#DiarioDalGiappone n. 10

Sento come una febbre, da quasi un mese e mezzo.

Mi coglie d’un tratto, sparisce, un giorno di tregua poi torna.
Forse è semplicemente un’influenza che non passa, forse un male del cuore che il corpo rappresenta, che gli dà forma.
Aspettiamo tre settimane, poi potrebbe (potrebbe!) esser finita suggerisce il governo.

Intanto procede tutto il discorso delle lezioni online. La precisione giapponese si applica a tutto, rassicura e, insieme, ti domanda se sarai in grado di sostenerla. Fare lezione dal vivo mi è sempre piaciuto un casino, io, italiana chiacchierona, molto fisica anche, che andavo ad affrontare con gioia giovanissimi uomini e donne che di quel diverso approccio alla lingua, al corpo, più in generale alla vita, godevano molto.
Me lo hanno sempre scritto a fine anno, che gli suggerivo un modo diverso di vedere le cose, che si divertivano un sacco.

Indosso l’abito comprato a NY nel 2006, strappato in uno dei miei interminabili viaggi in bicicletta da casa a Kichijoji all’università, a TUFS 東京外国語大学, quando ascoltavo audiolibri e macinavo chilometri e ore tra andata e ritorno.

Me lo ha riparato mia suocera Yoko, seguendo un gusto tutto suo, che forse dal mio si distanzia. Cerco di farlo aderire tuttavia anche al mio, che piuttosto che non indossarlo è meglio così. E la riconoscenza è la cosa che, in generale, mi muove di più.

E penso che dalla Grande Mela (che scopro da un amico scrittore non essere chiamata quasi mai così dai newyorkesi) alla melagrana (Tokyo, per me) il salto fu grande, eppure quasi inavvertito. Fu il mio primo viaggio da sola. Partivo ferita, un po’ disperata. La relazione che credevo (erroneamente) fosse la più importante della mia vita, era appena finita. Non “appena”, perché c’erano già mesi di mezzo, ma mi bruciava talmente comunque da crederla “appena”. Appena conclusa.

E d’improvviso New York, d’improvviso quelle strade tutte dritte che non c’entravano nulla con Roma e neppure nulla con Tokyo – che per me rimaneva ancora un labirinto, un mistero. E ricordo comprai in un negozietto di Soho vestiti che indosso ancora ora, abiti che hanno segnato momenti tra i più importanti della mia vita.

Uno a strisce bianche e nere, in particolare, con cui – sentendomi carina (cosa che, lo ammetto, mi è sempre capitato di avvertire abbastanza di rado) – sentii leggerezza sufficiente da rivolgere la parola, nell’ascensore dell’IIC di Tokyo, a un ragazzo che mi pareva di sapere, di aver conosciuto altrove. Era Ryosuke, con cui avevo condiviso un corso di letteratura all’università 国際基督教大学. Grazie a quel vestito oggi sono con lui.

Fu lo stesso vestito con cui feci una delle ultime visite all’ospedale Musashino-sekijuji 武蔵野赤十字病院 dove nacque Sosuke. Lo stesso abito con cui dopo una settimana, con il bambino in braccio, venni dimessa. In questo scatto, per la precisione.

Vai a vedere quanto conta un vestito.

#DiarioDalGiappone n.9

È la chiusura che colpisce la vista.

È come una porta chiusa in faccia, proprio nel momento in cui ci si avvicina, e l’altro si affretta, magari con una parola giustificata, ma in fondo quel che racconta, quello che il corpo ricorda, è che quella porta ti viene chiusa davanti. Che ti interdice il passaggio, che ti rifiuta.

È qualcosa che mi capita da sempre, di fare attenzione a chiudere il portone con gentilezza, a guardare con occhio furtivo che nessuno sia in zona e possa interpretare il mio gesto come un rigetto della sua persona. Forse perché è la sensazione che, in modo del tutto irrazionale, colpisce anche me.

Ed ecco che ogni porta ora è chiusa, ogni negozio, ogni caffè dove ho scritto a lungo, per anni, perché le storie in me nascono nel caos della vita che si dipana a mia insaputa.

E lo so che non c’entra con me, non sono così egocentrica da pensarlo. Che è per il coronavirus, che è per senso di responsabilità. Che sono solo tre settimane e poi si vedrà. Eppure ognuno di quei luoghi che frequento abitualmente sono come bocche serrate, narici che non tirano su nulla, occhi che si abbassano al mio passaggio.

L’unica cosa che mi fa sperare sono i disegni concentrici del legno, come sassi precipitati sulla superficie di minuscoli laghi, tutti ammassati gli uni accanto agli altri, e soprattutto quelle spaccature che mostrano il cielo al di là del portone, subito sopra alla scritta che recita 「本日定休日」 “Giorno di chiusura”.

Del resto un proverbio giapponese recita così:

「人生にぽっかり開いた穴から これまで見えなかったものが見えてくる」
Dagli squarci che si aprono nella vita si riescono a vedere cose fino ad allora nascoste.

#DiarioDalGiappone n. 8

“Non indietreggiare. È questo il punto debole su cui devi ancora lavorare”

Mishima Yukio

Se c’è una cosa che non devi mettere sotto i piedi, è la bellezza.

