習う, delle ali o dell’imparare

 Da questa camera d’albergo affacciata sul Mare di Okhotsk nell’Hokkaidō, dove un tempo vivevano solo gli Ainu e in cui in inverno la superficie si ghiaccia e a riva arrivano ernormi blocchi colmi di plancton, qui dove il pavimento è di tatami e il letto è un tutt’uno col legno scuro che profuma la stanza, qui dove fare l’amore è solo un rotolare e la pelle tocca materie inedite alla asettica pulizia della città, qui da cui si scorgono – nella stessa immensa cornice della finestra – pescherecci attraccati e monti abitati da cervi selvatici, volpi, aquile di mare ed orsi bruni, resto accucciata ad ascoltare lo stridere dei gabbiani mentre, guardando verso il cielo, ne osservo il ventre e, buttando giù nel mare gli occhi, ne scorgo il dorso.

DSC04393 - コピー

 Imparare ha ali d’uccello in questa lingua. Sono in origine i kanji di 「」 /u/ ali e quelli di 「」 /etsu/, che è particolare contenitore usato negli antichi rituali e il cui coperchio rimane un poco aperto, di modo che vi si scorgono dentro le preghiere al dio. Ed ecco 「習う」 narau che è imparare, apprendere, studiare.

 Sembrano ali bianche 「白」 (e nel contemporaneo ne hanno tutte le fattezze), ma celano in quel kanji a cinque tratti qualcosa che nell’antichità significava molto di più.  L’imparare ha delle ali la persistenza, il continuo movimento d’apertura e di chiusura che fa infine spiccare il volo ad un essere che, solo pochi istanti prima, sembrava invece ancoràto alla terra.

 Imparare a volare è emulare. Imparare è, per prima cosa guardare, ascoltare, assaggiare, toccare, annusare.

DSC04540 Poi apri un libro, leggi qualche pagina e, per quanto banale sia, la verità che è che ogni volta che lo chiudi sai qualcosa che prima di aprirlo non sapevi. Qualcosa che era altrui e che adesso è diventato tuo.

  Porta dipendenza l’imparare. Ha in sè una difficoltà iniziale cui segue una felicità duratura, un piacere nell’essere sè e, insieme, altro da sè.

 Si impara per riuscire un giorno a sbattere le ali. Per volare via magari da situazioni sociali e familiari, magari persino geografiche, che costringono ad un’esistenza che non si ama, che non ci si confà. Per non rassegnarsi, per non tenere rimpianti, per non arrivare al punto di non avere più il coraggio di provare e di buttarsi a capofitto nella vita..

DSC04611

 Come un enorme televisore che mostra solo cose degne d’essere mostrate, mi siedo a strapiombo sulla visuale di questa stanza di Shiretoko 知床 (che in lingua Ainu significa “estremità della terra”) e guardo il mare tramontare, il cielo ondeggiare e la vita agitarsi pacifica al ritmo delle onde.

 Dorme Ryosuke, il corpo disordinato sul suo letto, il braccio a ripararsi dalla luce, il volto abbandonato al sonno. Quando si sveglierà glielo chiederò, ripetendo ripetendo ripetendo ancora domande che valgono come il riso o come il pane, come l’abitudine bella di ogni relazione che non muore.

Mi ami?

Ti amo da morire!

C’è bisogno di morire per amare?

Nella mia lingua serve, sì.

DSC04642

  Lo yukata a sera poi ci stringerà i fianchi, le enormi maniche svolazzeranno sopra alle pietanze e servirà fermarle con una piccola pinzetta, ai piedi calzeremo ciabatte e fotograferemo il cibo solo per riguardarcelo tra noi e ricordarne la gioia. Che quando non la si ha tra le mani, la felicità sembra che non ci sia stata mai. La si scorda tanto facilmente.

  Imparare è forse questo. Ripetere uno stesso movimento, tentativi che non si esauriscono in una manciata di sassolini sul selciato ma s’ampliano a dismisura in un lunghissimo viale di cui la fine non si scorge mai. E imparare ad amare e a farsi amare non è diverso. È ripetere azioni, sentimenti, darsi la possibilità di sbagliare, di riprovare, di farsi perdonare. Ed è difficile ma bello.

