Nostalgie da migrante

A volte mi manca. E la vorrei dall’altro lato dei tavolini dei caffè dove vado ogni giorno, seduta sulla sedia su cui poso la giacca. La vorrei qui a darmi consigli non richiesti. Consigli da mamma.

Di quelli che ormai appartengono alla vita passata, tagliati su misura su quella che ero e che non sono più.
Mi si gonfiano gli occhi di lacrime. E’ solo stanchezza. E’ così che ricaccio indietro ogni cedimento.

“E’ perchè devi dormire di più. Se non dormi stai male” mi direbbe lei. Mia madre.

La distanza tra un continente e l’altro, tra l’Italia e il Giappone, si tramuta e si approfondisce. Una distanza non più fatta di chilometri, di paesi da attraversare per raggiungerci l’un l’altra, bensì fatta di tempo. Anni che si allungano, gonfiandosi d’esperienze private. Come pasta lasciata nell’acqua. La metti in bocca e la lingua, da sola, basta a disfarli.
Anni che hanno vita propria e non si lasciano più raccontare. E anche se ci provi, a narrarli, si rivelano per quello che sono: solo racconti.

Ieri in un caffè ho visto due coppie di donne. Una madre, una nonna e due figlie. Nella distribuzione dei pani e dei pesci ognuno riceve cibo e bevande. Le bambine si fanno le smorfie, la madre e la nonna si preoccupano delle conseguenze dei loro movimenti. La linguetta di un succo di frutta che una delle due bimbe cerca di staccare coi denti, bagnando di saliva il contenitore di plastica. Un attimo e i grandi risolvono i problemi dei piccoli. La pazienza non smorza il sorriso. Sono pasti brevi. I bambini si stancano presto.

E nell’alzarsi, nel restituire il vassoio pieno ormai solo di gusci al commesso, la nonna passa una mano sulla spalla destra della figlia, spazzando via con il palmo invisibile sporcizia. Forse qualche granello di polvere, forse un capello.
Un gesto che mi è sembrato tanto materno. Un gesto non richiesto. Forse persino inutile.
Le chiude anche la giacca. Un istante di dita. Forse un bottone.

E penso “ecco un altro di quei gesti che compiva una volta, quando la figlia era bambina, e che adesso non servono più”.

E, per un attimo, mi è tornata forte la nostalgia di mia madre.

Per tre giorni di freddo, quattro di caldo. La primavera arriva così.

Pioggia sottile, tanto che non sai se spalancare o meno l’ombrello.

Ieri su Tokyo un cielo plumbeo. Dei tanti ombrelli che ho visto, uno. Di una ragazza che saliva la scalinata che porta al parco di Ueno. A punta, come il cono di un gelato. Ma blu, come il cielo che segue al tramonto e che sfrutta ogni inezia di luce.

Un bel giro dal parco ai templi, da Saigo Takamori alla strada. Insieme a due amici e a due regalini che arrivano dritti dritti dall’Italia e dalle mani operose di lei. Che meraviglia ricevere qualcosa che manifesta in sè non solo sostanza ma tempo.

Camminiamo chiacchierando, aprendo e chiundendo gli ombrelli. Cerchiamo la primavera e troviamo pruni, persino ciliegi. Manca ancora un po’. Ma poco.

Un uccellino che saltella sui rami di un pruno in fiore, un gatto grasso e senza coda che corre a ripararsi sotto alle basi del tempio, una cornacchia forse malata appoggiata a quella sorta d’arciere di pietra posto alle entrate dei templi, una fila di gabbiani accovacciati sulle impalcature alle spalle di un ciliegio, la coda nera e sinuosa d’un altro gatto che s’infila furtivo nella fessura tra due edifici vicini alla stazione di Ueno: sono tanti gli animali che abitano la città e chi mi sta accanto mi riconosce l’abilità di individuarli.
Gatti, cani, uccelli, tanuki, insetti, ranocchi. C’e’ una folta fauna in questa città. Per chi ha occhi per vederla.

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Ci addentriamo per Ueno. Loro acquistano un tayaki alla fragola e crema. Si chiacchiera e si scattano foto. Infine ci salutiamo alla stazione, loro riprendono la loro passeggiata, io riprendo il treno. Acquisto un daifuku al sesamo alla stazione di Tokyo e riparto.

E mentre scorre in tv l’ultimo appuntamento di uno dei drama stagionali, la sera riguardo le foto scattate. E mi dico che non sempre la pioggia vien per nuocere e che Tokyo, lucida d’acqua, ha un suo fascino.

Oggi, mentre aspettavo che Ryosuke scendesse dal parcheggio delle bici, uno dei vecchietti in tuta blu, addetto alla gestione, mi parla del tempo.

「三寒四温、わかりますか?」”Conosce il detto sankanshion?”
In sostanza: per tre giorni di freddo, ce ne saranno quattro di caldo. E’ così che arriva la primavera. Così mi ha spiegato.

