RECENSIONI E INTERVISTE

 

RECENSIONI

 

INTERVISTE

「見えなくなること」 o delle cose che non vediamo più

“Ecco come sono le parole, nascondono molto, si uniscono pian piano fra di loro, sembra non sappiano dove vogliono andare, e all’improvviso, […] ecco lì che ci ritroviamo la commozione che sale irresistibilmente alla superficie della pelle e degli occhi, che incrina la compostezza dei sentimenti” 

José Saramago, Cecità

 

Non ricordo quanti anni avevo, abbastanza comunque da non far correre via la memoria. Dovevo essere però alle elementari, perché nella mia mano c’erano strette le dita nervose di mamma.

Eravamo a Piazza Bologna, dirette o forse di ritorno da quella che un tempo era la SMA, c’era anche mia sorella. Amavo infilare la moneta da 500 lire nel tondo del carrello, liberare la catenella, osservare alla cassa il nastro che scorreva sempre troppo veloce e cercare di accordarmi a quel movimento; e poi i ripiani rimpinzati di tinte squillanti, desideri mai esauditi di cioccolate, pacchi sgargianti di gelati confezionati, merendine che mia madre, tuttavia, non ci comprava.

Preparava invece ciambelloni al limone, al cioccolato, alla vaniglia, che sono tutto il ricordo delle mie colazioni di bambina, torte che non avevano un buco in mezzo e che quindi, mi chiedo in ritardo di un ventennio, perché mai si chiamavano così? Ma la vita, quando la si vive, la si accetta così. Proprio com’è.

Ebbene, c’era un barbone steso su un lembo di strada, obliquo come su un triclinio oppure seduto, su una rientranza del muro che cingeva una banca. Mi pare, soltanto, perché lì l’immagine si fa nebulosa.

  Ricordo tuttavia con una nettezza incredibilmente precisa – proprio io che non archivio nulla per paura di rimestare certe zone d’ombra dell’infanzia – la pena che provai per quell’uomo e la vergogna, sì la vergogna, nel chiedere a mia mamma di porgergli una moneta.

I due sentimenti, nella frizione, produssero una menzogna.

Feci un commento goffo, sulla pavimentazione, pronunciai qualcosa di sciocco per dissimulare la commozione e insieme per guidare l’attenzione di mia mamma sull’uomo, in quel modo intuitivo che da una soglia conduce a un ingresso e poi al ventre di una casa.

Mia madre però, che sciocca non era, forse si stizzì della bugia e, in quel modo troppo diretto che ho ereditato da lei, quel voler dimostrare all’altro di avere capito, quasi che tutti si attendessero da me solo stupidità, mi disse: “Basta che lo dici che vuoi fare l’elemosina. Ti do una moneta? Dai, vagliela a dare”

Sopraffatta dalla vergogna, scoperta, sbucciata della mia scorza che proprio in quegli anni si andava inspessendo, negai. La moneta non la raccolsi, né la ricollocai nel piattino esibito dall’uomo. E so che non fu per ingenerosità che mia madre non fece il gesto per prima: ha speso una vita nel volontariato, nella carità “seria”, che sistema le gambe di chi è caduto anziché metterlo su un solo momento, godersi la gratitudine, ma vederlo ricadere giù, subito dopo.

Il punto è un altro però. È che abituiamo i bambini alla cecità, scrive Mariapia Veladiano, a questa condizione che è indotta, e ci porta a deviare lo sguardo «tanto non puoi fare niente, sii prudente, potrebbe essere un imbroglio, magari un falso povero…» (Rigotti F. e Mariapia Veladiano, Venire al mondo, Trento, il Margine, 2015, p. 49).

Eppure in ognuno permane una traccia di quanto eravamo, un calco di gesti primordiali dovuti, io credo, alla tenerezza che ricevemmo e che assorbimmo come acqua le piante. Quanto non ci è stato donato, non saremo purtroppo in grado di suggerirlo, così come è necessario sperimentare la tenerezza per non percepirla come un rischio, ricordarne la serica sensazione sulla pelle, il corpo che ci sostiene e abbraccia nonostante ogni fastidio.

Se amiamo, se ne siamo in grado, è perché qualcuno ci ha amato e ce lo ha fatto sapere. Ci ha convinto ne fossimo degni, che quell’amore, spaesato, magari improduttivo, persino nocivo, ci appartenesse di diritto.

 Così con la compassione, che sono convinta germogli nell’animo di chi ha patito e ricevuto in cambio non una strigliata, bensì una carezza.

