NAGASAKI di Éric Faye

Si dice che i bambù dello stesso ceppo fioriscano nello stesso giorno e muoiano nello stesso giorno, per quanto siano lontani i posti in cui sono piantati nel mondo.

Pascal Quignard

Quando uno straniero si accosta alla materia giapponese si presentano spesso due possibilità: una è un pericolo, l’altra è un miracolo.

Il pericolo è quello che egli/ella banalizzi quel che non conosce o conosce poco, che la superficialità dell’approccio lo porti a spiegare poco e male, o troppo e in modo didascalico; che dal racconto emerga una sensazione di artificiosità, di lifting culturale, in bene o soprattutto in male. Semplificazione, sfruttamento di temi “caldi” al solo scopo di attirare l’attenzione. È allora l’orticaria quella che vien su.

eric-faye-j-etais-fascine-par-un-fait-divers,M41293Il miracolo, invece, avviene quando chi scrive conosce a fondo quello di cui parla, o – cosciente dei limiti del proprio capire – si avvicina con umiltà ad una cultura altra. Il suo punto di vista, in questo caso, sarà persino illuminante, poggerà l’occidente nell’oriente e farà domande, e darà risposte.

È quest’ultimo il caso, doppiamente miracoloso perchè chi scrive è un giornalista, di un libro delizioso, sottile, francese. Chi scrive è Éric Faye, giornalista della Reuters, ricercatore e scrittore da lungo tempo, che con questo libricino ha vinto nel 2010 il premio dell’Académie Française.

Tratto, come è scritto in apertura del racconto, da “un fatto di cronaca riportato da numerosi giornali giapponesi, tra i quali Asahi, nel maggio 2008”, Nagasaki è un piccolo capolavoro letterario.

Un cinquantenne solo, che conduce un’esistenza abitudinaria, tranquilla e banale, nel tran tran quotidiano che lo porta da casa al lavoro e dal lavoro a casa, si accorge un giorno della mancanza nel proprio frigorifero e nella dispensa di certo cibo che era convinto di avere invece acquistato. Inizia a farsi sospettoso, a controllare con precisione il pesce, i vasetti di yogurt. La cosa lo inquieta sempre più finchè non decide di installare una telecamera nel proprio appartamento, in modo da poter controllare che nessuno vi si insinui mentre lui è fuori casa. Nessuno entra in casa, nessuno possiede le sue chiavi eppure, nella finestra che rimane sempre aperta sullo schermo del computer che usa al lavoro e da cui controlla l’interno della cucina, l’uomo un giorno scorge un’ombra e poi scorge qualcos’altro …

Nagasaki è una storia bella e malinconica narrata in prima persona, scritta in uno stile ricco di vitalità e di poesia. Racconta un episodi o inverosimile eppure realmente accaduto, che spiega la solitudine delle creature umane e il loro disperato desiderio di un contatto.

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Incipit

Si deve immaginare un cinquantenne deluso di esserlo così presto e così tanto, domiciliato al confine di Nagasaki nel suo villino di un sobborgo con le strade in salita. E vedere quei serpenti d’asfalto molle che salgono verso l’alto dei monti, finchè tutta quella schiuma urbana di lamiere, teloni, tegole e non so cosa ancora si ferma ai piedi di una muraglia di bambù disordinati, di traverso. È lì che abito. (p. 11)

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Estratto

Aprendo la scatola che contiene il mio pranzo, ho creduto per un attimo, di fronte a quei piccoli scompartimenti ben chiusi pieni di alimenti policromi, di osservare l’interno di una casa di bambole. E allora mi sono detto, potresti installare una webcam in ognuna delle tue sei stanze, dividere lo schermo in altrettante finestre e non fare altro dalla mattina alla sera che scrutare a distanza il bento nel quale vivi. (p. 24)

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www.inmondadori.itAutore: Éric Faye

Titolo originale: Nagasaki, Éditions Stock, Paris, 2010

Titolo italiano: Nagasaki (traduzione a cura di Tommaso Gurrieri)

Editore: Barbès Editore, Firenze

Anno di pubblicazione: 2011

Lunghezza: 107 pagine

Prezzo di copertina: 12,00 euro

ISBN: 978-88-6294-226-3

距離 o della distanza

  距離 kyori è la distanza. A volte in giapponese la distanza la si “posa” (距離を置く kyori wo oku), oppure “c’è” (距離がある ga aru), semplicemente. Come in italiano la si “prende” (距離を取る kyori wo toru) e così fiorisce tra sè e qualcosa che fa male o tra sè e qualcosa che invece si vuole riaffrontare dopo, con più calma.