 Tanto che, una volta iniziato a sbattere le ali, non si finirà probabilmente di farlo mai.

DSC04308

♪ M83 – Wait (Kyogo Remix)

Le donne di Higuchi Ichiyō, Yoshiwara e due racconti. E la storia del ragazzo che li ha tradotti.

Un libro uscito in sordina, la prima traduzione di una donna fondamentale per il Giappone quanto poco conosciuta in Italia. La vita di una precoce e talentuosissima scrittrice, delle donne “diverse” che ella sceglie di raccontare. E la storia del ragazzo italiano che ha scoperto per caso il Giappone e che ha deciso di tradurre due dei suoi più significativi racconti.
Lei è Higuchi Ichiyō, lui Andrea Fioretti e il bellissimo libro si intitola Due racconti.

 

  1. Raccontaci di te e come sei arrivato in Giappone. Qual è stato il tuo percorso di studi?

Premetto che all’origine della mia scelta non c’è una vocazione. O meglio, se prendiamo questa parola alla lettera, cioè come una “chiamata”, allora sì, riconosco che qualcosa del genere l’ho avuta. Il fatto è che all’inizio non sapevo da dove arrivasse quella chiamata.

DSC02979 - コピー (2)Da bambino amavo molto la geografia, gli atlanti. A casa avevamo anche un grande mappamondo (a me, almeno, sembrava enorme!) che si illuminava dall’interno: da spento mostrava la geografia fisica, mentre una volta acceso apparivano tutti i confini politici dei paesi, con diverse gradazioni di colore.

Il desiderio di provare a vivere in un luogo diverso da quello in cui ero nato l’ho sempre avuto. Troppo poco per chiamarla vocazione? Non lo so, ma credo che ci sia questo alla base della mia decisione di vivere in Giappone. Di certo non una necessità di emigrare, né tantomeno una fuga da un luogo “detestato”. Amo moltissimo l’Italia; ma la amo come un luogo in cui tornare periodicamente.

Il Giappone è arrivato per caso. All’università avevo scelto i cosiddetti studi orientali perché mi sembrava un’opportunità per conoscere cose che nelle nostre scuole vengono quasi sempre trascurate, se non del tutto omesse. Il primo impatto in realtà l’ho avuto con la lingua cinese: ricordo il lettore madrelingua impegnato ad orchestrare un coro di un centinaio di studenti nel saliscendi delle sillabe tonali. Non so, almeno all’inizio il giapponese mi sembrò più accessibile e lo scelsi come prima lingua. Sul cinese ci sarei tornato qualche anno più tardi, con grande entusiasmo, scoprendolo anche più semplice del giapponese (se non nella pronuncia, almeno per la grammatica e la conversazione di livello elementare).

Durante il corso di laurea non sono mai stato in Giappone, nemmeno per una semplice vacanza. Per quanto possa sembrare contraddittorio non amo molto viaggiare. Del viaggio mi affascina la componente dinamica, lo spostamento in sé; ma affacciarmi in un certo luogo per qualche ora e poi lasciarmelo alle spalle non mi interessa, e spesso mi lascia solo il rammarico di aver curiosato in un “possibile” con cui non avevo nulla a che fare.

Dopo la laurea ho ottenuto una borsa di studio che mi ha permesso di partire in tempi relativamente brevi. Mio padre Alessandro era scomparso da un anno; una serie di avvenimenti mi ha fatto capire che la vita stava cambiando e che io dovevo assecondare quel cambiamento. Alla partenza non sapevo quanto sarei rimasto in Giappone (in un primo tempo dovevano essere un paio di anni). Una volta arrivato invece, già nel silenzio “iniziale” dei corridoi dell’aeroporto di Narita che mi guidavano all’uscita, mi sono accorto che le mie sensazioni non erano nuove, ma solo dimenticate; lo stato d’animo era quello di un ritorno, piuttosto che di un arrivo.

