Di dicembre, dello yuzu e del Serpente

  Natale di letto e di cibo scandito da chiacchiere e sonno. Capodanno di tradizione che avrà la capigliatura sfatta della mattina, il cibo lavorato dalle mani di mia mamma, l’allegra risata di mio suocero che amo come un padre, l’esasperata timidezza di mia nipote e la burbera cordialità di mia cognata Asuka. È la lentezza dei passi che precedono l’arrivo alla linea di partenza da cui inizierà la gara, la maratona che eccita e sfiacca. Perchè gennaio va veloce, è il mese dei conti, degli esami di fine anno, del recupero di ciò che nei mesi è andato perduto. L’impegno che si fa lettera e numero, la redazione dei sillabi che scandiscono l’anno che da aprile riporterà sui banchi migliaia di giovani giapponesi.

  Dicembre è invece mese di bilanci e di bilance, di pesi e di misure. L’anno che in un colpo di coda cambia di forma e che, in quello che verrà, l’avrà lunga la coda, come del resto tutto il corpo. Il Serpente sporge già il capino e lo ritrovo sulle cartoline augurali, sulle riviste, sul giornale, sull’artigianato giapponese, sui dolci, sugli ema – le tavolette votive di legno – dei templi.

  In Giappone dicembre è il mese dello yuzu 柚子, il frutto che si raccoglie giovane d’estate nella sua qualità verdognola e maturo d’inverno di un giallo canarino, e che si pone a galleggiare nell’acqua dell’ofuro. È una tradizione che allunga le radici fin dall’epoca Edo quando gestori dei bagni pubblici la inaugurarono. Si lasciano fluttuare così, interi, nell’acqua calda o tagliati a metà e avvolti in una garza. E s’alza, per la casa, un intenso profumo di agrumi.

  Dicembre è anche il mese delle nengajō 年賀状, le cartoline augurali che i giapponesi si scambiano a migliaia a fine anno. In una vita spesso tanto densa, in cui l’essere isogashii (occupati) assorbe incontri e socialità, questa tradizione riesce spesso a tenere saldo il filo del contatto finchè non si avrà la possibilità concreta di vedersi. È il pensiero che si corrisponde, l’affetto che si scrive.  Oppure sono doni, come l’oseibo お歳暮 suggerisce.

 Ma dicembre è anche il mese delle oosōji 大掃除, delle grandi pulizie che iniziano il 13 perchè in epoca Edo, sotto il bakufu (periodo dello shogunato), accadeva che si lustrasse ogni angolo del Castello Edo 江戸城; è il mese in cui si festeggia – con la leggerezza che a un paese prettamente buddhista e shintoista compete – il Natale, che qui è festa d’innamorati, torte deliziose e proposte di matrimonio che fioccano come neve nell’Hokkaido.

  Ma poi arriva il pino e il bambù fuori dalle case, dai palazzi e dagli uffici commerciali, arrivano i mochi da ammorbidire con il martello di legno, l’o-sechi ryōri e torna così la spiritualità dell’altro Giappone, quello che più amo.
Dicembre in Giappone è il mese del merluzzo, del cetriolo di mare, della rana pescatrice, dell’hakusai, del komatsuna (tipi di verdure), dei mandarini unshū. E di molto, moltissimo di più.
Mi guardo indietro e mi chiedo come è stato quest’anno.

  C’è stata una grande paura, la Gigia che si è ammalata, lo stringersi del compasso e la linea curva che gira intorno ed abbraccia solo gli affetti più cari. Nuovi incontri, ancora accennati, che attendono occhi e parole. Ho visto un’amica cara, la più cara, perdere il padre, un’altra ripudiarlo con fermezza, una muovere casa e lavoro per la fiacchezza del corpo; un’altra apprendere la propria debolezza e cercare infine aiuto, un’altra ancora impegnarsi a fondo in un sogno e riuscire a realizzarlo. La mia nipotina nascere e portare nuova vita alla famiglia.

  Poi c’è questo dottorato che mi sta cambiando la vita perchè nella disciplina ritrovo la misura del piacere. “Frequenta chi è meglio di te”, recita un detto e nei libri trovo le persone che avrei voluto incontrare. A volte li sogno, mischiati a volti noti della mia quotidianità. C’è M-sensei che riempie di giapponese e francese i miei martedì, la sua voce che sale e discende montagne, s’inabbissa e poi risorge. Ed ogni volta è come se tornassi ad essere quella che sognavo di diventare da ragazzina. Una donna abitata dalla gioia di imparare, ingentilita e non indurita dalla vita.