  Ho sempre vissuto il vuoto come horror vacui, il niente come “niente”. La lontananza come paura ed afflizione. Ma questa città orientale mi ha insegnato la distanza. La sua necessità. E la sua intrinseca bellezza.

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  Perchè la distanza è anche desiderio. È nostalgia: non quella che ti fa piangere e star male, ma quella buona che ti fa comprare un biglietto per partire e ti sostiene ogni santo giorno che lavori per mettere da parte il denaro necessario. Quella che ti dice che prima o poi, dietro a un mucchio di storie andate male, spunterà il giaciglio d’una vita. Quella che ti indica la strada per scalare la montagna che vuoi tu.
Tra te e il tuo progetto, qualunque esso sia, c’è la distanza che si intreccia alla fatica, all’impegno. E nel tempo che ti separa dalla sua realizzazione potrai capire se davvero è quel che vuoi. Perchè in questa vita si può cambiare idea e la distanza aiuta a farsi domande (“è proprio questo quello che voglio?”) e di giorno in giorno aiuta a confermare una passione. Maggiore è la distanza, maggiore è il desiderio che le cresce dentro.

DSC08275 - コピー  C’è poi la distanza del nascere in un posto e finire invece altrove.
Vivere all’estero ti muta prospettive e per quanto ormai l’estero sia casa e casa sia un concetto che trasloca, rimane quel margine di incomprensione che ti ricorda che hai ancora tanto da imparare. Che per quanto ci vivrai, ovunque sia, ci sarà sempre qualcosa che non sai.

  La distanza ti fa allora dubitare dell’infallibilità delle tue opinioni, ti insegna la caducità delle conoscenze che hai accumulato. È un perenne autunno la memoria. Quel che non sai è, e sempre sarà, maggiore di quello che sai o che ricordi. E persino quel che sai, chissà… potresti averlo sentito male, potresti averlo appreso già viziato da un pregiudizio che filtrava un tempo la tua visione sulle cose. Magari un errore di pronuncia, la via sterrata di un discorso con qualcuno, polvere e terriccio che ti fanno andare naturalmente dove tu conosci, e che quindi immagini vero ovunque. Ma l’altro no. Che lui è già altrove. E ti guarda da lontano. La distanza ti insegna l’umiltà.

  E nella distanza che nel quotidiano adesso è tra me e la mia lingua madre ho trovato un modo di amare questa di un grado in più.

  Non parlo mai italiano nel mio giorno. Ryosuke mi dice la sua vita in giapponese, io gli racconto la mia nella sua lingua. L’italiano sono le chiacchierate su skype con le mie amiche, quando per miracolo gli orari si mettono d’accordo. Poi nient’altro. Perchè nell’insegnarlo è un’altra cosa e va tenuto al guinzaglio per non confondere chi lo sta imparando con fatica.

  E allora leggere libri e farmeli raccontare, perchè lo voglio anche sentire l’italiano, che vederlo solamente certi giorni non mi basta. In Giappone ho scoperto su iTunes programmi della radio come Ad Alta Voce, che mi raccontano le “Favole al telefono” di Gianni Rodari, “Riflessi in un occhio d’oro” di Carson McCullers, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo o “La peste” di Albert Camus, Alberto Moravia e il suo “Agostino”, Primo Levi e la prosa straziante che risuona nei miei viaggi in bicicletta verso il lavoro, tra gli scaffali di un kombini, mentre faccio le pulizie a casa o porto la Gigia a passeggiare. Radio2 e i programmi de Alle otto della sera mi spiegano 20 film, 20 imperatori romani, mostri e principesse. Radio3 e Wikiradio, perchè ogni data ha dentro almeno una storia.