Un’espressione questa che originariamente in Cina e in Corea era riferita all’inverno. E che il Giappone ha applicato invece alla primavera dato che qui, al contrario dei paesi vicini, non esiste un’alternanza così esatta di giorni di freddo e di caldo.

Un’altra cosa che non sapevo e che ora so.

*In foto scatti di ieri nel parco di Ueno.

こだわり o dei dettagli che fanno la differenza

L’odore del legno che riempie le narici, il profumo della pound cake alla frutta e noci, la fragranza del caffè appena fatto, filtrato con cura dai padroni del negozio. Lei porta un basco tra il marrone e il prugna, poggiato in obliquo sulla testa. Uno sguardo dolce e la cucina, immensa, tutta intorno a sè. I clienti si fanno più sparuti e il marito si siede al bancone, apre il pc e registra gli scontrini, uno ad uno.

Un nuovo caffè con un nome tutto italiano ha aperto di recente. E in questo giorno di festa Miwa ed io siamo andate a zonzo per il quartiere. Pranzo a casa, il nostro programma televisivo preferito, le coccole alla Gigia e con Ryosuke discorsi vivaci su alcuni quartieri di Tokyo. Ci piace la storia di questa città. Scoprirne le rughe. I nuovi gioielli.

Il locale dove eravamo dirette era pieno di gente e così ho ricordato quel negozietto che ha aperto da poco e in cui non ero mai entrata un po’ per timidezza un po’ perchè le scoperte, se posso, amo farle in compagnia.

Miwa ed io andiamo spesso alla ricerca di locali, nuovi caffè dove trascorrere ore liete. Di chiacchiere e letture. Del suo coreano e del mio giapponese. Del suo lavoro, del mio lavoro. Dell’italiano che prenderà a studiare da aprile, del mio dottorato che è alle porte. Dei suoi nipotini, della mia Livia.

Sono luoghi di pace dove assaggiare novità, sapori differenti – che siano bevande o siano dolci –, respirare l’atmosfera di un locale, notare quelli che in giapponese si chiamano “kodawariこだわり ovvero le cose, i dettagli su cui i gestori del locale, in questo caso, sono esigenti. Le minuzie (ma non solo) che sono importanti e a cui viene dedicata particolare cura.

Una volta badavo alla quantità più che alla qualità. Porzioni abbondanti, del più e non del come. Adesso il rapporto è invertito. E bado alle luci – meglio se lievi, alla musica – che resti sullo sfondo, alla gentilezza del personale, alle sedie o ai divani – che sappiano accogliere e tenere, al sapore del tè e a quello dei dolci, per cui nutro una passione esagerata.

Che ogni momento sia il migliore. Che ogni giorno valga per se stesso e non per quello successivo. Così la penso io. Così la pensano le persone che amo di più e di cui mi circondo. Ci unisce un “kodawari” per la vita che ripaga la fatica con una serenità profonda e duratura.

E’ l’Equinozio di Primavera. Si respira aria di pruni in fiore.

ナマズ o del pesce gatto che muove il Giappone

Stanotte mi sono svegliata che ero già seduta. Il sedere pigiato sui piedi. Il volto verso il muro. Non so cosa ho detto. Era notte. E nel sonno le parole e le cose si mischiano. Deve essere stato “jishin”地震, terremoto.

Ryosuke è rimasto sdraiato, ha detto “daijoubu, daijoubu“ 大丈夫、大丈夫, va tutto bene. E intanto già allungava le braccia tirandomi a sè. Sono rimasta così, con le lenzuola e le coperte per metà spalancate, la testa sul suo petto mentre la scossa, nell’arco di pochi secondi, si assopiva. Dopo qualche minuto il sonno ci ha nuovamente “gremito” e tutto, come sempre, è tornato al silenzio.

In questi giorni le scosse sono frequenti e abbastanza forti. Iniziando dall’Hokkaido, per poi trasferirsi a volo nella zona di Chiba.

Se è cambiato qualcosa dall’11 marzo dello scorso anno è il moto involontario del mio corpo. Non la paura. Io qui mi sento e continuero’ sempre a sentirmi al sicuro. E’ piuttosto la Gigia che mi fa sobbalzare. Perchè anche se in questi giorni non c’è (è a casa dei nonni) so che lei si spaventa e prende ad abbaiare. Prima non lo faceva ma dopo l’11 marzo quando insieme alla suocera e alle amiche di questa si sono rifugiate tutte e quattro sotto il tavolo del salone, vive male il “gata gata”ガタガタ delle porte scorrevoli e inizia a correre per il piccolo appartamento. Così quando c’è un terremoto – senza neanche che io lo voglia o lo intenda – il mio corpo si muove, corre ad abbracciarla. E la ferma. Sembra una continuazione del sonno tanto risulta naturale.

Una volta rimanevo a letto, mi lasciavo cullare dal movimento oscillatorio. E aspettavo che il pesce gatto smettesse di agitare la sua coda.

