「へその緒」o il filo rosso

Una bambina di circa otto anni, lungo caschetto nero, abito bianco con fitte decorazioni floreali sui toni del rosso, ed abbronzata, come fosse avvolta nel cioccolato. Ecco, quella bambina tiene in braccio un cucciolo di cane, circa otto mesi, bianco e con un’orecchia che pare spezzata a sua volta in due tinte, il bianco ed il rosa.

Nella proporzione la bestiola deve essere pesante perché la bambina si sforza, si vede, a tenerlo in braccio. Ma lo tiene, per difenderlo da un tratto di strada che si fa strettoia e pare pericoloso.
Piegando indietro il busto, mostrando pur elegante fatica, osservo un corpo che ne trasporta un altro, per cura. La bambina e la creatura.
Poi uno slargo e il cane atterra ai piedi di quella che si trasforma d’un tratto in una ragazzina, perché mentre corre sembra più grande, le gambe spiegate nello slancio, il presagio d’una bellissima donna. E corrono entrambi mentre il sole se lo intascano i monti alle spalle, le nostre e le loro.

Il cane fa i suoi bisogni, la bimba si ferma, si piega con la bustina per raccoglierli tutti. Con una bottiglietta passa l’acqua lì dove fa pipì.
Tutto è rispetto ed armonia.

Si passa e non si lascia segno abbrutito del proprio passaggio.
L’uccellino che non intorbidisce l’acqua che pilucca, accanto a cui si riposa. La bellezza della fine.

Nel fitto di una viuzza più avanti, lì dove un tempio ne tiene un altro per mano, un vecchio più ossa che carne, con la schiena ricurva in un equilibrio elastico quasi, cammina spedito, si ferma all’ingresso del tempio, davanti alla cornice di legno che recita il precetto del mese. Si toglie il cappellino d’un blu scolorito, mostra la nuca senza più capelli, inclina tutto il corpo. Tra le mani il cappellino, in mezzo ai palmi stringe una preghiera.
Si chiudono gli occhi e lui è già altrove, calato in fondo al desiderio che ha. E che ripete uguale nelle movenze al tempio vicino.

Per ogni dio un saluto, un omaggio. Perché nel Giappone del quotidiano la spiritualità è humus, terra su cui germogliano fiori e persone. E bestiole, e bimbe di otto anni, ed anziani con cappellini da baseball.

E donne straniere, che riprendono le fila del discorso, con addosso una parola in meno, ma nel letto, avvoltolata in asciugamani, una frase che è destinata a moltiplicarsi, allungarsi, crescere di misura e di intensità. Una nuova vita che è nata e si scava lo spazio in questa piccola casa, nei colori sgargianti che sono le copertine dei libri, i giocattoli di Sousuke.

Ed è proprio un filo la vita, un lungo spago rosso, un gomitolo forse. Talvolta ingarbugliato, infeltrito persino, così sdrucito che pare in pericolo costante. Eppure ha un’anima testarda, sembra convinto di qualcosa di cui chiunque invece dubiterebbe, osserva scenari che il nostro occhio non vede. Un filo rosso che pare ad alcuni il destino, come recita la leggenda, che ricongiunge prima o poi quanto deve incontrarsi in questa vita.

E’ il FILO ROSSO 赤い糸 /akai ito/ del DESTINO della tradizione giapponese che unisce due persone indissolubilmente e che, prima o poi, le farà incontrare. Nasciamo così, con un filo rosso annodato al mignolo che ci lega alla persona che diventerà per noi quella “amata”, quella giusta. Per quante traversie si possano incontrare nella vita prima o poi quella persona verrà a noi. E noi a quella persona. E’ il filo rosso del destino~ 

Sul mignolo resta legata un’estremità, su quello dell’amato l’altra. E tutto si stringe nel tempo, il lungo vagare si chiude nell’incontro.

E aprendo la scatolina dell’ospedale dove è nato il nostro secondo bambino, mi sorprendo quasi di ritrovarmelo lì, come ci fosse sempre stato, il filo rosso del nostro destino.

Il Giappone conserva dall’antichità l’usanza di consegnare alla madre, subito dopo il parto, 「へその緒」 /heso no o/  ovvero il raccordo del cordone ombelicale che nei mesi ha trasportato nutrimento dalla donna alla creatura. Si tramuterà in una sorta di talismano che proteggerà il nascituro nell’arco tutto della sua esistenza.