La cecità, dicevamo. È vero che con i bambini creiamo deviazioni, io stessa già le metto in atto con Sousuke. Quando gli dico ad esempio degli animali – privati, come scriveva Berger, della loro vera natura, per essere trasfigurati da noi e diventare interlocutori antropomorfizzati cui tuttavia sappiamo soltanto parlar sopra – ecco che svio, sorvolo sul fatto che al gallo chicchirichì mozziamo la testa, che il maiale sgrunf sgrunf lo appendiamo a un gancio, che il vitello o l’agnello li sgozziamo quando altro non sono che bebè. E non è solo una questione di animali, ma di fette di popolazione cui dedichiamo una sterilizzata pietà e niente di più, sono alberi che vengono tagliati per far spazio a un parcheggio, di cose fabbricate e vendute solo perché durino poco e le si possa presto sostituire.

È lui che proteggo dalla verità? È lui veramente? Oppure è il mondo iniquo che ci circonda e di cui anch’io sorreggo complice una colonna?

Risetto, riformulo. No, non è colpa mia. Mi giustifico. In fondo faccio del mio meglio, cerco perlomeno d’essere sincera. Ma la sincerità è qualcosa che basta?

Di tutto questo grumo emotivo che nasce dalla cecità imposta ai bambini, del ricordo del barbone cui volevo donare una moneta, riflessioni nate sul treno, mentre la mattina mi dirigo all’università per vedere con i ragazzi un film, e al ritorno, ritardato da un suicidio sulla linea, mi restano essenzialmente due cose.

Una è il pensiero che da almeno venticinque anni non tengo per mano mia mamma, che lei non tiene la mia. Che l’unica volta che accadde in età adulta, sulla via sterrata che conduceva al recinto del tempio di Kamakura Hachimangu, chiusa in un faticoso e lindo kimono, lì dove mi sarei unita in matrimonio a Ryosuke, e lì dove il passo si faceva esitante crocchiando sui ciottoli bianchi con i geta ai piedi, la ricordo con commozione. Uno dei ricordi più dolci che di mia madre conserverò.

E la seconda, per cui se è vero come scriveva Hannah Arendt (e nelle sue parole Sant’Agostino) che «con la nascita di ogni uomo si riafferma l’inizio originario, in quanto ogni nascita introduce qualcosa di nuovo in un mondo preesistente (e) proprio in quanto è un inizio, l’uomo può dare inizio a cose nuove» (ibid. p. 28), se davvero insomma ogni uomo o donna che nasce rimette in discussione tutto il percorso, azzera in parte quanto è stato costruito fino ad allora, e che quindi le occasioni che ci sono date dalla vita sono almeno due – quando si è guidati da un genitore, e quando genitore lo si diventa, e a propria volta si sceglie come guidare – allora la domanda da porsi è ora all’inverso:

«Mi salveranno i miei figli dalla cecità?»

♪  Sigrid, Strangers

Battezzare le cose

“L’uomo incomincia ad amare il giorno dopo aver detto ‘amo’.”

Vicktor Sklowskj

 

I bambini dell’età di Sousuke talvolta ti chiamano e poi non ti dicono nulla. Solo chiamarti li rallegra, sapere che ci sei, che rispondi al contatto. Che sempre, se ‘sempre’ è qualcosa che esiste, ci sarai.

«Mamma», sospende Sousuke.

Non vuole nulla, tranne quel sì di risposta. Sei qui, sei presente in questo mio piccolo mondo nuovo? Ci sono, ci sono, mi vedi? Ti vedo, sono felice che sei qui.

«Mama

«Dimmi ciccino!»

Ride poi si volta, pare in quella movenza cancellare con la gomma quel che era e stava per dire. Interrompe, solo per poter all’infinito ricominciare.

«Mamma?»

«Sì, Souchan, cosa c’è?»

Il linguaggio è ancora una scoperta. I bimbi assaporano letteralmente le parole, il gusto di emettere quel suono, la soddisfazione nel notare l’effetto di realtà che producono su un mondo che, fino ad allora, era stato tutto un ricevere e meno un dare, perlomeno non nella medesima forma.

Come accade a tutti i bilingui, anche Sousuke mescola le lingue, non avverte confine tra un linguaggio e un altro. Inizia tuttavia a capire che è con me che certe parole hanno effetto, che a volte – quando fingo giocando di non capire – a me sono altre le parole da dire.

Come scrive Sklowskj, che ho citato in esergo, si inizia ad amare dopo aver usato la parola ‘amo’.

Ho sempre creduto che a questo servano i libri, la conoscenza che conservano dentro, a dare un nome alle cose. Battezzarle in fondo significa questo, vederle per la prima volta, rendersi conto della loro esistenza. Una vita che, riconosciuta, si fa di un tratto popolata di cose, sentimenti che si declinano – una volta imparati nel generale – nel singolare di ognuno di noi. Cosa è il dolore in generale, cosa è il mio, cosa il mio in questo preciso momento. Cosa è la speranza, cosa la mia, cosa la speranza in questa determinata situazione.

