日記 o di un 20 maggio in Giappone

I luoghi sono ovvi. Tutto quanto di cui non conosciamo la storia e i trascorsi lo è.
L’aeroporto di Narita è la zip da cui si spalanca al turista il Giappone, così lo fu anche per me.
Ne attesto l’esistenza come di uno dei tanti non-luoghi della terra, quei posti che hanno più o meno la stessa faccia in tutti gli altri paesi del pianeta, quella dell’efficienza, dell’uso, della praticità.

La sua anima non importa a nessuno.
A un aeroporto non è richiesta

Narita tuttavia è anche il cartello appeso all’ingresso della zona di sbarco con su scritto「お帰りなさい」 “bentornati”, formula che recita in giapponese la percezione precisa di una cultura in cui, chi vi fa parte, si sente costantemente riaccolto. Riconosciuto, riconoscente.

Benvenuti? No, bentornati.

Risale proprio al 20 maggio del 1978 l’inaugurazione dell’aeroporto di Narita, terreno di lotta tra i contadini che abitavano e lavoravano quella terra che di diritto gli apparteneva e il governo che li espropriò, per costruirvi il fiore all’occhiello della città, il collegamento di Tokyo col cielo, uno dei cancelli del Mondo con il Sol Levante.

È questo lo scherzo della storia. Che se non la conosci, semplicemente non c’è.

E tuttavia Narita, ora placida realtà assestata, fu allora teatro di un drammatico e per certi versi ignobile scontro tra forze di polizia e contadini resistenti, cui si unirono giovani studenti che abbracciarono la causa, perché la ritennero giusta. Erano gli anni 60. No, anzi, per spiegare meglio serve esser precisi: erano sette anni dopo, subito otto. Il ’68.

Il risultato di quello strenuo braccio di ferro attuato nella prefettura di Chiba, fu che il progetto iniziale dell’aeroporto si ridusse di un quarto e ci vollero ben 12 anni perché venisse ultimato. Tempi che nell’efficientissimo Giappone corrispondono a un “imperdonabile infinito”.

E se la maggior parte dei resistenti di allora è molto anziana o già scomparsa per motivi di età, a Narita, come scrive Paolo Brogi nell’introduzione al suo ’68 Ce n’est qu’un début… – Storie di un mondo in rivolta (Imprimatur, 2017), si sono create coppie formate da studenti e giovani contadine.
E dallo scempio delle angurie spaccate dalla polizia – che voleva a tutti i costi cacciare via quella gente dai propri campi, una immagine che rese celebre la resistenza degli agricoltori e l’irrispettosa violenza della polizia -, dalla “grande battaglia dei cocomeri di Sanrizuka”, sono nate nuove famiglie[1].

 La prossima volta che si partirà o ripartirà da e verso Narita, granelli di polvere nel traffico giornaliero di quasi 100,000 persone, sarebbe bello ricordare che la Storia è passata anche di là. E che una volta vi crescevano splendide angurie.

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令和元年 五月二十日 Anniversario dell’inaugurazione dell’aeroporto di Narita 

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[1] Brogi, Paolo, ’68 Ce n’est qu’un début… – Storie di un mondo in rivolta, Imprimatur, Reggio Emilia, 2017, pos. 104

Reiwa o del mantenere il coraggio di andare a tentoni

 È iniziata la nuova era. Nel modo dolce delle vacanze, piovigginando, lasciando sgombri i convogli nell’alba, gonfiandoli di gente nel giorno, puntellato di gite, quaderni di bambini delle elementari su cui apporre timbri a ogni stazione, cinema e acquari, musei dove osservare la vita spremuta, qualunque; e poi bandiere esibite sulla veranda, un tondo scarlatto su sfondo bianco, e un febbrile apri e scendi di scale nell’ora di punta del turismo, che non è più quella dei pendolari, ma più avanti, nella mattinata di partenza e nella sera del ritorno, e biglietti di accesso a qualunque cosa a sua volta si apra e si chiuda e abbia un orario e una guida.

Coincide con la Settimana d’Oro in cui ogni data di questa settimana tramutata in dieci giorni brilla di una ricorrenza. Per ognuna un motivo di festa.