  1. Perchè hai scelto di tradurre Higuchi Ichiyō? Perchè hai scelto una donna?

eacc95baIn verità anche questa scelta è dovuta ad una contingenza piuttosto casuale… Evidentemente ho un rapporto piuttosto amichevole con il caso. All’Università, fra i testi d’esame per il corso di letteratura giapponese moderna, c’era ovviamente il completissimo Dawn to the west di Donald Keene, un manuale di oltre mille pagine. Nel prepararlo, in un primo momento, privilegiai alcuni capitoli che mi sembravano più importanti e tra gli “esclusi” c’era proprio quello su Ichiyō. Allora non sapevo nemmeno che si trattasse di una scrittrice, ma quando lo appresi rimasi molto colpito dal fatto che in un panorama dominato da scrittori uomini, una ragazza morta di tubercolosi all’età di 24 anni, con una ventina di racconti, alcuni dei quali giudicati perfetti già dai contemporanei, e prodotti tutti nell’arco di poco più di un anno, si fosse guadagnata in Giappone una fama pari a quella di autori come Natsume Sōseki o Mori Ōgai. Il suo racconto, o romanzo breve, più famoso, Takekurabe, non era stato ancora tradotto in italiano, così è nato in me il desiderio di occuparmene.

Sono sempre infinitamente grato alla Prof.ssa Maria Teresa Orsi per avermi dato fiducia quando le proposi di presentare come tesi di laurea un lavoro su questo racconto che presentava una lingua ed uno stile non certo paragonabili a quelli che fino ad allora avevo avuto modo di conoscere. Era il 2002 e solo due anni più tardi in Giappone sarebbe entrata in corso la banconota da 5.000 yen che raffigura il viso della scrittrice, un’iniziativa che ha contribuito a rinnovare la celebrità di una figura tanto nota quanto poco letta dalla maggior parte dei giapponesi. Se infatti Ichiyō rimane materia di studio sui testi scolastici, la lingua dalla forte impronta classica e lo stile narrativo quasi da prosa poetica, rendono sempre meno accessibili i suoi racconti al grande pubblico. Le stesse caratteristiche hanno per altro favorito la produzione di traduzioni in giapponese contemporaneo e versioni modernizzate dei testi, a riprova di quanto la sua figura sia ancora radicata nell’immaginario collettivo.

200341705-001

  Bisogna dire poi Ichiyō ha spesso risvegliato grande interesse fra studiosi e traduttori uomini. Non mancano ovviamente autorevoli casi che mostrano invece il contrario (in Italia abbiamo l’esempio del racconto Jūsan’ya (La tredicesima notte), tradotto da Suga Atsuko, o il bellissimo Come la luna dietro alle nuvole della scrittrice Carla Vasio). Tuttavia ad oggi le traduzioni che permettono a Ichiyō di essere apprezzata a livello globale (quelle in lingua inglese, francese e tedesca ad esempio), sono state prodotte da traduttori uomini. Credo che questo interesse da parte maschile sia dovuto alle tematiche trattate nei suoi racconti, specialmente i due che anch’io ho scelto di presentare nel mio libro.

  Personaggi femminili ritratti da un punto di vista femminile all’interno di un ambiente tradizionalmente  deputato al divertimento maschile, come quello dei quartieri di piacere. In epoca Edo erano le ambientazioni della narrativa popolare di Ihara Saikaku; più tardi sarebbero state quelle dei capolavori di Nagai Kafū. Ma il punto di vista di una giovane narratrice, che per altro con quegli ambienti venne a contatto solo da osservatrice, vivendo piuttosto la quotidianità di zone ad essi limitrofe, rappresenta qualcosa di assolutamente originale ed unico.

  1. Chi era Higuchi Ichiyō? E perchè la tua scelta è caduta proprio su questi due racconti?

  In Giappone Ichiyō è stata la prima vera scrittrice di professione. Vive nella prima parte dell’epoca Meiji, e dunque, grosso modo, nell’ultimo quarto dell’Ottocento. La sua famiglia non è particolarmente benestante, ma almeno all’inizio le condizioni economiche sono tali da permetterle di iscriversi, una volta terminate le scuole, ad un prestigioso istituto poetico (lo Haginoya) e seguire dunque, grazie soprattutto al sostegno del padre, la sua passione per la poesia.