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 Belli? No, di più. Grazie alla distanza ho capito ancor di più come la lingua vada coltivata. E non solo una straniera, ma anche e soprattutto quella propria. Perchè più modi di dire si impareranno più sentimenti si sapranno raccontare, più nel linguaggio riusciremo a dirci, e il nostro scrivere e parlare non ci tradirà. Comunicheremo esattamente quello che vogliamo comunicare.

 Distanza, una mano che si avvicina, lo spazio di un bacio. La distanza tra la bocca e una guancia, tra una bocca e un’altra bocca. La distanza tra un amico ed un amante e quel fazzoletto di niente che permette la trasformazione di quel che era in quello che sarà. È la distanza che è sensualità.
È bella allora la distanza. È un fingersi lontani per capire meglio quel che, per una serie di ragioni, si è avvicinato troppo. Sono le abitudini, ciò che si dà per scontato. E a un centimentro di distanza l’occhio non può vedere niente.
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  Sciogli un attimo l’abbraccio. Posa della distanza tra di noi. Voglio guardarti in viso e trovarci quello che, in quest’intervallo, ho dimenticato. Che io mi accerti del tuo volto, che negli anni forse è mutato, che io trovi l’espressione che amo sempre ma che ho scordato.

  E per caso, proprio oggi, in Giappone è il ‘giorno degli amori a distanza’ 「遠距離恋愛」

♪ Beyoncé  “Drunk in Love”

 

節 o i nodi del bambù

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「節」 è setsu, il “passaggio” e il “periodo”, ma è anche – a seconda della lettura del kanji – fushi, l’“articolazione”, la “giuntura”. Il “nodo”.
  Aggiungici l’occhio ed esso si trasformerà in 「節目」 fushime, nel “punto di svolta”, quello che determina il cammino, la crescita d’un albero, lo sviluppo d’un bambino, la psiche di un adulto.
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  I giapponesi sono soliti spiegare questo concetto con il bambù, con l’immagine dei nodi che si creano di sezione in sezione e sostengono, del suo fusto cavo e legnoso, l’allungarsi solido e ritto verso il cielo. La crescita che inizia da un nodo e in un nodo finisce. Così sono le fasi della vita, ed ogni svolta è un irrobustirsi. Così ogni periodo dell’esistenza risulta necessario ed esso va affrontato bene, dal suo inizio alla sua fine.
 Così l’anno dei giapponesi è punteggiato, come un quadro di Seurat, di cerimonie che determinano il passaggio da una fase all’altra della vita. E non vi è nulla di superfluo nel cerimoniale, che sia quello delle grandi occasioni o della vita quotidiana. Lo shichi-go-san, il rituale dei saluti, il biglietto da visita, il funerale. Eccetera eccetera.
   Ogni periodo si congiunge a quello successivo, e lo 「繋がり」 tsunagari è il “collegamento” che preserva dalla fine improvvisa, che previene l’incrinarsi dello 「和」 wa, dell’armonia.
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  Accade alla fine della prima ora. Una studentessa mi si avvicina. È M-chan, che ha una malattia della pelle che le oscura il volto, le braccia e il collo, che le apre ferite e mostra spesso del suo corpo lo scarlatto. È la più grande della classe e lo testimonia il puzzo di fumo che si porta dietro nella trama dei vestiti, nei capelli che lascia sciolti e neri sulle spalle. Se non avesse più di vent’anni non lo potrebbe fare, non potrebbe neanche bere: la maggiore età in questo paese arriva tardi.
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  Mi chiede la situazione delle sue assenze ed io, che ho il registro davanti, le dico che non può più farne ma che non si preoccupasse, che anche l’altro semestre aveva raggiunto il limite e poi, all’esame, aveva preso un ottimo voto e che, quindi, mi aspetto a gennaio molto da lei.
  Le tremano terribilmente le mani. Vuole parlarmi di qualcosa. Mi dice che di assenze non ne farà più, che cercherà di venire sempre, ma che non sta bene e che non è una scusa. Mi porge una busta, le faccio una carezza sulla spalla. Mi ringrazia, se ne va. 
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  I ventuno sembrano anni belli e per qualcuno lo sono veramente. Ma ad altri confondono le idee, rimescolano ogni cosa. Forse è una coincidenza puramente numerale ma così è stato per me e così è per tanti miei studenti. Almeno uno o due, ogni anno, sembrano cadere. Si perdono. Iniziano a star male. Arrivano pesti dal sonno, lo sguardo torvo, sul viso si spengono luci e restano finestre con le persiane sempre chiuse, facciate senza ornamenti.
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A questi ragazzi io porgo la mia storia, liberata dalla lische, spiego quanto anch’io una volta mi sentissi sradicata, vivessi perenne il sentimento della fine. Racconto loro dei litigi, del significato latente dei giorni che mancavo di contare perchè, a viverli così, non c’era desiderio di ricordarli. Ma poi parlo loro anche della fatica – che, se è originata da se stessi, sa di autostima duratura e regala inacquistabile potere – dell’essere testarda, dello studiare con una passione esagerata, figlia in egual misura della gioia di sapere e del desiderio disperato di salvarsi. Del “periodo” che finisce, del nodo robusto che si crea e del nuovo che nasce da quello che sembrava, invece, un completo fallimento.