Le madri li consegnavano un tempo ai figli maschi che partivano per la guerra, alle figlie femmine che andavano in spose. Si credeva che, in caso di malattia mortale, polverizzarlo e ingurgitarlo rendesse salva la vita, tirando per il lembo l’estremo l’esistenza che si stava perdendo.

Matsuo Bashō, di ritorno alla casa natale dove la madre era morta, pulendo la casa, smuovendo oggetti di un tempo, lo trova e vi dedica un haiku.

Del primo figlio ricordo l’avorio brillante di quel raccordo, la rapidissima trasformazione che subì al contatto con l’aria, la nocciolina rinsecchita che divenne in due notti.
Del secondo figlio ricevo invece il cordone ombelicale, privato del suo sangue prezioso, seccato e piegato in un fiocco. Un giro Emilio lo aveva intorno al collo e ricordo, in quella notte così recente eppure remota nella memoria del corpo, che l’ostetrica me lo mostrò raccontandomi come ognuno fosse diverso dall’altro, ogni cordone di una diversa lunghezza.

Ed eccolo qui, sotto i miei occhi, il filo rosso, il destino che ha percorso terreno sconnesso e un lungo sentiero per portarmi alle due creature che dormono adesso, una accanto all’altra nel mio letto.

E a mani giunte, ferma anch’io davanti al tempio, in coda al vecchietto con il cappellino blu da baseball, mi chino, batto le mani.
E ringrazio.

Ogni volta

“Se nessuno ce lo chiede […], la risposta la sappiamo, ma se qualcuno ce lo chiede, non siamo in grado di dargliela.”

Francesca Rigotti

 Quando qualcosa inizia, lo fa sempre dal silenzio.

 È un sacco della spesa, il cestino vuoto a braccio, che si impugna dirigendosi sicuri verso gli scaffali, il banco frigo, l’angolo di spezie o cereali. È il progetto di una cena, la raccolta delle parti, il ricongiungersi in cucina.
Ed è lo squarcio, una volta che il silenzio si è interrotto, una volta che finisce.
Sono le forchette che stridono nel piatto, il cucchiaio che sbatte sul fondo, il coltello che tintinna nel taglio.
È una metafora il silenzio. La migliore.

 Da dicembre a settembre di quel primo anno di ricerca del bambino ricordo “ogni volta”. Ed “ogni volta” sono certa mi ricordi, tanto le stavo dietro, con la mano tesa e il fiatone. È che pedinavo ogni segnale, inseguivo ogni pezzo del corpo.
Un mal di reni un vaticinio, un mal di testa la sfinge.

 E ci credevo, non ci credevo più, ci credevo ancora, poi non più.

 E in tutto questo cercare ero zitta. Il silenzio una compagna.
Ogni giorno, come una nuova abitudine acquisita, consultavo pagine web – tutte lievemente somiglianti – in cui grafici spiegavano le medie e tabelle ti esortavano ad incasellare i dati, la tua età, la data dell’ultimo ciclo, la sua durata media. Valutavano per te il momento migliore, si spingevano oltre nel futuro calcolando persino la data presunta del parto.

 Quanti anni hai? Quando è stata l’ultima volta? Che giorno era?

 Erano domande così elementari che ti veniva quasi il sospetto non subissero variazioni nell’universo, che sappessero misurare in bianco e nero il destino comune di tutte le genti. Erano tabelle così pulite, nette, come certe zone espositive dell’Ikea dove entri in una cucina accessoriata, una camera da letto, un bagno fantasioso, e da lì la vita ti appare sempre elementare, un gioco da bambini. È sicuro, ti sposerai, avrai dei figli, sarai sempre felice.

