「親」o del salire in cima all’albero e guardare
S’appisola la mattina, sonnecchia il pomeriggio, sogna nella sera, affonda nel buio la notte.
È un lungo serpentone di fisicità questo bambino. Si sveglia nel sorriso, saluta il giorno parlottando, coniuga alla danza la mattina, agitando febbrilmente tutto il corpo. Ascolta la musica con il suo papà, si fa prendere in braccio studiando gli spazi della casa. Lunghe goduriose pause del mangiare, poi di nuovo solo noi sul lettone.
Mi sdraio accanto a lui e leggiamo libri illustrati puntati in aria, verso il soffitto, dove si stagliano pagine di cui guarda attento, contro ed oltre ogni aspettativa, le figure, legandosi forse ai colori, forse alla voce della madre che recita nella lingua in cui è nata. Circondato da discorsi in italiano, in giapponese, in italianese e giapponiano, s’accuccia nel suo ruolo certo di bambino, autentico, sincero in ogni gesto che fa, naturalmente.
Ha lunghissime ciglia questo bimbo, labbra disegnate, occhi luminosi, in cui oriente ed occidente si tengono per mano, e guance piene, pienissime in cui affondare i polpastrelli. È allegro, coccoloso ed è una gioia stargli accanto.
Si brinda di tè nero per i tre mesi guadagnati. S’apre il recinto del lettino e guadagna lo spazio del lettone. Passeggiate nel quartiere, dove son solo casette, ampi giardini, campi coltivati e un lungo fiume.
S’allenta il ritmo delle giornate, s’allunga il tempo del dormire.
Ripenso talvolta alle parole dell’ostetrica che venne a casa per la visita del secondo mese, quando ancora piangeva tanto e forte, quando mangiava ad ogni ora e noi ci sentivamo impotenti, a volte inadeguati.
Era l’apprensione involontaria di noi due, genitori senza armi, nè prime nè seconde, incerti su cosa fosse più giusto fare, su come gestire il mai gestito. Su come anticipare il pianto ed evitargli sofferenza.
“Ma il pianto fa bene, il sangue circola ed esercita i polmoni. Un bambino che piange è un bambino che sta bene. È il suo modo di parlare, di comunicarsi” ci disse allegra.
Una donna piccola e scattante, con parole pronte in bocca, una di quelle persone che abitano i luoghi sconosciuti con una invidiabile disinvoltura, come fossero uguali (e probabilmente lo sono) a tanti altri visitati in precedenza.
“Il ruolo del genitore non è quello di anticipare, ma quello di osservare non visto e intervenire solo quando serve veramente” riprese.
Poi, come ho visto fare innumerevoli volte ai giapponesi in questi anni, aprì il palmo come una tavoletta, l’indice a pennello, il polpastrello intinto in aria e poi strusciato sulla carne della mano, disegnò un kanji.
「親」 /oya/, il genitore
“Oya è colui che sale sull’albero e guarda da lontano” disse. “Questo kanji dice tutto, non trovate?”
In alto a sinistra c’è 「立つ」 /tatsu/ stare in piedi, alzarsi, sotto c’è 「木」 /ki/ l’albero e a destra c’è 「見る」 /miru/ vedere, guardare.
「木の上に立って見る」/ki no ue ni tatte miru/
La spiegazione di cosa sia un genitore è già nella parola. È colui che deve intervenire solo quando serve veramente, quando si tratta di “salvare”. Per non sostituirsi mai al proprio figlio, per non sostituirsi al corso degli eventi. Non evitare, non eliminare! Ti deve essere concesso d’interrompere solo quando serve veramente, di controllare quando è necessario ed utile davvero.
Così il pianto va accolto, la sofferenza tollerata.
E per quanto complicato sia accettare d’esser marginali, deve consolare il pensiero di quanto grande sia piuttosto il rischio di farsi protagonisti di una vita altrui, di non insegnare l’indipendenza ma la dipendenza.
Insegnare anche, passo a passo, a farcela da soli. È la gestione di se stessi. Sapere che quando si ha bisogno, quando si è in difficoltà, quel qualcuno di sicuro arriverà, salverà e lo farà con decisione.
Certo, per il momento Sou-chan è troppo piccino perchè la nostra presenza si faccia innecessaria, ma so che questo insegnamento dovrò tenerlo a mente, che sarà prezioso in ogni fase della sua crescita, quando dovrò guardarlo sbagliare, dovrò obbligarmi a non intervenire, a dargli solo la certezza della consolazione e della piena (ragionata) approvazione, lasciargli spazio per tentare e infondergli il coraggio di provare.
Lontana da quella accademica, questa di oya rientra nell’interpretazione popolare dei kanji. Ed io che credo fermamente che i kanji siano cosa viva, che le parole si debbano lasciar maneggiare e non preservare sotto teche di vetro – al solo triste scopo d’essere guardate, per riflettere sbadigli o, più spesso, essere ignorate – mi innamoro una volta di più della lingua giapponese.
Onorare qualcosa che si ama è restituirle la capacità di comunicarsi, di parlare, in ogni momento.
Ma questo insegnamento, la spiegazione di un kanji basilare come oya s’applica anche altrove.
Perchè questo è un genitore ma questo significa anche essere se stessi. Che un ruolo non assorbe tutto quanto. E vale in amicizia, e vale sul lavoro.
Vale anche per sè, per mettere a bada la propria ansia di controllo, l’aspirazione zoppa d’essere sempre esatti, d’aver capacità di previsione, di conoscersi così tanto da rendersi prevedibili, incapaci di uscire dal selciato, dal percorso cementato.
Perchè a volte la cosa migliore, prima ancora di agire, di decidere, di troncarsi o condannarsi, è salire su un albero e, da lontano, per camuffare la nostra presenza (anche a noi stessi), restare a guardare cosa accade.