  Guardo ancora avanti ed è febbraio. Febbraio che avrà per noi il profumo speziato e acre dell’India, terra di cui agogno soprattutto la luce, il disordine inquieto della folla, il brulicare d’una vita ancora diversa da quella che abita Roma o Tokyo. Sarà il viaggio di nozze mai fatto di cui, negli anni, ho sentito lo scalpiccio nella casa, nei giorni di festa: il desiderio di ricordare qualcosa di extra-ordinario.

  San Valentino, invece, sarà – a pochi giorni dal ritorno da Delhi – una nuova data di partenza. Dopo un anno e mezzo tornerò sola in Italia, scortata da un progetto di studio che oltretutto mi finanzia, da impegni che mi tengono ferma l’emotività, come stecche fissano la schiena.
Sarà Milano, Trento, Firenze. Una novità a metà strada tra due conoscenze. L’Italia è cambiata, mi dicono in tanti. C’è scontentezza, c’è l’atmosfera castigata di chi riceve qualcosa che sente di non meritare. C’è meno gentilezza e meno riso. Ormai turista nella mia terra, inabituata a parlare la lingua che scrivo, non so cosa attendermi. Cosa troverò?

L’Italia di questo viaggio non è la Terra Promessa, ma sa di palazzi e di montagne, di stradine e lunghi filari di pioppi, degli antri di biblioteche che profumano di tempo e di mani, delle lezioni del mio amato professore, che talvolta sogno mentre mi dà rassicuranti consigli che poi dimentico al risveglio.

  Questo viaggio sa degli adorati zii con cui non mi sono mai sentita a disagio – neppure una volta in vita mia –, di una cugina dal corpo di gazzella e la mente da leonessa che già si innamora e già si sposa. E saprà della commozione provata per amici vecchi e nuovi che attraverseranno ampie pezze d’Italia per venire a incontrarmi, a incontrarci. Chi a Milano, chi a Firenze.

  Come sarà il nuovo anno? Febbraio trascinerà gennaio per la mano? Questo anno serpentino prolungherà la gioia intensa di quello che finisce?

  “Non c’è risposta a questo; ma credo che le domande abbiano un loro valore” scriveva Paul Valery a proposito di altro. Ma vale per tutto.
Le domande hanno sempre un loro valore.

風がはこんでくるもの、  辻井伸行

Doki doki, waku waku, soro soro

  Il doki doki e waku waku che ti fa sentire il cuore che s’agita alla sinistra del petto. Sinistra per chi lo possiede, destra per chi ti guarda in viso. Chibi chibi che è poco a poco, come se non si volesse mai finire di gustare. Piccolo e minuto, come i passi dei bimbetti. Paku paku che è aprire e chiudere con insistenza, è la ripetizione. Sono patatine, senbei, qualcosa di croccante che si spezza tra i denti.

  E tutte queste espressioni vanno in coppia, due gemelli che si tengono per mano. Dondolano le braccia e quel suono ripetuto due volte, come il tocco di una mano sul tamburo, è la bellezza del ritmo di una frase.

  L’onomatopea giapponese è la gestualità degli italiani. Racconta dei giapponesi quello che fanno le nostre mani, sempre piene di messaggi e sentimenti. Le varianti del suono della pioggia, di ciò che è morbido e spugnoso, di ciò che fa irritare o rende allegri, del cigolare di una bicicletta o del crescendo della conoscenza. Una gamma infinita di varianti che danno voce a ciò che in altre lingue non ce l’ha, una voce.
La sensazione, la percezione del corpo, la sonorità. E non mi stupisce che questo popolo faccia del disegno uno dei suoi mezzi di comunicazione più potenti, si racconti attraverso linee essenziali, colori e linguaggio che richiama suoni e immediatezza. Me lo disse una volta Miwa, che il disegno per i giapponesi è liberatorio, è un altro modo di parlare, di raccontarsi senza la tensione del verbale.

  È una cultura che fatica a spiegarsi, che gioca il suo equilibrio sul ferreo valore della modestia e che, per questo, sulla scena internazionale spesso appare debole, farraginosa, infantile, ipocrita o persino presuntuosa. Niente di più falso.