Namazu ナマズ, namazu, na ma zu. Sembra, ripetuto, il motivetto di una canzoncina per bambini, una marcetta. Na ma zu, na ma zu. Eppure è il nome di un pesce, del pesce gatto che – la leggenda vuole – giaccia sotto l’arcipelago del Giappone. E la sua irrequietezza, il suo movimento di coda si dice provochi le scosse dei terremoti.

E così, sotto il cavalluccio marino che per me da sempre rappresenta il profilo del Giappone – come lo stivale per l’Italia – scopro che c’e’ un pesce gatto. Un pesce baffuto il cui simbolo, per le strade del Giappone, capita di trovare su cartelli stradali che indicano il luogo di rifugio in caso di terremoti.
E’ nell’immaginario dei giapponesi qualcosa di risaputo. Lo si impara da bimbi.

Chiunque decida di vivere in Giappone deve metterlo in conto. Che ci saranno un’infinità di impercettibili scosse e ce ne saranno invece altre, piu’ rare, molto potenti. E’ qualcosa di inevitabile e di legato indissolubilmente alla natura di questo territorio. Dalla mia posso dire che non c’è paese al mondo in cui vorrei trovarmi in caso di terremoto più del Giappone. Qui, ripeto, io mi sento al sicuro.

*La prima immagine è tratta da qui e spiega bene il rapporto tra il pesciolone e il Giappone. La seconda illustrazione, che risale al periodo Edo, ritrae dei namazu che promettono, contratto alla mano/pinna, che non causeranno più terremoti sul territorio giapponese.

* La terza è una foto che scattai parecchie settimane fa su una strada di quartiere e che mostra uno dei cartelli di cui parlavo più su.

Del giungere le mani di fronte ad un panino del Mac Donald

  Una giornata pigra che ha goduto di una colazione che era un pranzo e di una breve corsa in bicicletta verso il mio caffè preferito. Cinquanta pagine almeno al giorno. A volte solo cinquanta, a volte cento. A volte anche di piu’. E’ questo che penso ogni mattina quando mi sveglio e immagino il giorno che verrà. Almeno cinquanta pagine al giorno e vedo che nella lentezza acquisto velocità. Le parole scorrono dall’alto in basso e da destra a sinistra come vuole questa lingua così complicata e affascinante. Una dopo l’altra le parole diventano frasi e le frasi paragrafi. E poi pagine e capitoli. E infine il libro, con il suo significato, è nella mia testa.

  E’ una lingua questa che si acquista e poi si perde. Si può vivere qui anche da vent’anni ma l’esercizio degli occhi non è quello delle orecchie. E c’è fame di possedere più parole. Sempre più parole. Nel sonoro e nel visivo.

  La lettura preferita di Mishima, mi ricordava oggi Cristina, era il dizionario. Il miglior amico dello straniero. Ma anche il compagno d’ogni scrittura che miri a superarsi.

  Stasera, dopo la chiusura del mio caffè, sono andata da Mac Donald. E’ un luogo che non amo. Non ne mangio il cibo ormai da tantissimi anni. Ne detesto l’odore. Eppure oggi ci sono andata perchè è aperto fino a tardi, avevo voglia di scrivere e dovevo finire le mie cinquanta pagine quotidiane. Un te’, i libri e il mio pc.

  Così, quando stavo per andare via, ho visto una scena deliziosa che mi ha ancora una volta arricchita.
  Un uomo tra i quaranta e cinquant’anni, la fede all’anulare, gli occhiali quadrati e le vesti da salaryman, ha poggiato il suo manuale sulle ginocchia. Poi, con l’hamburger del Mc davanti, la bibita, le patatine oleose e tutto il resto, ha giunto le mani e ha chinato il capo.

  “Itadakimasu” a fior di labbra e poi, con le mani ha afferrato il panino e l’ha portato alla bocca.

  Lo vedo nei bambini che sotto lo sguardo benevolo della madre si accingono a mangiare ma mai mi era capitato di osservarlo in un adulto, oltrettutto solo, con un panino del Mac Donald davanti.
L’”itadakimasu” che significa letteralmente “ricevo” e che si pronuncia prima di mangiare. Un “buon appetito” con sottili differenze che fanno dell’espressione in giapponese qualcosa di più legato all’atto del ricevere che all’augurio.
E, nel ricevere, si avverte anche un ringraziamento per chi quel cibo l’ha confezionato. O anche, a seconda delle persone e della sensibilità, per l’essere vivente è morto per divenire nostro nutrimento.

  E ho deciso che da oggi cercherò di farlo anch’io. Ogni volta. Giungere le mani, in segno di riconoscenza. Perchè per quanto io sia italiana e sia cresciuta in una cultura diversa da quella in cui ho scelto di vivere, voglio adottare e mantenere il meglio di entrambe. Perchè anche dopo una certa età – quando ormai si è usciti dalla casa dei propri genitori – ci si continui ad educare.

“Itadakimasu”

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