Fiori cocciuti

Nelle peregrinazioni del sabato mattina, ho preso in mano un libro che richiama il gioco del Bingo e le passeggiate in città. Era nell’angolo dei libri illustrati per bambini, e ancora l’ho ritrovato in quella zona intermedia che è l’infanzia in terza persona, nei genitori che sono filtro tra i bambini e il mondo. E filtro, quando si tratta di educazione, può essere tutto sbilanciato sulla meraviglia come anche sul tentativo costante (e spesso illusorio) di scongiurare pericoli e schivare dolori.

 Nasce propriamente come un Bingo, cartelle piene di disegni di cose che si incontrano abitualmente per strada, nel corso di una passeggiata in una città qualunque del Giappone. Chi lo vede per primo (un poliziotto, una cabina telefonica, jizō, pozzanghere, tartarughe, coppie vestite in tinta, un piccione, un cane, salaryman, buche della posta, persone che distribuiscono pacchetti di fazzoletti, ragnatele, etc.) spunta lo spazio. Vince chi le completa per primo.

Ogni passeggiata porta tuttavia l’impronta del luogo. E nascono allora cartelle sul mare (うみ), sugli acquari (すいぞくかん), sulla città (まち), su ognuna delle quattro stagioni (はる、なつ、あき、ふゆ), su Tokyo (TOKYO).

Perché Tokyo è diversa e io, che la amo profondamente, colleziono qualunque tipo di sguardo la tocchi. Ognuno la vede a suo modo, e fare un bouquet di tutte queste percezioni mi fa sentire di conoscerla meglio. No anzi, io non voglio conoscerla meglio. Io voglio saperla a memoria.

Di tutte queste voci del quotidiano, ognuna mi insegna qualcosa. Come ad esempio che basterebbe una tela di ragno di 500 m per fermare la potenza di un boeing, che le pigne, per proteggere i semi, si aprono e poi, con la pioggia, si serrano strette in modo da non farli andare dispersi.

 E poi ecco numero 24, su cui finisce che mi fermo a riflettere per settimane.

ド根性花 dokonjōbana

ド根性花 dokonjōbana è il fiore della perseveranza, più letteralmente un fiore cocciuto.
Sono quelle piante che si infilano letteralmente negli interstizi delle strade, bucano l’asfalto e allungano fusti alla luce. Alcuni sbocciano persino in fiori e sotto, nel lavorio incessante delle radici, si irrobustiscono ogni giorno di più.

Nel 2005, nella Prefettura di Hyōgo, fece notizia una radice di daikon che sfondò l’asfalto, trovando il proprio posto al sole a dispetto delle sue dimensioni tutt’altro che discrete. Chi sa cosa sia un daikon e lo abbia visto tutto intero, prendendolo magari anche in mano, può immaginare la sorpresa nel trovarselo sul marciapiede.

Tuttavia, ciò che soprattutto viene illustrato in questa pagina del bingo – dedicata alle “erbacce” spontanee, alle pianticelle che crescono nei luoghi più inpervi e con successo – è il modo di emulare quelle creature vegetali, esercitando la propria tempra.

Sono cinque gli step intermedi contemplati dal libro. Ed ognuno dà adito a riflessioni ulteriori.

  1. Individuare obiettivi vicini. Abituarsi alla spiacevolezza di qualcosa che tuttavia ci fa bene, darsi il tempo di rivisitare un’emozione completamente negativa.

Credo che per aumentare la propria capacità di stare al mondo serva affidarsi all’idea che l’abitudine sia in grado di mutare ogni cosa (non è così cattivo/brutto/spiacevole come credevo), così come è necessario comprendere come sia stata proprio un’abitudine, replicata per anni sempre uguale nei gesti o nel pensiero (amo sbucciare la mela con il pela-patate, detesto le tisane al finocchio, mi piace la sensazione del jeans sulla pelle, odio gli abiti attillati), a definire i nostri gusti.

L’idea secondo cui i propri gusti siano in parte casuali, esperienze in cui ci siamo imbattuti da ragazzini, persone che contavano per noi e che abbiamo voluto emulare o da cui ci siamo voluti distanziare (una madre, un padre, un fratello etc.), cose che abbiamo voluto provare e su cui abbiamo insistito nonostante un iniziale disgusto (chi mai può amare da subito una sigaretta o il sapore dell’alcool?), ebbene, tutto questo può aiutarci a capire quanto malleabili siamo.

 Dopo anni di cappuccino con una o due bustine di zucchero, in Giappone ho scoperto ad esempio quanto più buono sia non metterne affatto. Dopo salite avventurose sugli autobus romani, in cui io stessa spingevo per farmi largo tra i passeggeri (con nessunissimo garbo, lo ammetto), adesso sono una ossessiva osservante delle file, anche quelle meno evidenti.

Ecco, il mio obiettivo allora è imparare a bere il caffè nero.
L’ho sempre trovato disgustoso, tale da causarmi degli spasmi al solo averne una piccolissima quantità nella pancia.

