uomo

“La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”

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(detto amerindio)
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 “Il 6 agosto 1945 una bomba atomica distruggeva la città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo Nagasaki fu a sua volta colpita. L’8 agosto, nell’intervallo tra i due episodi, il tribunale internazionale di Norimberga si era arrogato il diritto di giudicare tre tipi di crimini: i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Nel giro di tre giorni, i vincitori della seconda guerra mondiale avevano aperto un’èra nella quale la potenza tecnica delle armi di distruzione di massa rendeva inevitabile che le guerre diventassero criminali rispetto alle stesse norme che stavano emanando.
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 Questa «ironia mostruosa» avrebbe segnato per sempre il pensiero del filosofo tedesco più misconosciuto del XX secolo, Günther Anders […] uno dei rarissimi pensatori che abbiano avuto il coraggio e la lucidità di paragonare Hiroshima ad Auschwitz senza togliere nulla al triste privilegio che possiede il secondo di incarnare l’orrore morale senza fondo. Ha potuto farlo perchè ha capito, come Hannah Arendt e probabilmente prima di lei, che una volta superati certi limiti, il male morale diventa troppo grande per gli uomini che ne sono responsabili e che nessuna etica, nessuna razionalità, nessuna norma che gli esseri umani si possono dare ha la minima pertinenza per valutare ciò che è successo.
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C’è bisogno di coraggio e di lucidità per fare questo accostamento, perchè Hiroshima rappresenta ancora, nella testa di molta gente e, a quanto pare, della stragrande maggioranza degli americani, l’esempio per definizione del male necessario […]  Interrogarsi sulla razionalità e sulla moralità della distruzione di Hiroshima e Nagasaki vuol dire anche trattare l’arma nucleare come uno strumento al servizio di un fine. Sennonché un mezzo si perde nel suo fine come un fiume nell’oceano, ne è completamente assorbito. La bomba, invece, va al di là di tutti i fini che le si possono dare o trovare. […] Perchè l’orrore morale del suo impiego non può esser percepito? Perchè questa «cecità dell’apocalisse»?”*


Mi capita raramente di citare a lungo brani di un autore senza avvertire la possibilità di rielaborare, spiegare, ingoiare e restituire a parole mie qualcosa.   Questa è una di quelle occasioni preziose che svelano come vi sia chi ha saputo, in un brevissimo saggio, illustrare l’Assurdità del male con lucidità perfetta. È Jean-Pierre Dupuy, professore di Filosofia sociale e politica presso l’ Ècole Polytechnique e l’Università di Stanford e il suo libro si intitola “Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo”. Merita d’esser letto per intero nelle sue cento paginette o poco più.

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  Il detto di apertura di questo piccolo intervento è anch’esso partorito dal libro suddetto. “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”. È un po’ come quando Jorge Luis Borges scrive che “Possiamo dare solo ciò che è già di altri” e ci ricorda il debito che fin dall’istante in cui nasciamo – come esseri viventi oltre che come produttori di parola – abbiamo contratto nei confronti di tutto ciò e di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno.  Nulla è nostro, in sostanza. A noi tocca solo amministrare una concessione, un prestito. Una lunga catena di debiti su cui varrebbe la pena di riflettere ogni volta che si decide di muoversi verso la distruzione di qualcosa, di qualunque cosa.
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   Oltretutto, e questo forse più di ogni altra cosa mi indigna, immenso è l’egotismo dell’uomo che è convinto che questo pianeta sia cosa sua. Forse, in un tempo in cui la terra, le foreste, la natura tutta si ritrae ferita, sotto il passo incessante ed arrogante dell’essere umano, sarebbe il caso di domandarsi chi gli ha dato il diritto di arrogarsi il possesso del pianeta, quale religione auto-architettata ed auto-imposta gli abbia concesso la possibilità di agire a proprio piacimento. Da dove nasce l’eliminazione dell’alterità, il senso di mostruosa superiorità che egli esercita con una disinvoltura ancora più mostruosa?

E mentre noi stiamo a dibattere su Hiroshima, Pearl Harbor, le responsabilità di allora, le efferatezze e simili diatribe prive di reale conoscenza e di spessore, è interessante quanto sconvolgente notare – come fece lo stesso Günther Andersen (che nel 1958 si recò alle commemorazioni ad Hiroshima e Nagasaki) – che:

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  “La regolarità con cui [i giapponesi] omettono di nominare gli autori, con cui tacciono del fatto che la catastrofe è stata prodotta dall’uomo; e con cui, benchè vittime del delitto più orrendo, non mostrano il minimo risentimento – tutto ciò mi pare eccessivo, non mi piace affatto
  Un sentimento che ahimè comprendo e che riconosco parte dell’animo giapponese che, al contrario del trattamento che subisce per crimini di un lontano passato certamente commessi (ma non più efferati di quelli perpetuati dalla nostra civilissima Europa o dall’America o dall’Asia in millenni di guerre e d’una quotidianità violenta e brutale), non condanna nè attacca chi ha fatto loro un torto tanto grande.
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  L’idea è 「ひどい事をしたから、ひどい事をされても仕方ない」 “Dato che abbiamo fatto cose terribili, ci sono state fatte cose terribili. Non c’è nulla da fare”