Tuttavia in ogni lingua accade. Che certi spazi del mondo restino al buio, e che un’altra cultura li sappia invece mettere in luce. Esistono termini che riassumono ruoli e, in questa operazione, divaricano il loro senso.

Vedi la parola “nipote”, che in giapponese distingue il figlio di un fratello o di una sorella, differenziando il maschile dal femminile con un termine a testa, da quello che indica invece un diverso grado di parentela, il figlio o la figlia dei propri figli, nel punto di vista quindi dei nonni. Ma è pur vero che il nostro “nipote” ha sfumature belle di significato pur nell’unicità morfologica della parola: “nipote” diventa luogo affettivo abitato anche da bambini o ragazzi che ci sono idealmente parenti, in una scelta del cuore, benché nella pratica del sangue non lo siano. Io, per dire, sono e mi sento profondamente “nipote” di zia Antonietta, una delle amiche più care di mia madre.

Poi esistono parole che nella traduzione perdono di senso, che risultano innecessarie, gratuite. Come il nostro bel “invece”, che i giapponesi comprendono pure, ma non avvertono il benchè minimo bisogno di usare.

E formule poi come 「よろしくお願いします」/yoroshiku onegaishimasu/ che raccolgono la benevolenza dell’altro, stringono una relazione nel saluto, accomiatano formalmente, promettono un successivo contatto eccetera eccetera, oppure 「ごちそうさまでした」/gochisōsama deshita/ per cui si ringrazia del pasto ricevuto, sia che sia stato semplicemente buono, sia che qualcuno ce lo abbia offerto a casa sua o semplicemente pagato, o che, anche se non lo abbiamo particolarmente gradito, comunque funge da formula di saluto all’uscita da un ristorante.

E ancora il quadrato a doppia freccia composto dalle formule di saluto che in giapponese si spendono doppie – nell’enunciazione e nella risposta – quando si esce di casa o da un luogo cui si farà ritorno in un secondo momento, e nell’incontro che scioglie la separazione e riporta chi si era allontanato al luogo di partenza:
Ci ho sempre avvertito una porzione d’amore in questo scambio. La familiarità che cresce come una torta nel forno, lievitando tante più volte quei saluti ce li si scambia, a turno, praticando una sorta di gioco di carte.

⇒ いってきます~ /ittekimasu/ traducibile con un “Esco/Vado”
☞ いってらっしゃい~ /itterasshai/ quasi un “Buona giornata”, tendenzialmente un “buon qualunque cosa farai”
↺ ただいま~  /tadaima/ “Eccomi, sono tornato/Ciao, sono a casa”
☚ お帰り~  /okaerinasai/ “Bentornato”

Poi ecco un’altra parola di estrema bellezza come 「木漏れ日」 komorebi, che sta ad indicare la luce filtrata dalle ramaglie e dal fogliame che cade dall’alto. E’ composta dai kanji di “albero”, dal verbo “filtrare, gocciolare” e da /hi/ che qui sta a indicare il sole. Le macchie su un sentiero, la luce irregolare e tremolante dopo un temporale, quella spezzata da un arcobaleno.

E un’altra infinità.

Quest’anno sarò a Libri Come, lo splendido festival del libro a Roma, che si tiene a metà marzo. L’argomento è la felicità e per me, che della gioia ho fatto l’argomento di tre anni di vita e di scrittura, di una gioia complessa ma intensa, spesso capitata per vie traverse, immeritata nell’immediato ma radicata in quello che è ogni persona, sarà un ritrovarmi nei temi che ho accarezzato tanto a lungo.

Spero proprio in tanti verrete a incontrarmi.

Quando mi hanno domandato la traduzione del titolo del nuovo romanzo, ho fatto fatica. Come esprimere quel sentimento di gioia che si prova profondo, ma di cui si ha paura, quasi potesse sfuggire nel dichiararlo con chiarezza, tanta è la fragilità:『語りえぬよろこび』

Non oso dire la gioia

 

La gioia, in giapponese, come è? Che cosa significa, in fondo, nel passaggio di cultura?

Leggo, rileggo libri sull’argomento, in giapponese, in inglese, in italiano, mi preparo a spiegarla come essa si delinea nel Giappone del mio quotidiano e nella cultura occidentale che mi porto incisa addosso.

Cosa significa essere felici per un giapponese? Cosa ne distingue la sostanza da quella di un italiano? Lo scarto, se c’è, dove è collocato?

Ecco allora che, oltre ogni confine creato artificialmente da una lingua, gioia sa essere qualcosa di universale.

È anche ripetere un nome che non è proprio, eppure indica una sola persona nell’immaginario di chi lo pronuncia. Come, appunto, 「ママ」/mama/. Mamma.

Sousuke lo dice e, in una folla infinita, solo io sarei a girarmi e a replicare:

«Dimmi ciccino, che c’è?»