  Era merito di quella matematica certezza, di uno più uno fa due, quasi una mano sulla spalla che ti sussurrava “Il destino è dalla tua, stai tranquilla, basta che fai come ti dico. Inserisci i dati e io ti dirò quando le probabilità saranno più alte. Fidati di me, i numeri non mentono mai”.
Seduta al tavolo del soggiorno, nel silenzio, la Gigia acciambellata ai piedi, inserivo, rassicurata scrivevo.
Cliccavo su quelle pagine più e più volte, nell’ossessione che già germogliava. In fondo non ci voleva niente a scrivere trentuno, a snocciolare tra le dita numeri a ritroso, giungere a dicembre, e poi a gennaio, poi a febbraio e via così, fino a che l’inverno non si faceva primavera ed un bel giorno d’autunno avrei avuto l’inizio della mia terza vita.

 Ricordo adesso con tenerezza come tenessi il conto dei mesi con le dita, raggi di una ruota che avrebbe dovuto condurmi immediatamente al risultato, e l’ingenuità, di considerare quando sarebbe stato più opportuno restare incinta in modo da incastrare il tutto con il lavoro, far combaciare le pause estive, le vacanze prolungate.
Come se davvero potessi scegliere io quando.
  Ma dicembre fu nulla. Gennaio seguì ed era silenzio. Nulla nel corpo mi parlava.

 A febbraio ero spaventata ma leggermente più convinta. Un sentimento che un po’ si prende a schiaffi tanto è contraddittorio. Ci convivo da quando sono bambina, alla speranza che tiene il pessimismo stretto stretto per mano, come per aiutarsi l’un altro ad attraversare la strada, a farsi coraggio.
Semino, mi aspetto la gioia, il campo colmo di primizie, e il desiderio è tale che me lo anticipo persino, il cestino traboccante, la fierezza del risultato. Eppure nell’avanzare verso quel pezzo di terra, nell’affacciarmi per verificare che qualcosa sia spuntato, faccio sempre un passo indietro. Non mi fido di me.

 È la malsana abitudine di chi si convince che a creder troppo in qualcosa si finisca per portarsi sfortuna.
Ricordo una telefonata a mia suocera, mentre andavo al kombini. Tra i corridoi illuminati a notte del Ministop vicino a casa, lungo lo sterminato viale di ciliegi ancora imbozzolato in un intrico di rami e tronco in attesa della loro annuale meraviglia, le parlavo emozionata di sintomi avvertiti che combaciavano con quelli letti altrove, in doppia lingua italiana e giapponese.

 “Tieniti al caldo” mi diceva. “Non aver fretta, vediamo”

「子どもは授かりもの」  “I figli sono un dono”, recitava calma nella saggezza della lingua giapponese.

 Ma la fretta io ce l’avevo già addosso. E m’avrebbe torturato nei mesi. Perchè dopo marzo sarebbe arrivato aprile, e poi maggio e l’estate sarebbe rimasta infeconda, nonostante ogni tabella, ogni data presunta del parto, ogni giorno propizio, ogni notte sprecata, ogni litigio scoppiato per una data saltata.
E la fretta sarebbe stata giusta.

 Ho imparato tanto in questi anni. Ed in quei primi mesi che la speranza è una cosa che cresce col tempo, come un amore che se non corrisposto alla lunga si tramuta in odio, perchè è intollerabile provare qualcosa di tanto grande, rivolgersi un’unica domanda e non potergli mai dare una risposta.

Si fa presto a dire madre     

“[…] gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare.”
Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana.

 

 Non sono stata una bambina felice. Ricordo le mani premute forte sulle orecchie, per non sentire le urla, i litigi. Ricordo le botte, stralci di un’educazione antica che tramanda quanto si è ricevuto. Ricordo gli sforzi sinceri ma maldestri di farmi contenta, nonostante chi tentava di farlo la gioia non la conoscesse. Ricordo una conflittualità violenta nella trama degli affetti, la competizione che montava in cavalloni e finiva per appiattire ogni successo, grande o piccolo che fosse.Ho inseguito l’approvazione sempre dirottata di mia madre e di mio padre. Non ho amato mia sorella per anni, per il solo fatto di vedere in lei un metro di paragone, per la rivalità feroce che s’era instaurata davanti ai nostri genitori.

 Esistono modalità educative fallimentari, la maggior parte. E quasi tutte applicate con le migliori intenzioni. Ma tanto si può riparare crescendo. Si può imparare persino ad amare quanto si è detestato, a mettere a margine del piatto quel ricordo che ancora ci fa soffrire. Bisogna dare la colpa al contesto, all’età, a una serie di cose che da bambini non si sanno controllare. Anzi, cose che fino ad un certo grado avanzato di maturità, non si immagina neppure si possano controllare.