Il cibo non si calpesta, il giocattolo non si calcia, il pavimento non si bacia.
Tutto pare sezionato tra l’alto e il basso nella nostra cultura, eppure c’è un momento dell’anno in cui in Giappone la terra è la cosa più bella del mondo e la bellezza la si calpesta.

Capita quando piove tutto quanto può piovere a terra. I petali dei ciliegi cadono a mucchi e da bianchi che apparivano, tutti insieme sono rosa intenso e poi anche i peduncoli, rosa più intenso.
E allora una strada banale diventa non in cielo ma a terra rosa.
Eppure i giapponesi sono solerti nello spazzare via tutto. Nulla si risparmia in nome della pulizia. Eppure adesso, la gente non c’è. La fretta forse non la si è sentita.

E allora la meraviglia, stamane,sul viale di Wakamiya-ōji, verso il santuario Tsurugaoka Hachiman-gū. Era vuota di gente come non mi capitava neppure quando mi svegliavo alle 4 di mattina, col ventre pesante del secondo bimbo, e camminavo prima che arrivasse il caldo dei giorni d’estate.

Il viale era rosa intenso: a terra, un lungo tappeto non rosso ma rosa. Niente macchinetta, solo lo scatto dell’ebook.

Ma che incredibile meraviglia. Domani ritorno.

 

#DiarioDalGiappone n. 7

La Pasqua non c’è in Giappone, non c’è mai stata.
Nel Sol Levante nessuno risorge in questo giorno d’aprile. Per chi crede probabilmente il rito di tutti ha poca rilevanza, è un rito interno, una festa del cuore.

Per me che non credo è tuttavia una giornata in cui tanti che amo hanno la festa nel cuore. Mi ricorda colombe, uova, pranzi in cui talvolta c’era gioia, talvolta la costrizione di condividersi insieme. Ma, tutto riassumendo, è ricordo. E ricordo, per me, significa amore, al di là del colore di quella memoria particolare.

In Giappone la Pasqua non c’è. Ci sono un mucchio d’altre feste che l’occidente non conosce, che neppure sospetta d’altronde.

E’ bello tuttavia sentire che negli amici in Italia, nelle persone care, ci sia come una consapevolezza del giorno, a fronte di un mucchio di date sempre uguali.

Io ho ricevuto una lettera di carta dall’Italia, da un amico importante. Ho ricevuto una lettera email da mio padre.
Mi è stata recapitata dal postino la corda per saltare. Avevo voglia di tornare bambina. Di cadere, di inciampare. Di capire un poco più i miei due piccolini che non fanno che volare a terra, poi rialzarsi, piangere un poco, riprendere subito a saltare, a cadere.

Ho chiesto a Ryosuke di prendermi in braccio, dallo scalino della doccia fino a terra. Per provare, in un modo diverso, come si fa a volare.

#DiarioDalGiappone n. 6

Mi trovo in questi giorni a postare tante foto di me, di Ryosuke, della mia vita pratica, come mai mi era accaduto prima. Credo sia il bisogno di registrare il tempo che passa.

Mai, come in questo momento, avverto la contingenza. L’età che avanza. Che è anche saggezza, per carità, ma anche un mucchio di cose che non torneranno, di cui una parte se la ingoia l’emergenza, il ritmo instabile della vita in questo stranissimo tempo.

Mangio con una insolita consapevolezza, un mochi lo mordo avvertendo i denti smaciullare l’involucro di riso pestato, sulla lingua la polpa.
Accarezzo la tastiera, lì dove una volta la usavo e basta. Mi soffermo sui colori delle cose, gli attribuisco nomi che non mi interessavano neppure.
E poi ragiono affannosamento sui fondamentali, sull’amore, su come si coniughi al sesso, su come se ne estragga un equilibrio, ai sentimenti che si trasmettono ai figli, ai rimproveri che rischiano di romperli o, perlomeno ferirli, a cosa sia la famiglia, a come riprendere fiato dopo una corsa.

Apro libri a casaccio dalla libreria, cerco soluzioni, non con un intento, eppure trovo in qualunque tipo di saggi, uno sull’estetica moderna giapponese, come un altro sulla fisica dei materiali, le stesse domande, le stesse risposte: Come stai? Come reagirai? Ce la farai?

Mi accorgo che questa emergenza che è lunga, ed è come un’apnea in cui ci viene chiesto di attendere 10 secondi, poi altri due, poi un altro ancora, e in cui è proprio l’ultimo, il solo, il più breve persino, a risultare più faticoso, ecco questa quarantena – effettiva, completa, parziale, mentale – scava nel pensiero. Ci si sente talvolta come una mosca nel bicchiere.

E allora cerco soluzioni nei libri, scatto fotografie, per guardarmi negli occhi, per dimostrarmi che le cose importanti restano ferme, anche se tutto il resto ondeggia.

E no, non cerco conforto. Mi darebbero temo persino fastidio. Forse la parte più bella di tutto questo pastrocchio è proprio il fatto di poter ragione, di poter estrarre da questa situazione un pensiero. Un conoscersi meglio.