Incrociando gli impegni delle varie università in cui lavoro, solo tre giorni dei dieci ho finito per avere lezione e, sinceramente, non mi sono pesati per nulla. Forse è proprio lo stacco, il lavoro nella vacanza, la vacanza nel lavoro a restituire la giusta dimensione di entrambi.

E potersi svegliare un poco più tardi, certi di non trovare sulla banchina quella ressa ordinata pronta a scattare all’approssimarsi del treno, l’apertura sempre sorprendente delle porte, restituisce una calma inaudita, ancora più dolce.

La placidità di questo paesaggio fuori dal finestrino del treno, in cui taglio un lungo pezzo di Tokyo in diagonale, mi infilo nel ventre del Kanagawa e passo dalle montagne al cemento, da casette di non più di due piani a grattacieli di decine di uffici e appartamenti, impilati come ciotole gli uni sugli altri, me lo conferma.

Trovo bellissimo che, in questi giorni di doppia, tripla, quadrupla festa, l’inaugurarsi della nuova era sia salutato dalle carpe di stoffa che cavalcano il vento della prima settimana di maggio. Il 5 maggio è il giorno dei bambini, un tempo solo dei maschi, oggi anche delle femmine (cui tuttavia resta dedicato in esclusiva la Festa delle Bambine il 3 di marzo).

Sono loro Reiwa, sono loro la nuova epoca attiva di questo Giappone che va velocissimo nel lavoro, ma lento nel mutamento. Ed è una garanzia. Tutto quanto va di fretta rischia d’essere errato.

Pare un film muto, commentava a proposito della cerimonia di insediamento del nuovo imperatore del Giappone un giornalista italiano, in uno dei tanti articoli che trovo postati sulle pagine dei miei contatti. Li apro sempre con un parco timore, di ritrovarvi giudizi distorti, frettolosi tiri di somme, e alla morra cinese e bim bum bam e chissà cosa ne viene fuori.

Un film muto. Espressione usata senza malizia. Ma tant’è.
Eppure come dice una mia carissima amica, le cose migliori covano nel silenzio. E nel silenzio si schiuderanno.

L’Occidente richiede uno sfondamento del vecchio, come se il passato, quell’odore del prima, puzzi di stantio, come se rimanere un passo indietro si traduca in un’attitudine da “perdenti”.

E invece la tradizione rallenta, ti pone la stessa domanda ogni volta: “dove stai andando è esattamente dove vuoi andare?” e rassicura “hai tempo per fare un passo indietro, non ti supererò, veglio sui tuoi passi, tu mantieni il coraggio di andare a tentoni”.

Una nota soltanto prima di chiudere questo discorso.

Con il disastro del Tōhoku, la famiglia imperiale si è posta con quell’atteggiamento dignitoso, compassionevole che le è proprio, accanto alla gente, e la gente le ha restituito il suo ruolo.

Ricordo, prima di allora, sentir definire scherzosamente la famiglia del Tenno come petto, animali da compagnia dei giapponesi, in quel modo in cui i cagnolini e gattini diventano luogo in cui riversare una cura simbolica, bella, ma priva di messaggi complessi. Animali addomesticati già nel pensiero, prima ancora che nel comportamento. Come diceva Berger.

Status symbol di una nazione. “Abbiamo l’imperatore, ma in realtà politicamente non conta nulla.”

Serve invece ricordare che l’imperatore è una guida di comportamento, proprio perché mantiene un passo indietro. E questa domanda ricorrente, cocciuta, su “cosa cambierà grazie a” di cui francamente sono un po’ stanca.

Succederà come accade sempre quando si conclude qualcosa. Quando si ha a disposizione uno zero, quando parte il lunedì e la settimana si spalma davanti, quando è Capodanno e subito sarà il primo giorno dell’anno.

Quando si aprono gli occhi la mattina di un nuovo giorno e si sente di avere più futuro davanti di quanto passato non si abbia alle spalle.

 

 

Reiwa 令和- riflessioni su un’era

Con i gessetti, tracciando il nome della nuova era sul muro di casa, c’era una ragazzina di circa dodici anni.
Sbatteva sulle spalle la lunga coda nera, e a fianco il suo giovanissimo padre, la barba disordinata sul volto e i capelli a sua volta raccolti intorno a un elastico fine. Vegliavano entrambi sulle linee bianche e rosse dei kanji, sul muro già segnato a Capodanno, suppongo, quando il cinghialetto dell’anno corrente prese il posto del cane.