  La scelta di scrivere racconti da pubblicare serialmente, secondo l’uso dell’epoca, su riviste letterarie è stata dettata dalle necessità. Rimasta orfana del padre e perduto prematuramente anche il fratello maggiore, condivide con la madre e la sorella minore Kuniko (un altro fratello e un’altra sorella si erano già allontanati dalla famiglia), un periodo di grave indigenza, assumendo praticamente il ruolo di capofamiglia. La decisione di aprire una piccola, e poco fortunata, attività commerciale nei pressi del quartiere di Yoshiwara costituisce uno dei tentativi che le tre donne fanno proprio per ovviare alle conseguenze dei tragici eventi da cui erano state colpite. L’attività fallisce appunto nel giro di pochi mesi, ma quella esperienza rappresenta un fattore di ispirazione fondamentale per la giovane Ichiyō, che successivamente produce tutti i suoi racconti più significativi.

page0001main07

  Schiena contro schiena (“Takekurabe”) e Acque torbide (“Nigorie”) sono profondamente legati fra loro, non solo per le caratteristiche dei personaggi o per l’ambientazione, come accennavo, in quartieri e locali di piacere, ma anche perché vennero scritti sostanzialmente in contemporanea: il secondo viene composto e pubblicato quando il primo era ancora a metà. Una scelta dettata, anche in questo caso, da esigenze economiche; nella fattispecie il denaro occorrente per celebrare il settimo anniversario dalla morte del padre Noriyoshi. Anche in Giappone questi due racconti vengono spesso ripubblicati in coppia, per cui mi è sembrato che la soluzione di raccoglierli in un singolo volume potesse servire a riservare loro l’attenzione che meritano. Acque torbide, inoltre, è considerabile idealmente come un seguito di Schiena contro schiena.

  133872784928613219650La protagonista di quest’ultimo, l’esuberante e intraprendente Midori, ci viene presentata nelle ultime fasi della sua adolescenza. Il suo destino è quello di seguire le orme di sua sorella maggiore, una oiran di eccezionale popolarità nel quartiere di Yoshiwara. La Oriki di Acque torbide lavora per un locale di carattere più popolare rispetto a quelli di Yoshiwara (e situato nella zona in cui Ichiyō trascorse gli ultimi anni della sua vita), ma anche lei è dotata di uno straordinario fascino che le consente di essere costantemente sopra le righe, di non dover sottostare alle regole di comportamento cui sono costrette le sue colleghe; e nonostante questo, anzi forse proprio in virtù di questo, superarle di gran lunga in successo e popolarità.

  Ovviamente non si limitano a questo le caratteristiche di Oriki, c’è soprattutto un misterioso “male” che la affligge, la cui natura riusciamo solo ad intuire dai monologhi in cui dà voce ai suoi dilemmi interiori. Midori, da parte sua, va incontro ad una non meglio specificata “trasformazione” in seguito alla quale non sarà più la stessa. Credo quindi che da questi due racconti emerga in modo molto chiaro il forte interesse di Ichiyō per personaggi femminili dal carattere complesso, come sono appunto Midori o Oriki; anche da certe pagine dei suoi diari (un’altra componente essenziale della sua produzione letteraria) apprendiamo come fosse alla costante ricerca di figure femminili di questo genere.

  Mi sembra che in esse si possa riscontrare un forte elemento di identificazione da parte della scrittrice, che grazie a qualità del tutto innate, trovò il modo di eccedere le difficoltà e le miserie del quotidiano a cui le contingenze della vita l’avevano costretta. Nel suo caso, il mezzo con cui raggiungere questo risultato, è stato quello dell‘arte letteraria, qualcosa di ben diverso dal “mestiere” a cui sono fatalmente legate le sue donne, ma il fascino per la diversità, per ciò che è fuori dal comune, il “fare le cose che gli altri non fanno”, per riprendere una frase fatta pronunciare a Midori, rappresenta a mio avviso un importante fattore di coincidenza fra l’indole della scrittrice Ichiyō e la materia di molti suoi racconti.