«Compromesso!», mi sono detta, e Compromesso sia! Anzi “è stato”. Perché ho cercato la varietà meno aromatizzata, più netta, e fatico, ancora fatico, tanto che talvolta cedo a un cucchiaino di latte o di panna, ma ultimamente riesco. E mi pare che il mio personalissimo mondo si sia ampliato di un poco di più, che nella sottrazione di un no che un tempo mi veniva fuori spontaneo, io abbia allargato la mia capacità di fare esperienza di quanto mi circonda.

  1. 持久走  Spingersi un poco più in là

Tentare un passo oltre il limite. Il confine stabilito, mettere in discussione di un minuto una scadenza. Un minuto in più sulla cyclette, un centinaio di metri in più in una corsa, una pagina in più nela lettura, un piatto in più da lavare, un kanji in più da memorizzare, una stanza in più in cui passare l’aspirapolvere.

Spingersi un poco più in là. Il sempre diverso. Diventa quasi divertente, che quando si avverte del fastidio, un no non mi va interiore, ci si sbriga invece a dire , automaticamente. Diventa , e poche storie! (笑)

Ci si prende gusto a sfidarsi.
Comunque si vince.

  1. Fare un puzzle completamente bianco, da centinaia, migliaia di pezzi

Serve ad allenare la concentrazione, tanto che pare fosse incluso nell’addestramento degli astronauti.

Stare attenti insomma, allenare la memoria, il ricordo vicinissimo delle cose. Ce la si fa, basta appunto rimanere centrati su ogni singolo pezzo, che l’incontro ci resti nella memoria, in modo da non smarrirlo.

Ichi-go-ichi-e.

E poi, penso, serve anche ad altro, a capire quanto deleterio si dare importanza solamente a quanto “è utile” nell’immediato.

Uno dei segreti dell’infelicità è proprio scambiare le cose importanti con quelle utili. Dare, soprattutto, la priorità alle seconde.

Credere, per esempio, che correre all’asilo e guadagnare quei dieci minuti per entrare prima in ufficio (magari finendo per sciupare quel tempo rimanendo imbottigliati nel traffico o controllando futilità al cellulare), sia più importante che camminare con lentezza con la manina del proprio figlio nella propria, mostrandogli qualche dettaglio della strada, raccontandogli una piccola storia o, semplicemente, standolo ad ascoltare. Rispettare “il diritto alla lentezza” di un bambino, donargli un buon inzio di giornata, donarselo di riflesso. Cosa, davvero, conta di più?

  1. Trascrivere il nulla, svuotarsi

Svuotarsi. Trovare un tramite, e travasare tutto il ronzio della mente su un foglio, su una tastiera di pianoforte, su una superficie che ponga un minimo di resistenza e che abbia confini da rispettare. Scrivere ad esempio la stessa cosa, ricopiarla innumerevoli volte, come una nenia, la ripetizione diventata il puro nulla. Come un suono che, ripetuto, si svuota e diventa una vibrazione soltanto.

Mi vengono in mente monaci benedettini, copisti di un tempo assolutamente contemporaneo che invece della bacchetta di Silente e del suo Pensatoio, usano una penna o un pennello, le dita.

  1. La cascata d’inverno

Nell’immaginario del Sol Levante è il sedersi seminudi, meditando e pregando sotto il getto gelido di una cascata in inverno, il picco dell’addestramento. È per antonomasia la massima prova con cui sperimentare ed esercitare la propria tempra.

E tuttavia no, non serve venire fino in Giappone e neppure spogliarsi sfidando un tremendo malanno.

Credo piuttosto che ognuno sappia il proprio limite, e conosca alla perfezione l’ultimo step del proprio addestramento alla resistenza. Una volta individuato, basta metterlo in pratica.

Probabilmente non dormirò mai in un ostello, non mi imbarcherò in viaggi pieni di emozioni e scomodità, rimarrò schifiltosa, mi infastidirò se qualcuno parla vicino al cellulare o imposta una videoconferenza in un bar. Però abbassare la propria soglia di intolleranza è una chiave certa di benessere.

 

 E poi un’ultima riflessione che mi stimola questo “fiore della perseveranza”.

Credo sia importante domandarsi da dove vengano i semi di queste piantine, di questi fiori che spuntano ovunque e scalzano la prepotenza della nostra mano pesante sul mondo. E allo stesso modo, ritengo utile considerare come la propria perseveranza possa essere di esempio ad altri, che per questo serva occuparsi non solo dei propri figli (se li si ha), ma anche di quelli degli altri, come diceva Melita Cavallo.

 E ancora. Che si deve fare come le piante,ド根性花 dokonjōbana, questi fiori cocciuti, ovvero individuare un minuscolo spazio, montare una contrattazione – con altro, o con se stessi, con il proprio umore – e piano piano procedere avanti, allargarsi, sfidarsi, migliorarsi.