#DiariodalGiappone n*5

Nuvole grigie, che si inspessiscono ogni ora che passa, coprono oggi Tokyo e il Kanagawa.
La pioggia è prevista nel serale, l’acqua ci visiterà tutta la giornata di domani.

Per domenica, come fu nove anni fa, all’indomani dello tsunami, attendiamo invece la #neve. Sì, proprio la neve. Sui ciliegi, sui ciliegi già in fiore.
Ricordo come quell’immagine divenne subito simbolo di #resilienza, della bellezza nonostante.

Sommovimenti stagionali che mescolano tutto ma che mi fanno anche ricordare che «le stagioni del mondo sono quattro, ma che l’antico calendario giapponese dice un’altra cosa, ovvero che le quattro stagioni si dividono in 24 periodi che, a loro volta, si separano ancora in tre parti, fino a creare 72 tempi diversi. Afferma, in sostanza, che ogni cinque giorni subentra una nuova stagione.»

Tutto rinasce, tutto continua.
Ogni giorno è il potenziale inizio di una nuova vita, di un nuovo modo di affrontarla.

Brutte giornate, sì, ma anche momenti struggenti che non ci rendono sempre il peso del giorno che c’è dietro le spalle.

In questa «produzione capitale di inizi» vi si percepisce la speranza che da domani, da oggi sarà tutto diverso.

Io, in questo preciso istante, vorrei

«Chissà quando potremo tornare al Telefono del Vento» dico a Ryosuke.
Lui annuisce: «Chissà…».
«Oggi quasi 800 morti»
«Oggi quasi 700»
Finirà. Tutto finisce.

Il telefono è quella cosa che collega due corpi distanti, due vicinissimi cuori. È il cellulare posato sul ventre di un malato in ospedale, perché senta vicini quelli che vicini non possono stare. Come testimoniano i racconti di medici e religiosi, pubblicati qui e là sui giornali in questi giorni.

Questa malattia maledetta che toglie il respiro, le parole, che toglie il saluto alle persone, anche l’ultimo, anche quello che è necessario per poter partire. La filosofia, scriveva Montaigne, è un costante prepararsi a morire. E non c’è bisogno di mettere in mezzo Kant, Nietzsche, Schopenhauer. Anche solo pensare, nel modo in cui lo fanno ogni giorno le persone, è quello, un amare, un graduale sparire.

Vorrei che fosse disponibile adesso, in questo stesso istante, un oggetto rassicurante come il Telefono del Vento nelle case di chi aspetta da casa un responso, una notizia di vita o di morte.

Vorrei rassicurare quelle persone, che la paura di morire ci sarà sempre, ma che l’amore è un vestito, che aderisce alla pelle, che ci veste anche quando siamo spogliati e non ci resta fisicamente niente. Chi è amato, in fondo lo sa.
E vorrei che il telefono di casa lo si alzasse, che si provasse a buttare giù una conversazione, in cui ci si prepara a parlare anche a chi non c’è più.

Vorrei che non si avesse paura di non aver detto tutto, che si sapesse nel fondo di sé che solo essersi incontrati in questa vita, aver condiviso un pezzo di strada, è un miracolo già, è la cosa più meravigliosa che c’è.

Formiche e gentilezza

«Cosa mangiano i serpenti, mamma?»
«Cosa mangiano gli orsi, mamma?»
«Cosa mangiano i coccodrilli, mamma?»

È una domanda costante di Sosuke, declinata a tutto il regno animale, senza differenza alcuna. Cui segue talvolta la domanda: «Mangiano anche le persone, mamma?»

Ieri, parcheggiando la bicicletta, Sosuke era chino su una formica. La rincorreva, Perché?, Guarda che poverina ha paura. Ma mamma, cerco di darle la briciola del mio biscotto. È bellissimo Sosuke, ma serve lasciargliela da una parte, magari sul percorso che fa, non davanti, non addosso, tornerà con le sue amiche, vedrai.

