universita

I giapponesi parlano solo giapponese

Una studentessa mi confida che ha trovato lavoro. Un altro mi aggiorna sulla sua situazione amorosa. La ragazza che gli piaceva era già fidanzata. Un altro mi ringrazia, perchè lo lodo durante la lezione e la sua motivazione così cresce. Non tutti i professori lo incoraggiano così. Un altro ancora mi parla della squadra di baseball dell’università, dell’incontro che si tiene la settimana prossima e per cui non potrà venire a lezione.

Alla prima faccio le mie congratulazioni. Di questi tempi, anche in Giappone, trovare subito un impiego non è cosa da poco. I suoi diciannove anni sono già proiettati verso marzo, quando entrerà ufficialmente nell’azienda.

Al secondo batto una mano sulla spalla. Gli chiedo quando l’ha saputo. Dice, “Inizio di settembre”. “Ti è passata?”. “No, per niente, sto ancora sotto un treno”. Gli dico che anche queste cose servono. Che anche ad incontrare altre persone il dolore non svanisce, ma che vale la pena comunque buttarsi in nuovi incontri. Sono sempre sorprese. Le persone.

Al terzo ripeto che è bravo (perchè davvero è bravo e perchè ha lasciato il part-time che lo teneva sveglio fino alle 3 di notte e mi arrivava – straccio – in classe) ma che è bene che non tutti i professori lo lodino apertamente come me. Quando entrerà nel mondo del lavoro ci saranno probabilmente più persone che prenderanno per scontato il suo entusiasmo, il suo impegno. Sì, è così. La durezza è necessaria quanto la gentilezza.

Con il quarto si ride. Ma poi sa che per recuperare il test della settimana prossima se lo ritroverà, più complesso, sul retro dell’esamino della prossima volta. Patti chiarissimi.

Forse è per questo che mi viene da sorridere quando chi non frequenta il Giappone e soprattutto non ne parla la lingua dice che i giapponesi sono chiusi, non parlano, non comunicano.
C’è poco da fare: I GIAPPONESI PARLANO (bene) SOLO GIAPPONESE.
Di certo eccellenti eccezioni ci sono. Ma nella maggior parte vale il discorso di cui sopra.


°In foto una veduta di Tokyo, un po’ cupa. Grattacieli lontani e distese di case. Nel secondo scatto il meraviglioso cielo che ci ha accolto all’arrivo a Narita il giorno del nostro ritorno in Giappone.

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Fabrizio De Andrè, Canzone dell’amore perduto

Un’altra Tokyo

Quaranta minuti in bici. Lezioni e libri nello zaino.

Mi basta il primo sguardo al campus, mentre mi avvicino al parcheggio, per capire che ho sbagliato ancora. Che a lezione, stamattina, ero diretta solo io.
La mattina è d’improvviso libera. La panetteria, altri quaranta minuti in bicicletta, scrivo a lungo e quando riemergo sono già le due.

Mi godo la bella giornata e il tempo che ho sfilato dalla bocca di una giornata qualsiasi di lavoro.
Vanno sfruttati gli imprevisti.

Percorro in bicicletta le stradine fino a casa, il lungo viale alberato al centro del quale scorre un fiumiciattolo quasi in secca.

Piccole casette a due piani delimitano un immaginario marciapiedi. Donne in bicicletta, un uomo seduto su una panchina a leggere il giornale e qualche cane insieme al proprio padrone.

Tokyo non è solo cemento e grattacieli e il contrasto che si assapora in questa città non smette di stupire. Bambù. Rumore di gomme sull’asfalto e il frusciare del vento tra le fronde. E’ anche questa la capitale del Giappone.

Sabato siamo tornati nel nostro caffè francese preferito, a pochi passi dall’università vicino a casa e dalla biblioteca comunale. I dolci sono squisiti e non hanno delle normali pasticcerie quell’eccesso di perfezione che te li fa gustare con un grado in meno di piacere.

Ogni due settimane circa, inoltre, ospita una mostra differente. Piccoli quadretti alle pareti, oggetti di artigianato o stampe. E ogni volta salire le ripide scale della pasticceria/caffè è un’emozione perchè non sai come saranno decorati i muri e a quale tavolo siederà l’artista che, di nascosto, proteggerà le sue creature.

*In foto uno scatto del nostro amato caffè, sotto una foto fatta accanto al lato della stradina percorsa stamattina e i miei sandali preferiti.