Dentro casa, al di là di una vetrata tagliata in quadrati dal legno, si intravedeva il tondo scarlatto su sfondo latte della bandiera giapponese.

Ora che ricordo aveva un monopattino in mano e ai piedi la scatola di legno in cui sciacquavano i tozzetti di gesso. Ridevano della curiosità che, ne erano certi, avrebbe provocato nei passanti quella scritta.

Capita di fare qualcosa per poterlo mostrare. Capita di spartirlo con altri. Accade soprattutto  con la Storia, che coinvolge tutti.

In fondo era ed è la condivisione netta di un momento epocale.

È il caso di Reiwa 令和 (pronunciata reiua). Dell’era che è appena iniziata.

Nella società giapponese il cambiamento dell’imperatore è un evento sconvolgente, storicamente scioccante. L’abdicazione è già avvenuta nella storia del Giappone ma mai dopo il 1868 quando, in reazione alla morte di Mutsuhito, lo shōgun Nogi Maresuke, la massima carica politica del tempo, si suicidò.

La conclusione, in quel caso, prevalse.

È, letteralmente, la fine di un’epoca. Ed enorme impatto sull’opinione pubblica ebbe anche la conclusione del periodo Shōwa. Tuttavia, questa volta, il periodo Heisei si chiude con un softo randingu ソフトランディング, ovvero un “atterraggio morbido”. L’imperatore è vivo e in buona salute. L’abdicazione non giunge come un evento luttuoso ma come il preparativo di una gioiosa celebrazione.

L’imperatore Heisei, più del precedente Shōwa, è stato vicino alla gente, in un rapporto di “guida nelle retrovie” che è tipico della famiglia imperiale e che, mi rendo conto dalle varie interviste che ho rilasciato io stessa in questi giorni, si fatica a spiegare ai giornalisti italiani, all’Occidente in generale che domanda insistente:

«Cosa cambierà? Quali stravolgimenti ci possiamo attendere?»

«Ebbene, nessuno. Nessuno che il resto della storia non stia già elaborando.»

Perché, pur nella spiegazione che tento dettagliata, noto incompresa sul volto del mio interlocutore, che pare si inceppa nell’orecchio di chi ascolta, il ruolo imperiale non sta nell’avanguardia, nello sfondamento, ma nel guardare le spalle, nella selezione, a posteriori, di quanto è accaduto nel mondo e che vale la pena adottare.

Si tratta di rallentare il passo, gravato dal peso importante della tradizione e della storia.
E se la contemporaneità schizza da una parte all’altra, l’Imperatore va piano, accompagna con procedere saggio gli eventi del Giappone e del mondo.
È come qualcuno che lavori a posteriori, selezionando il meglio di quanto è accaduto.

La famiglia imperiale giapponese non è per nulla paragonabile ai reali d’Europa, il suo peso “strettamente politico” è pressoché nullo.
Il culto della persona, non c’è.
Tutto è ruolo, simbolo, forma.

Questo imperatore è stato il primo a studiare all’estero e, ancor prima, il primo principe a non essere allontanato bambino dai genitori che scelsero di allevarlo in prima persona. Fu infatti il primo a ricevere la cura diretta degli imperatori. «La separazione dal bambino non ci pare opportuna», disse Akihito con quella garbata fermezza che mi parve eccezionalmente tenera, paterna.

Sono questi eventi “rivoluzionari”?
Per la famiglia imperiale sì, ma non per la società che già aveva innescato quei preziosi mutamenti.

Una imperatrice donna?
Arriverà, ne sono assolutamente certa. Quando se ne presenterà la necessità.

La tradizione è qualcosa che, una volta mutata, non può tornare più allo stato di prima. Ogni passo, è un passo definitivo.
Per questo serve moltissima circospezione. Ponderatezza nel prevedere ogni possibile conseguenza.

Quando sbagliare non è permesso serve andar piano.

L’impero non “cambia” i tempi. Li legge. Li interpreta. Adotta il definitivo.

Dona il frutto sbucciato, non quello che pende dal ramo, magari ancora immaturo.