  Le parole sono anche giocattoli in bocca a chi le dice. L’onomatopea è proprio questo. Un trenino che viaggia da un lato a un altro della frase, una palla che rimbalza giusto due volte prima del sopraggiungere di un verbo, una bambola che spalanca braccia e gambe.
Così a volte sorrido quando le sento ed esco per un attimo dall’abitudine della lingua che ormai da più di sette anni è la colonna sonora dei miei giorni. Mi accorgo dell’onomatopea ed è come quando ci si guarda intorno al cinema e ci si accorge di essere lì, in quel momento.

  Le parole sono caramelle. Fare goro goro è il dolce far nulla, trascorrere il tempo con piacevole e pigra lentezza, tempo buono, senza spine. È il gatto che porge il ventre all’aria e resta a godersi il sole. Pachi pachi è il battere le mani, il nostro clap clap.

  Ma c’è anche la gestualità giapponese. Molto distante dalla nostra che è così diversificata e ampia, tanto che esistono testi in varie lingue che la illustrano con disegni e didascalie. In Giappone c’è il segno per dire no, dame, o quello per chiedere il conto. Essere arrabbiati è disegnare due corna sulla testa, o la mano tesa come a fendere l’aria serve a farsi strada nella folla. C’è il mignolo teso nel pugno per la fidanzata, il pollice per il ragazzo. L’io è sulla punta del naso, come un clown, e una conoscente italiana mi raccontò una volta che tornando in Italia il nipote la scherniva perchè nell’indicare se stessa si toccava sempre il naso.

  È il batsu (e il dame) che è il vietato e lo sbagliato, il falso del “vero o falso” che, a vederlo, fa tanto “x factor”. C’è la testa che reclina da una parte e così mostra incertezza. Punteggia le mosse dei personaggi dei romanzi. Le mani che si giungono nell’itadakimasu e poi fanno il segno della pace per una forma di captatio benevolentiae che evidenzi la propria tenerezza più che l’estetica bellezza. Ne sono piene le fotografie dei giapponesi. È anche la timidezza che si scioglie, sostenuta com’è da una struttura stabilita, quella delle dita.

  Dan dan, piano piano, scalino per scalino la vita si dipana. E’ la crescita, il tempo necessario per far maturare sentimenti, per fortificare abilità. “Dan dan ne” ripeto ai miei studenti che vorrebbero dire più di quanto sanno fare. E’ il divenire delle cose buone e giuste o anche delle cose che scendono la china, s’incrinano e perdono quota.
Il crescere e il diminuire. Lo yen che si rafforza, l’euro che si indebolisce e poi, invertendo la rotta, prende scale mobili che procedono al contrario.
Soro soro, andiamo. Soro soro e finisce questo scritto. Ed è un attimo e finisce. Perchè soro soro significa qualcosa che si appresta ad accadere, che sia l’inizio o la fine di qualcosa.

♪ Mika, Overrated

La forma del dolore o del "kijō"

Ci si svela sempre. Lo fa per noi la capigliatura arruffata, la linea a volte netta sotto agli occhi, il sopracciglio che s’arcua e si distende, il labbro superiore che s’arriccia, l’occhio che s’accende e poi si spegne quasi fosse animato da interruttore e da corrente, l’acqua si fa spazio tra le ciglia, le narici che si divaricano forte per inspirare più aria, più vita.

  Il dolore ha una forma, esattamente come la possiede una bottiglia di uroncha, il tavolo in soggiorno, una confezione di formaggio, un catalogo d’arte. E come questi oggetti, tutti in fila e sull’attenti, anche la forma del dolore può mutare. S’adatta come l’acqua alla forma che l’accoglie. Ne acquista il volume e il peso.
È, nel caso del dolore, anche una questione di cultura. Perchè vi sono popoli per cui esso va dimostrato, i capelli vanno strappati, le vesti lacerate, la gola straziata dalle urla, gli occhi imbevuti di lacrime sincere.
E poi c’è il Giappone che il dolore non lo rifugge ma lo contiene.

