甘える o del farsi coccolare
Tenero risveglio, è lunedì. Sul futon con Sousuke a giocare un’ora, forse più. Lui che impara la portata degli abbracci, le effusioni che si apprendono con l’età e la cultura della madre e poi del padre. Guancia guancia, naso naso.
E poi dita che si impiastricciano di nomi e indicando strillano con volume impreciso della voce dove è l’occhio, dove l’orecchio, la fronte, il mento e così via.
Il mio bimbo cresce e impara ad abbracciare. Nessuno lo immagina forse, io almeno lo ignoravo, ma cose ovvie per gli adulti, giungono per loro nel tempo richiesto. Da loro, non da te.
E in questi giorni di estrema stanchezza, è così bello abbandonarsi alle brevissime chele di Sousuke. Che sorride, talvolta non capisce, ma ama. Nel modo migliore che ha. Migliore se non altro del mio.
Tempo molle, che si tira come un elastico che non farà che cedere alla fatica delle dita. Sarà arrendevole, tra noi.
Sousuke agita la bottiglietta, nelle bolle vede pesci il mio bimbo. Lo affascina il suono, almeno quanto interpretare le sue visioni affascina me.
Coccolare, del resto, significa imparare del corpo la comunicazione eletta, la mollica del pane, del cibo il consumare con la gioia.
Scelgo periodicamente chi amare, costa tempo, costa impegno, costa fatica. E con la vita che scelgo, che adoro ma trabocca di pensieri, di letture, di parole ascoltate più che dette, con nuovi campi di studi in cui gettarmi, non posso che essere severa.
Amare per altruismo non mi riesce. Amo, intensamente, ma pochissime persone. Così poche che forse sono solo quattro o cinque. E rinnovo in me, periodicamente la domanda. La/lo amo? Perché?
E se la qualità del mio sentimento è scadente, è giusto che finisca. Per me che non mi piaccio a dare poco e male, per l’altro che non merita i miei scarti, per tutti e due.
Da quando in Giappone sono madre, certe parole ricorrono frequenti, se ne colora il senso.
Come 「あまえる」, che ritrovo anche in una delle letture di questi giorni, L’Atlante delle Emozioni Umane di Tiffany Watt Smith (Edizioni Utet). Un libro molto grazioso, sulla scia dei tanti scaturiti dall’intraducibilità di spezzoni di lingue.
Pur non conoscendo questa lingua, la scrittrice tenta di spiegare il sentimento che definisce “amae”, rifacendosi al saggio di Doi Takeo Anatomia della dipendenza.
Amae ha una assonanza tanto bella con il nostro amare che, però, più che amore in generale è la ricezione dello stesso. Senza condizioni da rispettare, senza ma e senza se.
È l’essere viziati da qualcuno che non si attende nulla in cambio, il rilassarsi grazie all’intercessione di una persona che è disposta ad accontentare i nostri più spiccioli capricci. Ed il viziare non ha accezione negativa in questo caso. È questo ciò che rende speciale il verbo amaeru.
Per me che sono allergica agli obblighi familiari od amicali, detesto i regali e il dovere dell’affetto, il Giappone è quanto di meglio esista. Il senso di colpa nella non frequentazione non esiste, i legami familiari non stringono strozzando, ma rendono liberi piuttosto. La qualità resta sempre alta, ben distribuita nel dare.
Perchè quel che si dà, in fin dei conti, è donato veramente.
Per un italiano abituato all’emozione sempre rinnovata, ad una frequentazione intensa, quasi appiccicosa, questo modello di relazione può turbare, lasciare perlomeno un po’ perplessi. Ci si domanda se l’amore sia davvero esercitato, se la densità non sia la misura di valore.
Ma se di qualcosa sono certa, è che la densità non mi appartiene, e se la sento esercitata come un’arma la sospetto. Ci vuole un’intelligenza che conosce il calibrare, la proporzione delle cose e del sentire.
E so che con Ryosuke, con la sua adorabile famiglia, posso veramente avvertire la portata di questo verbo pieno, rarissimo: 「甘える」 /amaeru/.
Anche per questo motivo ritengo non sia facile stringere rapporti d’amicizia profondi con i giapponesi, non nelle tempistiche perlomeno che conosce l’occidente. Li si taccia spesso di freddezza, di invisibile distanza. Ma è questo che ci distingue. Quando si entra non si esce. Quando si entra veramente non c’è più il rischio (elevato) di trovarsi male in quel rapporto.
Amaeru è verbo di dolcezza, c’è del resto l’aggettivo nelle radici dell’arbusto. 「甘い」 /amai/ significa “dolce”.
E non sempre è un complimento. Una visione può essere anche amai e, in quel caso, se lo è il progettarsi il futuro, la reazione di qualcuno, l’aspettativa eccessivamente positiva di qualcosa, ecco che lì significa peccare di ingenuità, di non essere in possesso di una visione ben strutturata e razionale delle cose.
E come il troppo dolce, che quando riferito a un dessert è per esempio negativo, un pleonasmo, in quanto il dessert si suppone sia già dolce e quella qualità risulta un rinforzamento innecessario. Al contrario amai se riferito alla frutta o a certi ortaggi è chiaramente positivo.
Il troppo, nella cultura giapponese, stroppia sempre. La ridondanza non è mai apprezzata.
Volgare è ritenuta la manifestazione accesa dell’amore, come quella della rabbia, la generosità gridata ai quattro venti, così come la purezza presunta del proprio cuore. Quanto esiste, ed è davvero, troverà la sua manifestazione più corretta, si vedrà, senza bisogno di annunciarlo.
La dolcezza, insomma, pare dire questo verbo giapponese più complesso di quanto non sembri a prima vista, va distribuita con cautela.
E con cautela ricevuta.