  Qualcosa che l’occidente di questo paese ignora tutt’oggi totalmente. Qualcosa che un occidentale non comprenderà probabilmente mai. Del resto il mix di uno stereotipo ben edificato dai suoi detrattori, unito ad un’indole affatto accusatoria, porta il Giappone ad essere vittima di insopportabili (solo per me che sono occidentale) affronti.
Accompagnata dalle melodie della meravigliosa canzone composta da Sakamoto Ryuichi e interpretata da Hajime Chitose “Shinda onna no ko” (La bambina morta), rivolgo una preghiera alle vittime di Hiroshima e Nagasaki e soprattutto una preghiera per l’uomo, senza sterili differenziazioni di nazionalità.  Perchè si renda conto della responsabilità che ha, della bellezza e fragilità del pianeta che abita e della terribile capacità che ha di distruggere qualcosa che neppure gli appartiene.
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♪ Sakamoto Ryuichi e Hajime Chitose  “Shinda onna no ko” 
✿ Le meravigliose illustrazioni sono dell’artista Seiji Fujishiro
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*(il grassetto e la spaziatura, nel testo citato in apertura, sono miei)

Il Fuji-san non è uomo e non è donna

  Il Fuji-san non è uomo e non è donna. Non è divinità maschile nè femminile. E’ un monte ermafrodito. Così scrive Takeya Yukie. La lingua giapponese lo permette e non c’è bisogno di definire sempre il sesso delle cose.
In una vecchia canzone per bambini il Monte Fuji ha sembianze umane: ha la testache spunta dalle nuvole, il corpoavvolto in un kimono fatto di neve e i banchi di nebbia che si allungano in lontananza alle sue pendici non sono che le maniche di quell’immacolato kimono.
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Una antichissima credenza giapponese vuole che le montagne siano abitate dalle divinità e che, per questo, non sia lecito scalarle. Gli dei posseggono quei luoghi e gli uomini non possono e non devono disturbare la pace che vi regna.
Il Fuji-san, monte prediletto nell’immaginario dei giapponesi, era ed è tutt’ora considerato da molti una divinità. E’ la montagna più alta del Giappone ed è simbolo dello stesso concetto di “bellezza” per questo popolo. I giapponesi provano nei suoi confronti ammirazione sì, ma anche quel tipo di timore reverenziale che si avverte per le cose belle e, insieme, terribili.
In Giappone l’appuntamento con il tempo, che procede in centinaia d’anni, definisce sia il ricorrere prossimo del grande terremoto del Kanto che, la storia insegna, accade una volta ogni cent’anni, sia il risvegliarsi del Fuji-san che, invece, erutta ogni trecento anni. Perchè non bisogna dimenticarlo. Che il Fuji-san, anche con il suo kimono di neve indosso, è sempre un vulcano e possiede una lunga tradizione di eruzioni alle sue spalle. In giapponese “vulcano” si dice kazan 火山 che è “fuoco, fiamma” e “montagna”.
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Accadrà e c’è poco da aver paura. I giapponesi vivono in perpetua attesa di qualche disastro che verrà. Perchè verrà. E dopo che accadrà per un po’ a Tokyo non si potranno stendere i panni fuori e l’aria sarà impregnata delle ceneri del dio che si manfesta. Si girerà forse con le mascherine e muteranno i disegni dei bambini che tanto spesso tracciano il profilo del monte sulla carta.
  E in un territorio tanto “accidentato”, attraversato da frequenti tifoni, scosso da terremoti di notevole portata, travolto da tsunamie da una vasta gamma di altre calamità naturali, la solidarietà e l’aiuto reciproco sono  indispensabili.
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 Si dice che lo 仕方ない[shikata nai] il “non c’è nulla da fare” che spesso ripetono i giapponesi e che rende perplessi gli stranieri (i quali leggono in questa frase una eccessiva accettazione degli eventi), sia dovuto proprio alle intemperie climatiche cui questo popolo è abituato a fare fronte e che hanno modellato il suo carattere tenace, profondamente rispettoso e sempre collaborativo.
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 Ma lo “shikata nai” viene spesso frainteso perchè non è un “non faccio nulla e aspetto che le cose si aggiustino da sole”, ma bensì la presa di coscienza della sfortuna da cui poi parte la volontà di fare bene e di “gambaru”, ovvero di dare il massimo nelle proprie possibilità.