  1. Come è nato questo libro?

Il mio lavoro non è che uno dei fattori ad aver reso possibile la realizzazione di questo lavoro. Sia dal punto di vista della traduzione, sia per quanto riguarda la fase di redazione ho potuto contare sull’aiuto di persone a cui sono legato da grande amicizia.

I miei ringraziamenti vanno in primo luogo all’editore Varo Vecchiarelli, non solo per aver dato fiducia, senza alcuna esitazione, a questo progetto, ma soprattutto per aver messo a disposizione dello stesso la sua consolidata esperienza, garantendo per il libro una qualità ed eleganza che non avrei potuto desiderare migliori.

I racconti sono usciti all’interno di una collana che ha recentemente iniziato le pubblicazioni per la Casa Editrice Vecchiarelli. La collana si chiama “Da lontano. Studi e testi” ed è diretta dal Prof. Simone Dubrovic, docente di Lingua e Letteratura Italiana presso il Kenyon College (Ohio, Stati Uniti). Con Simone ho la fortuna di condividere un’amicizia nata ai tempi del liceo, quando di certo non avremmo mai pensato di finire ai capi opposti del nostro mondo. Al di là di questa pubblicazione, che lui ha seguito con scrupolo e dedizione impagabili, non posso non ricordare come questa amicizia abbia giocato un ruolo essenziale nel farmi intraprendere ed amare la strada che ho poi scelto di seguire. Anche per questi motivi tenevo particolarmente a che il libro si aprisse con un suo scritto. “La solitudine del fiore di carta” è il titolo della breve e illuminante prefazione in cui credo abbia colto tutta l’essenza dei racconti.

Utagawa_Toyoharu_-_A_Winter_Party_-_Google_Art_Project (1)
E vorrei cogliere l’occasione per un suggerimento di lettura. Simone Dubrovic ha infatti recentemente esordito come autore con i suoi “Frammenti americani” (Raffaelli Editore, 2012), un libro che amo molto e che mi sento di consigliare a tutti coloro che desiderino apprezzare una prosa di rara raffinatezza ed eleganza.

La prima traduzione di Schiena contro schiena risale a dieci anni fa, quando la presentai all’interno della tesi di laurea con il titolo provvisorio di “Gare d’altezza”. In quel periodo, a seguirmi con osservazioni precise e consigli di grande intelligenza è stata la mia insegnante di lingua giapponese, Prof.ssa Ayami Moriizumi: il suo sostegno è stato per me fondamentale, soprattutto nei momenti in cui le difficoltà incontrate nel corso della traduzione mi facevano dubitare di essermi messo in un’impresa troppo grande per la mia preparazione di allora. Dopo il mio arrivo in Giappone ho preso nuovamente in mano il testo per intero, ricontrollandolo insieme al Prof. Hideyuki Doi, che insegna attualmente all’Università Ritsumeikan di Kyoto. Con lui ho il piacere di collaborare già da qualche anno e gli sarò sempre estremamente grato per la grande pazienza con cui mi ha aiutato a perfezionare la prima stesura.

ichiyo_higuchi-2014Kazuhiro Takata e Kai Asahina sono due miei colleghi sia all’Università che sul lavoro. Sono ormai diversi anni che siamo amici e collaboriamo anche nel campo dell’insegnamento dell’italiano. La possibilità di stabilire un rapporto di collaborazione con persone come loro è stata senz’altro una delle circostanze che mi hanno convinto a vivere in Giappone. Devo al loro aiuto e alla loro amicizia la revisione di Acque torbide, che se, anche per motivi di lunghezza, non mi ha impegnato tanto come il primo racconto, presentava anch’esso notevoli difficoltà interpretative, per le quali i consigli di Kazuhiro e Kai sono stati indispensabili.

In definitiva, per la mia personale esperienza, è stato essenziale poter incontrare e lavorare con persone che nutrono passione ed amore per la letteratura, sicuramente, ma anche per la lingua e la cultura italiane. Senza aver scoperto con loro una affinità che va ben oltre il semplice lavoro in comune, non avrei portato a termine questo libro.