「一日一生」 Un giorno, una vita
Come scorrono veloci certi mesi.
Sono stanca, sono così stanca che più che rallentare viene voglia di fermarmi. Di buttare giù saracinesche, di tirare le tende e annunciare a tutti una vacanza anticipata, lungamente attesa e di molto, oltre il termine deciso, prolungata.
Ingrasso un po’, in modo quasi ridicolo. Un terzo di quanto accadrebbe se non fossi scortata dal timore di non riuscire poi a lavorare con la stessa solerzia, con la stessa levità. Mi sveglio alle cinque, rincorro i treni in partenza, non salgo quasi più le scale ma scelgo scale mobili e ascensori. Perchè l’ottimizzazione è alleata del tempo, migliore amica di progetti che si gonfiano di settimana in settimana e hanno scadenze belle ma così tanto impegnative.
Tutto arriverà, tutto a te arriverà, mi sussurro quando mi aggredisce la paura di non riuscire. Di perdermi per strada le cose più importanti.
Sottovalutarsi è un crimine.
Sopravvalutarsi è un delitto.
In uno ci si impongono limiti a priori, nell’altro ci si costringe a tempi e modi accelerati. In entrambi i casi la misura è difettosa. E la vita è fatta di misure, di volumi e di lunghezze, e fare in modo da aderire a ciò ci circonda, di far combaciare se stessi a ciò che sono gli spazi nella nostra vita, fermare il calco del corpo nel letto, è essenziale per star bene.
「一日一生」/ichinichi isshō/ “Un giorno, un vita”.
Ogni giorno è una vita che s’inaugura, mette in movimento attese e aspettative, poi sfugge lievitando di parole, di rimandi al giorno dopo, alla vita che inizierà domani, a un altro giorno. Un’altra vita.
Ultimamente rimando, invio benessere ed impegni al giorno dopo, a un giorno che non è oggi. Perchè la stanchezza s’accumula come polvere sui libri, su tutte queste creature alate che tengono compagnia ai pochi altri oggetti che abitano la casa di Ryosuke e mia.
Ma ci si riesce poi davvero a capirlo quanto il tempo non solo possa ma debba esser dilatato per evitare di arrivare alla fine di una vita e avvertire in quello che si è fatto e sentito il tempo unico d’un giorno, delle ventiquattro ore che il sonno rosicchia, l’insofferenza guasta, che proprio l’inquietudine e la paura che quel tempo non basti sciupano?
Un sistema forse è sezionarlo, farne non un pranzo luculliano ma dividerlo in mezze porzioni, serbarne alcune da chiudere in un contenitore e conservare in frigo. Rendersi consapevoli di un’ora che passa, del piacere che si ricava dal varcare una porta, dall’annunciare il ritorno a casa ai propri affetti, dall’affettare una zucchina e sedersi a tavola per gustare una cena in solitudine oppure in compagnia.
Ogni giorno la fatica, ogni giorno la bellezza della vita.
Al di là di quel che si è riusciti a fare, di quel che si doveva fare, di quel che si sarebbe voluto fare.
Un imperativo per sè, per non dimenticarsi. Per non perdersi nel vortice del devo e del dovrei.