio Zojo-ji è circondato adesso da un rosa che si fa sempre più fino, impalpabile. Si inspessisce invece il verde e il marroncino. Sono gli steli che restano, le foglioline che sgorgano senza timidezza dopo il tripudio della fioritura dei ciliegi a fine marzo.

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  Ne ho percorso lo scorso anno a maggio la superficie – con Ryosuke al mio fianco – andando verso la Torre di Tokyo per ammirare le carpe appese alle sue pendici nel Giorno dei Bambini. So perciò, scattando questa fotografia, cosa vi è sotto parte dei corridoi di chiome rosa.

  Sotto i ciliegi riposano decine e decine di Jizō, un sentiero ne è pieno su entrambi i lati, tutti in fila ordinatamente uno accanto all’altro. È un angolo dedicato ai genitori che hanno perso bimbi, agli aborti spontanei, ai piccini nati morti, alle complicazioni che ogni gravidanza comporta, a quelli che hanno accennato pochi passi o pochi anni prima di cadere.

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  Un bavaglino, un copricapo, girandole che soffiano del vento che le investe. Frrrrr, frrrrrr suonano leggere. A volte il movimento rotatorio si fa più vivace, a volte accenna un giro e si placa all’improvviso.

  Su un bavaglino c’è scritto “capo” 社長, su un altro “il migliore del Giappone” 日本一, a volte pupazzetti ne accompagnano il viaggio e stanno accanto al piccolo tondo della testa, alla postura placida della pietra. In vasi fiori di visite antiche o recenti. Strisce che richiamano il nome della madre o quello della famiglia. Dall’alto i caratteri, cadendo verso il basso.

 I ciliegi vegliano su quelle delicate statuine dall’aspetto infantile ed è lieve il tocco dei petali su di loro. Scendono più radi in questa fase, ormai alleggeriti del carico della loro bellezza. Bellezza e tristezza, titolo di un celebre libro di Kawabata.

 E così mentre guardo altri bimbi correre sotto ai ciliegi cercando di intercettare il volo dei petali e di coglierne uno tra i palmi, mentre mi accorgo di quanto sia complesso, di quanta gioia scorra sui loro volti intenti, là d’un tratto capisco infine il simbolismo dei ciliegi per i giapponesi.
L’estrema bellezza e, insieme, la caducità. La straziante brevità della vita.

Il tempo consola?

Elle, pensando a te e a tutte voi, che siete tante

 

♪  ASKA – 晴天を誉めるなら夕暮れを待て

L’addio agli aghi o l’importanza delle cose.

Oggi in Giappone è il giorno in cui gli aghi da cucito che si sono rotti vengono portati al tempio「針供養」(harikuyo).

Mi sono chiesta il perchè. Aghi? Rotti? E perchè al tempio?
Mi hanno risposto le studentesse e mia suocera che ho raggiunto al telefono mentre aspettavo il treno. Pezzetti di informazioni che cuciti tutti insieme hanno fatto di una tradizione, come sempre, un dono. Qualcosa che è di tutti ma, da oggi, anche un po’ mio.

Una tradizione che risale all’epoca Edo e che ha la finalità di ringraziare gli aghi per il lavoro svolto. Aghi dalla cruna rotta, aghi spezzati, piegati dallo sforzo. Un gesto che è bello per davvero. Dedicare tempo e un viaggio verso il tempio ad un oggetto che, con dedizione, ha lavorato per noi a lungo.
Quanta delicatezza, ho pensato.
Ed anche se adesso sono ormai soprattutto le persone che lavorano nell’ambito della sartoria giapponese ad onorare questa tradizione, penso a quanto da quest’ultima ci sia ancora da imparare.

Vorrei che questa attenzione al lavoro svolto dagli oggetti, potesse essere estesa a molte altre cose che circondano la nostra quotidianità e che ci limitiamo ad usare e, una volta che non ci servono più, a gettare via.

Dare più importanza a ciò che acquistiamo e che ci accompagna nella vita di tutti i giorni avrebbe come risultato quello di curare maggiormente noi stessi. E il consumismo avrebbe finalmente un freno. Perche’ nell’attribuire anima a una cosa la si cura. La si sostituisce solo quando è veramente necessario.

E allora osservo la copertina tutta rovinata del mio dizionario elettronico, il cucchiaio di legno che accompagna le mie danze in cucina da tantissimi anni, lo schermo rigato del mio cellulare, la custodia del mio pc portatile, la pentola consumata in cui ho cucinato i miei primi piatti per Ryosuke.

E mi dico che tra tutti, quelli più consunti, sono proprio quelli che di me raccontano di più. Quelli che conosco meglio. E che di me sanno più degli altri.

*Trovate qui la successione fotografica dell’evento. (in giapponese)
* In fotografia alcuni scatti della nostra gita a Jindaiji 深大寺
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Il nuovo lavoro e il gatto del tempio.

Un gatto al posto di un bonzo nel cabinotto che, all’entrata del tempio, è solitamente dedicato alla vendita di oggettini, お守り, libretti, collane etc.