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  Ed ogni volta che me li trovo davanti con una busta chiusa che mi racconta di diagnosi di depressione, di malattie nervose, o magari di malattie fisiche che li costringono a complicate operazioni e ne fiaccano la mente, ogni volta che mi porgono con mani tremanti e viso indifeso dichiarazioni della loro debolezza, penso a quanto sia maledettamente complicato crescere. È una vertigine, è la “balbuziente grandezza” della gioventù. Tutti perennemente impreparati ad ammirare cieli ardesia che invece di stelle chiamano tempesta. Eppure, nonostante tutto, li guardano quei cieli che tendono al grigio e poi al blu, e sperano, nonostate il vento che si alza e le nuvole che affollano la vista, nelle stelle.
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  Ci sono persone che queste fasi le vivono a ventuno anni, altri che le vivono ininterrottamente dall’adolescenza alla maturità. Altre che vi passano attraverso incolumi, come piedi di fachiro sulla brace, e ignorano nel profondo quanta fortuna serva perchè ciò accada. Ma quel che dico a questi giovani uomini e donne, è che bisogna imparare presto, nella vita, a chiedere aiuto. Che fare terapia aiuta ad accorciare la via. Ma soprattutto che c’è sempre una strada che ci porta fuori dalle prigioni e non è una strada che costruisce qualcuno per noi, è una strada che ci costruiamo da soli, come carcerati che guadagnano la libertà con solo un cucchiaino e un pezzetto di ferro. Scava, scava, prima o poi ti trovi all’aria aperta, faccia a faccia con la luce, il cielo pieno e sconfinato. 
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  E non bisogna stare troppo tempo ad odiare chi ha costruito intorno a noi quella prigione. A volte è solo troppo amore, errori subiti e reiterati, perchè è facile confondere la “vivenza” con la sopravvivenza. 
  No, non bisogna perdere tempo. Che non passi giorno senza cucchiaino e pezzetto di ferro alla mano.
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  E mentre parlo o scrivo loro, sento che davvero è valsa la pena di stare tanto male. Sia perchè adesso darei per scontato molto di quello che ho e che ricevo, sia perchè altrimenti non potrei aiutare altri.
  Spesso si ha una insensata, benchè naturale, paura di soffrire. Ci si dimentica che anche la sofferenza serve a creare nodi di bambù, ch’essa costituisce parte di ogni setsu. Basta non lasciarsi incattivire dai dolori e portare a termine, con caparbietà, ogni sezione del percorso.
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  A me tutto questo ha portato una serenità bella ma complessa che è adesso la mia vita. Con Ryosuke, la Gigia, questo paese annodato tutto intorno e centinaia di studenti che di anno in anno mi donano le loro fragilità. Una vita che amo tanto.
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