Il mio desiderio di famiglia credo sia nato da lì, da quella spinta costante al cominciare che Hannah Arendt attribuisce all’essere umano, di natura. È per quello che si nasce, per iniziare. E lo stesso morire, di per sè, è un diverso inaugurare. Anche se la ricaduta è sulla vita degli altri, di chi resta.

La famiglia non è forse un processo creativo singolarmente, ma una trasformazione che ha della chimica il segno, l’amore, il contagio. In un libro, forse uno dei più belli letti recentemente sul tema, per la sua presa diretta, affatto artificiosa all’argomento, Si fa presto a dire famiglia di Melita Cavallo (Laterza, 2016) – libro che fa il paio con un volume uscito di recente I segreti delle madri (Laterza, 2017) – l’autrice riporta un detto napoletano che dal dialetto traduce così: “Tu puoi vivere senza sapere perché, non puoi vivere senza sapere per chi.”

 Ed è proprio in questo regime di inconsapevole, forse anche involontaria dipendenza, che per buona parte si gioca l’amore in una famiglia. Anche e soprattutto quello materno.

 Ho chiesto d’avere un figlio a trentuno anni. Eravamo giovani ancora ma su quella linea di confine che preme alla scelta, spinge alla decisione. Non più ragazzo, nè adulto, ma genitore.

 “Lo vuoi un figlio tu?”

 “Ma adesso, intendo. Ci proviamo?”

Ricordo una conversazione con Ryosuke, su una panchina. Eravamo fuori da un rutilante centro commerciale, lo Yodobashi Camera di Kichijoji che gridava inviti, e colori e lucine, e non c’era pausa nel commercio, nel diverso, materialissimo desiderare, cose, cellulari, piani di acquisto di impianti stereo e poi e poi e poi. E poi.

È curioso come si dica “provare” ma non lo si pensi davvero. Che di sicuro succede, perché non dovrebbe del resto?

Tutti hanno figli, anche gli insetti, lo scarafaggio nell’intercapedine della parete, il corvo che sghignazza la mattina planando sui sacchi incustoditi dell’immondizia, la popolazione di donne panciute che gonfia le strade di questa capitale d’Oriente, d’ogni capitale d’Occidente. Tutte le star che infestano di ventri in posa egizia le copertine delle riviste, con i loro glutei magri nonostante, le espressioni pacificate, oppure fiere, i volti sorridenti di chi ha un’altra fortuna (vera? chi lo sa…) da esibire.

Eppure quel gennaio, era forse dicembre?, ricordo limpida la sensazione contraria. L’idea, l’intuizione che non sarebbe stato automatico così come ce lo si aspettava.

Vai a capire perché.

Forse perché sono stata abituata dalla vita che le cose non vengono a me con facilità, che sono condannata per un qualche dono fatato, ricevuto forse alla culla da una strega pasticciona, a dover percorrere con una consapevolezza integrata ogni via.

E l’intuizione si sarebbe rivelata esatta. Perché avrei imparato nel dettaglio come nasce un bambino, quale preciso processo porta alla procreazione. Ogni fase, ogni step che dal naturale passa all’artificiale, pur di tornare un giorno al naturale.

E, lì dove possibile, lì dove si voglia, che si possa anche dimenticare quanto ha preceduto il risultato che si accudisce.

Due sovrani in ascolto

Sousuke bussa alla pancia, come gli ho insegnato a fare alla porta. Fai “toc toc”, suggerisco e lui scioglie le nocche sul legno, sventaglia aperture e chiusure dell’universo che è la nostra piccola casa.

Vi abitiamo da un anno e quasi una metà, dopo l’ennesimo trasloco cui si pensa a ragione destini l’esser stranieri ma cui forse, più semplicemente, conduce l’essere in quel trancio di vita – i trent’anni – che esige cambiamenti per significare davvero.

