Da questa semplice constatazione è iniziata la scrittura del romanzo.
Ho studiato le parole del vento, poi ho letto brani della Bibbia e del Talhmud. Ho riletto il Kojiki. Le fiabe di Andersen. E sono tornata al vento, all’abrasione delle cortecce, al galletto segnavento.
Avevo sempre davanti agli occhi l’immagine del meraviglioso giardino di Bell Gardia, a Iwate, ai piedi di Kujira-yama, la Montagna della Balena. Ne avevo visto scorci in fotografia, avevo letto avidamente i libri di Sasaki-san, il giardiniere e guardiano di quel luogo speciale. Sarei andata, di persona, mesi dopo. L’avrei trovato esattamente così.

Nulla di quanto facciamo sposta la storia del mondo, tutto lo fa.

Così una cabina adagiata sul palmo scosceso di un giardino privato, un telefono non collegato posato dentro che trasporta le voci nel vento, un taccuino su cui scrivere i propri pensieri, un piccolo calendario che recita la data di quel giorno preciso… ecco, tutti questi elementi apparentemente insignificanti, avevano in sé una buona porzione di magia: erano in grado di spostare la storia del mondo. Dal di qua traghettavano l’emozione, il pensiero di là, riuscivano ad aiutare decine di migliaia di persone a elaborare una perdita, a fare un altro pezzo di strada nell’elaborazione di un lutto.
Grazie a un esercizio di immaginazione – di presenza nell’assenza, di dialogo a distanza – le persone, in quell’angolo sperdutissimo di Giappone, si salvavano la vita.
Si salvano tuttora la vita.

È nata prima Yui, poi la sua bambina, poi la madre di lei. In seguito è nato Takeshi, l’incontro tra loro, sulla via verso Bell Gardia.
Ricordo che in quei giorni leggevo un albo illustrato al mio bimbo “grande”, Claudio Sōsuke, di 3 anni. Parlava dei vari mondi che l’uomo, nelle diverse culture, ha concepito come aldilà. Era un libro pieno di colori e lui lo amava così, alzando le finestrelle e scoprendo animali a reggere globi, mondi schiacciati come focacce.

E poi insieme, accompagnandolo la mattina all’asilo, lo guardavo indicare insetti già morti, e lui che mi domandava «Dormono, mamma?». Della morte non aveva consapevolezza. Era una parola che lo fermava, ma neppure lui sapeva il perché.
Da lì, da quella percezione remota della morte che è vissuta come pura mancanza, è nata la piccola Hana, figlia di Takeshi. Zitta, lei, perché il lutto le ha tolto letteralmente le parole di bocca.
Volevo confezionare per ognuno di loro un futuro solido. Una felicità. A dispetto di tutto il passato che gli premeva alle spalle.
In punto croce.
Un passo indietro e uno in avanti.
Una tornata di filo in andata e una di ritorno.
Dritto e rovescio.
Un ritmo così.

Il resto del lavoro su Quel che affidiamo al vento è scorso velocissimo, come una cascata di parole, nell’arco di sei settimane, in cui scrivevo ininterrottamente dalla mattina al pomeriggio, quando andavo a riprendere i bimbi. Se si ammalavano, se ne occupavano i miei suoceri, così che io potessi andare al caffè a scrivere. Era come un’ubriacatura, un innamoramento. Non riuscivo a mettere in mezzo ventiquattro ore di pausa.
La sera mandavo il testo via via alle mie migliori amiche, che avevano parole di lode e alcune perplessità. E io ragionavo sui loro commenti. E il giorno dopo riprendevo, cancellavo, riscrivevo da capo.

L’idea degli intermezzi mi è venuta camminando davanti alla stazione di Kamakura. Ho scritto un messaggio alla mia amata agente. Lei era scettica. Poi si è ricreduta. Ricordavo il libro di Foenkinos, La delicatezza. Mi era parso geniale, anche se l’uso di quegli stacchi era molto diverso, più irregolare.
Il patetico, quel poco che era rimasto e non ero riuscita ad asciugare nelle riletture, spariva, assorbito dalla vita diritta, quella normale, quella che c’è comunque, al di là della percezione in prima persona del lutto.

Ho pianto scrivendo questo libro, ma in proporzione ho sorriso più volte di tenerezza.
Perché abbiamo tutti dentro di noi il seme della morte, ed accettare che quella pianta cresca parallelamente a quella che ci porta alla vita, è importante.

Nulla di quanto facciamo sposta la storia del mondo, tutto lo fa.

Ecco, scrivendo Quel che affidiamo al vento, ho sperato di riuscire a comunicare la capacità che l’uomo spesso si nega – eppure possiede – di ricominciare. Di ricominciare ogni volta. Perché ogni singola azione che fa è potenzialmente capace di cambiare la storia del mondo.
Del proprio mondo e del mondo di altri.