  In giapponese si dice che più qualcuno si mostra forte, maggiore è la compassione che merita”.
Perchè chi si mostra forte di fronte a un grande dolore non è insensibile agli eventi ma sta soffrendo profondamente solo che, per non straziare chi sta vivendo il medesimo dramma, sta trattenendo la sua disperazione.
È il concetto del kijō 気丈: il ki che ha dentro lo spirito, l’indole, l’animo, il sentimento e il che è la lunghezza delle cose e della vita e insieme anche la forza, la solidità espresse in una parola come ganjō 頑丈o che, nell’aggettivo jōbu-na 丈夫な, indica la resistenza, la robustezza di qualcosa o di qualcuno.

Il concetto del kijō 気丈esprime il mostrarsi forti, il non cedere mai completamente alla disperazione. I giapponesi sono portati a non mostrare i propri sentimenti non certo per una mancanza di emozione ma perchè la cultura insegna a mettere davanti a sè l’altro, a non far prevaricare il proprio dolore su quello altrui. Perchè in una situazione di disperazione collettiva il dolore di uno deve essere comunque rispettoso del dolore di tutti gli altri.

  Così è stato nel marzo 2011, in un Giappone ferito e straziato, dal quale arrivavano immagini che stupivano gli stranieri che, per l’occasione, ripetevano la parola “compostezza”. Era il kijō: la sofferenza che era e resta enorme ma che i giapponesi non mostreranno mai in modo clamoroso.
Tra quelle migliaia di sopravvissuti c’era chi aveva perso una madre, un padre, un figlio, un fratello o una sorella, il cane o il gatto, chi la propria casa, chi gli amici più cari, chi aveva visto sfumare i sogni di una vita, il proprio lavoro. Il dolore di uno vale tanto quello degli altri. Non c’è chi piange più forte, chi raccoglie maggiore cordoglio. Tutti si sostengono gli uni con gli altri e cercano di andare avanti.

  Ho sempre pensato che il dolore, le lacrime siano cosa delicatissima. Come un dito infilato in un carillon. Ci vuole poco per fermare la musica e la danza della ballerina col tutù che volteggia sempre più lentamente al centro della scatoletta. Perchè quando tu, solo tu piangi per qualcosa che è accaduto a te, a te sola e l’altro nell’ascoltarti piange, persino più forte, con singhiozzi e parole strascicate, allora ti fermi.

  La com-passione si fa furto. Le lacrime non sono più tue. Non riescono più a uscire e ti trovi paradossalmente a dover consolare l’altro. Il dolore che era cosa tua diventa altrui e lo spazio di espressione è ormai preso.

  Penso poi che è curioso che in questo abbinamento di kanji, di ki e di – che viene dopo altri due in ordine di scelta sul dizionario e sul software di word – , ci siano parti di due delle espressioni più comuni in questa lingua.
E’ il ki di genki 元気, che significa “stai bene, come stai?” coniugato ad ogni persona ( l’io, il tu, il lui e il lei, il noi, il voi e il loro) e il che è anche di daijōbu 大丈夫, parola che si ripete nel quotidiano come un mantra “va tutto bene? va tutto bene! va tutto bene, vedrai”.

Sì, andrà sempre tutto bene.

In lode dell’okaasan

   In giapponese okaasan お母さんè la propria madre quando la si chiama, la madre di qualcun altro, o una persona che per età e ruolo potrebbe essere la propria madre putativa. Suocera si dice giri no okaasan 義理のお母さん ma si usa sempre più il solo okaasan.

   All’inizio sospettavo di lei, traumatizzata da ricordi di bambina in cui mia madre piangeva e una donna arcigna comandava con freddezza. Temevo di subire la stessa persecuzione. Qualcosa che ha guastato la mia infanzia. Ipersensibile, vittima d’un esperimento pavloviano, ero pronta a reagire in autodifesa al polpastrello che solo s’avvicina all’interruttore.
Ero terrorizzata e per i primi due anni tra me e la madre di Ryosuke vi è stata una muta distanza. Prevenivo, per non dover curare, ogni contatto. Ora so che quel mio tenerla lontana la fece soffrire.

   E mentre chiamo questa donna “mamma” mi torna su, come un cibo non digerito, il nome che mia nonna impose a mia madre, la distanza dell’Avvocato e della Signora. Per questo avverto, da grande, un desiderio violento di rivalsa, di punire chi è stato malvagio, di cacciare in malo modo chi non meritava di condividere il nostro cibo e il nostro ingenuo affetto.