Il cabinotto era chiuso e un gatto bianco sorvegliava dall’interno il traffico (pressochè nullo) di persone che entravano nel recinto del tempio. Una foto scattata un mese fa, il 3 novembre, nel Giorno della Cultura – che era anche il nostro anniversario di nozze – ad Oshiage.
E’ nella foto accanto, lo vedete? Un raro colpo d’occhio che ringrazio.

Una notizia bella e una fastidiosa. Un nuovo entusiasmante lavoro per Ryosuke – che sempre mi stupisce per la sua eccezionale versalità – e un brutto raffreddore per me. Della seconda non mi curo (o meglio, lo faccio standomene a letto) e della prima gioisco.

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E’ davvero interessante osservare il mondo del lavoro giapponese dal punto privilegiato della “moglie”. La documentazione, i colloqui. Ed ammiro l’esser trasparente del mio 8 (otto, , in giapponese significa “marito”) che ha cercato – e trovato – un impiego che per contratto non ha straordinari. E nei colloqui, con sincerità, spiega che l’equilibrio familiare per lui è la prima cosa e che un lavoro che lo tenga oltre l’orario stabilito in ufficio non fa per lui.

Ed io, inutilmente, spero che un po’ di quella sana intelligenza contagi pure me. Che non mi passi solo il gusto per certi cibi o bevande che una volta neppure mi sognavo di assaggiare, ma che mi siano trasmesse anche disposizioni mentali, serenità interiori a me spesso ignote.

Il lavoro sarà a Yokohama. Ryosuke, che nella regione del Kanagawa è nato e vissuto fino agli anni dell’università e che ha fatto il liceo proprio a Yokohama, ne è entusiasta.
La conosco poco, ma già non vedo l’ora di farci qualche capatina armata di macchinetta fotografica… ❤

(nella seconda fotografia un pochino di Natale nel quartiere)

L’inizio

Tutto inizia da un matrimonio…

… il mio con Ryosuke, a Kamakura, nel tempio dove suo padre ha chiesto la mano a sua madre e da cui lui può finalmente sentire l’odore del mare, che tanto gli manca nell’aria di Tokyo.
Oggi è lunedì, ultimo giorno di un lungo weekend di preparativi per le nozze che, lentamente ma sempre più, iniziano ad emozionarmi. Il 3 novembre è dietro l’angolo, ed il tempio Tsurugaoka Hachimangu vi fa capolino con crescente insistenza.
Sabato scorso proprio a Kamakura, parlando fitto fitto con Hanawa-san e Fujimoto-san, ho capito quanta poesia sia racchiusa nel rituale del matrimonio giapponese. Ho rivolto domande precise sulle fasi del rituale, sul significato degli oggetti, sulla disposizione degli ospiti a tavola.
Avverto sempre più la necessità di avere accanto solo le persone che vogliono bene a me e a Ryosuke per poter celebrare un momento davvero importante della nostra vita.
Inizio seriamente a crederci.
E così, inizia a delinerasi anche il programma del nostro Grande Giorno:
Programma del giorno del matrimonio

Ore 10.00: trucco e parrucco + vestizione kimono per la sposa, lo sposo e la madre della sposa e dello sposo.
– Finiti i preparative si fanno le foto in giardino
Ore 13.30: partenza degli sposi sul risciò e degli ospiti sullo shuttle bus dall’albergo.

Si arriva all’ingresso del tempio 鶴岡八幡宮, si cammina in processione fino alla Stanza dei Preparativi (控室).
Si cammina in fila, sposo e sposa, la madre tiene la mano della sposa e i familiari piu’ stretti procedono subito dietro. Si procede quindi dal cancello del tempio alla stanza dei preparativi, preposta alla compilazione di un documento da parte dello sposo (in cui egli scrive i nomi dello sposo e della sposa, la data etc) e alla presentazione da parte della sposa dei parenti seduti in fila sulla destra e sulla sinistra della sala.

Nella stanza[1] la sposa sta seduta al centro della stanza mentre lo sposo compila il documento sulla sinistra.
Una volta conclusa questa fase ci si dirige lentamente verso il tempio e solo lo sposo, la sposa e 36 invitati in tutto potranno salire nell’altare superiore del tempio.
Ci si siede in questo ordine:
padre – madre – fratello – sorella – parenti – conoscenti.
[1] La stanza ha il pavimento in tatami quindi ci si devono togliere le scarpe prima di entrare
  1. 1. Ingresso, punto di arrivo di riscio’ e shuttle bus
  2. 2. Stanza dei Preparativi
    3. Recinto sacro ed altare dove si celebra il matrimonio

Il suono del tamburo segnala l’inizio della cerimonia. Essa inizia alle 14.30 e finisce 30 minuti dopo. (… to be continued)

Ryosuke sta finendo di stampare gli inviti (in giapponese e in italiano), ed io inauguro questo blog nella speranza, scrivendo, di seguire più da vicino la nostra vita … che di fascino (benchè sfuggente) ne ha così tanto.

L.