Un bambino di due anni che si accosta con l’orecchio, in ascolto. È il gorgoglio dell’esistenza che non capisce, è il re del palazzo de Il sole giaguaro di Calvino, è il sovrano in ascolto. Ma come quel palazzo regale, anche le mura della pancia hanno orecchi per sentire, e reagiscono alla voce disordinata del piccino, che non la sa dosare. Alla fine la maturità – se così si può dire – è questione proprio di quantità, di dosaggi e quanto basta (q.b.), come nel sottile rettangolo della nostra cucina accade.

Mio figlio chiama per nome l’altro mio figlio, suo fratello. È senza sapere, emulando semplicemente il suono delle tante vocali che comporranno il suo nuovo nome. Il padre già s’avventura da mesi nel diminutivo, che in fondo gli spetta, essendo l’essere umano più minuto della casa.

Sono due sovrani in ascolto, di cui fungo a divisorio, a parete, il padre a cassa di risonanza, la casa a ennesimo contenitore. Siamo tutti in ascolto, siamo tutti in attesa di un diverso confronto.

Sono diventata madre a trentatrè anni, in un paese in cui neppure mi aspettavo da ragazza di viaggiare. Talvolta apro gli occhi, fingo d’essere ignara di tutto quanto mi precede, e allora lo stupore della vita che mi si è sviluppata intorno come un bosco klimtiano, è grande. A partire dalla scrittura che tempesta i libri che s’ergono in torri dal pavimento e superano il limite del comodino, e raccontano che la pluralità è nel segno, che di parole è fatto tutto il giorno e la mia notte.

Poi c’è questo corpo nuovamente sformato, che ha la bellezza solo nel significato, ma soffre d’una violenza che la natura impone. Ogni pezzetto mi duole, ogni specchio mi confonde e sono risucchiata dal riflesso delle vetrine, di cui non noto neppure la merce in esposizione.

Si celebra nel discorso la gravidanza come qualcosa di meraviglioso. E lo è. Ma nella radice latina del nome, che traslato dal mirabile è il mirāri ovvero il ‘guardare con meraviglia”, come qualcosa che evoca insieme ammirazione ed orrore, nel letterario che desta straordinarietà, allontanamento dall’ordinario che rassicura perché conosciuto e riconosciuto come tale.

E’ il soprannaturale, il diabolico, la malia della trasformazione. Della creazione, dell’espulsione che è violenza, un divorzio accordato eppure straziante fino al momento della conclusione perfetta.

Il primo libro che lessi di Ogawa Yōko in giapponese fu 『薬指の標本』 L’anulare, il secondo 『妊娠カレンダー』 Diario di una gravidanza che, più letteralmente, va tradotto come “Diario della gravidanza”, perché si tratta di una dicitura cui è familiare chiunque frequenti un ospedale o una clinica. Si tratta in fondo solo del titolo che capeggia su un foglio che illustra alla futura madre le fasi del processo cui è e continuerà ad esser soggetta per i mesi a venire.

In quell’esilissimo libro, vincitore del Premio Akutagawa nel 1990, è la meraviglia in negativo che emerge, l’occhio della sorella minore che spolpa comportamenti della sorella maggiore, in un’attesa che non è dolce, né placida né gioiosa, come nello stereotipo comune è tacitamente imposto .

Ed io, che madre lo sono diventata con immensa fatica, con intrusioni violente che mi hanno aperto ad una geografia del corpo di cui prima di allora tutto ignoravo, che nel desiderio ho scoperto con Ryosuke il mondo dell’adozione – non ancora attuata, per le gravidanze sopraggiunte, ma rimandata ad anni a venire che ci troveranno tutti più grandi, compresi i bambini, ed attrezzati a ricevere il dono d’un altro figlio – non nego l’orrore, la confusione, l’attesa smaniosa che il bambino nasca, per potermi riappropriare dei confini delle gambe, del ventre che partito da poco più di sessanta centimetri, ormai s’avvicina al metro di circonferenza. Per non temere il cibo, per fare le scale, per dormire col viso schiacciato sul cuscino, rovesciata verso il basso, come ho sempre amato fare, quasi spiegando nel sonno invisibili ali.

Tutto vale la pena, perché la pena si rimuove. La mente dell’uomo in questo è benedetta, nel meccanismo difettoso e impreciso che pretende costante richiamo per ritornare su cose che si sono patite in passato.

Mi attendo, come un dono, il ritorno di me stessa. Mi aspetto clemenza. Vera dimenticanza.