Nostalgie da migrante
Di quelli che ormai appartengono alla vita passata, tagliati su misura su quella che ero e che non sono più.
Mi si gonfiano gli occhi di lacrime. E’ solo stanchezza. E’ così che ricaccio indietro ogni cedimento.
“E’ perchè devi dormire di più. Se non dormi stai male” mi direbbe lei. Mia madre.
La distanza tra un continente e l’altro, tra l’Italia e il Giappone, si tramuta e si approfondisce. Una distanza non più fatta di chilometri, di paesi da attraversare per raggiungerci l’un l’altra, bensì fatta di tempo. Anni che si allungano, gonfiandosi d’esperienze private. Come pasta lasciata nell’acqua. La metti in bocca e la lingua, da sola, basta a disfarli.
Anni che hanno vita propria e non si lasciano più raccontare. E anche se ci provi, a narrarli, si rivelano per quello che sono: solo racconti.
Ieri in un caffè ho visto due coppie di donne. Una madre, una nonna e due figlie. Nella distribuzione dei pani e dei pesci ognuno riceve cibo e bevande. Le bambine si fanno le smorfie, la madre e la nonna si preoccupano delle conseguenze dei loro movimenti. La linguetta di un succo di frutta che una delle due bimbe cerca di staccare coi denti, bagnando di saliva il contenitore di plastica. Un attimo e i grandi risolvono i problemi dei piccoli. La pazienza non smorza il sorriso. Sono pasti brevi. I bambini si stancano presto.
E nell’alzarsi, nel restituire il vassoio pieno ormai solo di gusci al commesso, la nonna passa una mano sulla spalla destra della figlia, spazzando via con il palmo invisibile sporcizia. Forse qualche granello di polvere, forse un capello.
Un gesto che mi è sembrato tanto materno. Un gesto non richiesto. Forse persino inutile.
Le chiude anche la giacca. Un istante di dita. Forse un bottone.
E penso “ecco un altro di quei gesti che compiva una volta, quando la figlia era bambina, e che adesso non servono più”.
E, per un attimo, mi è tornata forte la nostalgia di mia madre.