E in tutta questa micro lezione di gentilezza capire, dicendo, che costa fatica non avere la soddisfazione di vedere dove va a finire, quanto conta il nostro gesto di garbo. Ma in fondo la gentilezza è proprio quello, fare qualcosa per sapere, in sé, solo per sé, che l’altro sarà felice.
Non badare insomma alla ricompensa, che sia anche una formica che, nell’immaginazione bambina di Sosuke, bastava si caricasse la briciola del suo biscotto sulle spalle, e paresse a suo modo contenta.

Questa è l’immensa, microscopica gioia di ieri, per voi ancora di oggi.

Tre cose belle, almeno Una.

#trecosebellealmenouna #cosebelledadichiarare

#DiariodalGiappone n.3

Oggi un uomo e una donna, seduti a distanza di un metro, in mano entrambi hanno un piccolo cono gelato, verde del maccha di cui esistono gelaterie esclusive a Kamakura e a Tokyo.
Se ne seleziona solo il grado di densità, ma è maccha comunque, soltanto maccha. E il verde è talmente squillante che si prende tutta la scena.

Diversi d’aspetto, lui un po’ calvo, pare più anziano, lei bambolina, i capelli tinti di castano. Lui con la mascherina calata sul mento, lei nulla. Poi lui allunga il cucchiaino verso il cono di lei, lei si avvicina. Gli offre a sua volta il suo cono, con una gradazione diversa di maccha.Si vogliono bene, si capisce.
Intorno a quello strano monumento su cui sono seduti, all’ombra di una specie di torre, i due chiacchierano piano, sorridono, si dicono molto. E intorno a loro un traffico lindo di persone, giovani uomini e donne, soprattutto, nel secondo giorno di primavera dell’anno.

E d’un tratto tutto mi pare immutabile. Se anche quella coppia tra un mese sarà chiusa in casa, in attesa che la tempesta passi oltre, anche se quella donna che parla fitto fitto al cellulare mentre cammina verso il kombini parlerà, sì, ma affacciata dal suo balcone, ecco che tutto tornerà al punto di partenza dopo un mucchietto di tempo.
Riesco già a immaginarli, i due coni, il verde del maccha, la donna che ride di una confidenza dell’amica del cuore.

Tutto torna. Basta avere pazienza. Me lo sono detta, pensando all’Italia, e al Giappone.
Come una profezia positiva, come la misericordia di un meteo che prevede solo sereno per un intero weekend.

#DiarioDalGiappone n.2

Giovani donne in kimono, tre per la precisione, appena sbocciate in una stradina antistante a un negozio che esibisce obi in offerta per una manciata di yen.
Lì le tre ragazze hanno affittato gli abiti, si sono fatte vestire, pettinare, ornare, truccare. Apparecchiare per la gioia di una passeggiata nel sole, a Kamakura, antica capitale che tanto ispira la tradizione del Giappone, non solo il lato anteriore, che chiede ogni giorno più impegno, più amore, più devozione, ma quello nelle retrovie, più lento, meno ingordo di chiamare a sé le persone.
Le tre giovani donne, ognuna stretta in una miscela diversa di colore, scivolano lungo la strada tutta ricurva da cui le osservo camminare, perché scrivere in casa non sono mai riuscita, distratta come sono dal brusio della comunicazione, di internet, del cellulare.

Giorni in cui il Giappone osserva il gioco del mondo, mano a mano che il suo meccanismo si inceppa, e lo studia, lo racconta, lo testimonia come sa fare. Sa – pur continuando a sperare di no, come un bambino che si nega la ragione – che il contagio si allargherà, che anche le sue strade saranno presto più vuote.
Ha giocato d’anticipoo chiudendo le scuole, negando assembramenti, cancellando eventi uno dietro l’altro. Qui, per le allergie, sempre mascherine. Qui la distanza è culturale.

Domani tuttavia saranno pubblicate le opinioni degli esperti. Probabilmente compariranno a lenzuolo su tutti i giornali, invaderanno i palinsesti. Sapremo qualcosa di più.

E tuttavia le tre ragazze ridono allegre, e ogni passo è consumato dal desiderio di ricordarsi così belle, vestite di camelie, d’ondine che richiamano il mare, di boccioli di pruno in fiore.
Selfie a cascata, tanto che paiono ferme.
Ora, solo ora conta. Non cedono solo un passo alla preoccupazione.

E io mi abbevero della loro bellissima, incauta ostinazione.