 Ma è tardi, i morti acquistano un immeritato perdono e ciò che resta a distanza di anni, di funerali e parole mai restituite, è solo un odio sordo nei confronti dei prepotenti, un disprezzo velenoso nei confronti dei soprusi e, specularmente, un senso protettivo che mi scatta incontrollabile quando vedo una violenza nei confronti di animali o di persone in una posizione di debolezza o inferiorità.

   Bambini che calpestano formiche, una libellula colpita da una bicicletta, un vermino o una ranocchia in un punto pericoloso della strada. Basta fermarsi un attimo, riprendere i bambini, usare le pagine di un libro e mettere la creatura in salvo. La lotta all’indifferenza, l’ho imparato, parte anche da qui.

   L’ho capito col tempo che i sentimenti migliori richiedono esercizio, devono diventare abitudine, esattamente come pulirsi la bocca dopo aver mangiato o mettere una mano sulla bocca quando si sbadiglia. Ci si educa anche dopo che l’educazione la si è ricevuta. Si inizia a scegliersi, a limarsi. Migaku 磨くsi dice in giapponese. Ed è esattamente come la nostra lima. Non sono forbici ma dettagli da smussare.

   Così per due anni, iperprotettiva nei confronti di me stessa, quasi rassicurata dal modello alla mia mente più prevedibile – ovvero quello delle suocere che vessano le nuore – la tenni lontana.
E invece ho scoperto in questi anni una generazione di donne che a loro volta hanno sofferto della prepotenza delle “madri” e sono d’una dolcezza che muove quasi compassione.
L’albero nelle radici ha la fatica del germoglio.

 Di lei è l’attaccatura dei capelli che parte da dietro. Ha mani grassoccie, dita rotondette. Si muove goffamente, come una bambina. Quando pronuncia alcune parole è più delicata, come se succhiasse l’aria da una cannuccia. Le labbra minute di un neonato. E’ piena d’amore per i bimbi. Temeva per troppo amore i cani, perchè ha paura di soffrire e dice che una creatura che è destinata a morire prima di lei è una sofferenza assicurata. Ma poi ha incontrato la Gigia e le cose cambiano per tutti.

   Lei è la donna orso, kuma-onna, perchè Ryosuke una volta era il mio orso e lei, per una naturale associazione, è diventata la donna-orso. Non gliel’ho mai detto, perchè non vorrei leggesse errori in qualcosa che è perfetto. Ha la formalità confuciana delle donne della Prefettura di Oita, che sono naturalmente portate a vivere l’uomo come il padrone di casa. Morale ferrea che esercita su se stessa e mai sugli altri.

   Una suocera che per me è a tutti gli effetti una madre. E non c’è cosa che non le sappia confessare. Anzi, le rare volte che litigo con Ryosuke, è lei l’unica con cui posso parlare. La chiamo e mi abbraccia nella voce. Perchè per me Ryosuke è intoccabile e non voglio che qualcuno che lo conosce meno di me possa pensare che ciò che dico intacchi il mio giudizio su di lui. L’amore in me, ora che sono donna, supera in profondità la certezza che io nutro nei confronti di me stessa. Ma voglio anche sentirmi capita e consolata e solo lei è nella posizione di poter dare addosso a Ryosuke senza che io prenda la sua posizione come un’offesa nei confronti del mio uomo.

   Mi capita di chiamarla solo per sentire la sua voce. Quando ho bisogno di un abbraccio, di una coccola da niente. Mi chiede, vuole sapere, non si nega mai. Porta sempre frutta in grossi sacchi perchè sa che noi ne compriamo poca per via del costo eccessivo. Porta gli integratori a mucchi a Ryosuke, lo shampoo che usiamo da sempre, dolcini, cibo per la Gigia, tradizioni del Giappone che uomini e donne della sua generazione custodiscono nei gesti.

   Non abbiamo spazio in casa e tutto ciò che porta risulta sempre troppo. Gli spazi limitati del Giappone mi hanno educata alla parsimonia. Le cose sono belle da vedere e, se mi piacciono tanto ma stanno decisamente meglio nel negozio, mi limito – dove posso – a fotografarle.
Ma lei aggiunge ed io capisco che è come me, che l’entusiasmo supera in lei la razionalità.

   Ed ora, quando Ryosuke se la prende con lei per il suo sbagliare, io mi arrabbio con lui e scherzosamente lo riprendo:

「わたしの母の悪口を言わないで!」
“Non parlare male di mia mamma”

♪ 小沢健二 「いちょう並木のセレナーデ」