Kata o della forma

“Fai il tuo lavoro, e poi fai un passo indietro. L’unica strada per la serenità”
Lao Tsu

 

 Così come si dice che ci sia un posto per ogni cosa, c’è per ogni cosa anche una forma.

  Per me, che devo alla forma della lingua giapponese il virare poderoso della mia esistenza verso oriente, essa è tutt’altro che un dettaglio.
Ricordo quella prima lunghissima impressione che mi fece la liquidità dell’hiragana, il tratto serpentino che accompagna i libri dei bambini e, cavalcando i kanji, ne spiega anche la lettura, perché si possa infine pronunciare quel grumo di fonetica ignoranza; i kanji come favole fulminee, come haiku di un senso che a spiegarlo a parole si farebbe assai più lungo e faticoso; il katakana come la squadrata accentuazione di cosa è e cosa non è originariamente giapponese, di una onomatopea che denuda la parola di tutto quanto non sia pura sonorità.

 Il problema dello scrivere, del disimparare la propria lingua è molto attuale in Italia, qualcosa che i social network hanno evidenziato spalancando immensi spazi dove si riversa una comunicazione che è spesso assai informale, poco controllata.
Ho sempre pensato che la scrittura sul web sia fin troppo disinvolta, che si disperdano parole come scarti di sè e non come ciò che invece è, ovvero una propria emanazione, la manifestazione ferma di ciò che si è.
 Le parole sono pietre. E restano, proprio come dicevano i latini, ed oltretutto questo vale non solo per quanto di spiacevole si possa dire nei confronti di qualcuno, bensì anche per quell’orma che lasciamo negli occhi di chi legge.

Il Giappone per molti versi ha il medesimo problema, seppure declinato nelle modalità specifiche che propone questa lingua. I giovani si divincolano dalla complessità dei kanji e spesso affidano all’hiragana e soprattutto al katakana il suono e non la forma. Non tutti ricordano la successione esatta dei tratti.

L’occhio salta l’ostacolo del suono ed affronta il suo significato e il giapponese, che è lingua di contesti, si presta a questi slalom. Del resto, un medesimo suono, una coppia di sillabe appena, può dar luogo a una manciata di sensi differenti. Basterebbe usare l’occhio e non l’orecchio per capire che /sendan/ 船団è la “flotta” e non 「専断」, 「栴檀」 o 「剪断」 che si pronunciano tutte allo stesso modo ma hanno significati del tutto diversi, così come /iji/ 「維持」 è “la conservazione, la preservazione, la manutenzione” e non “l’orfano”, “il carattere” o una “questione di natura medica”.

Ed è così che il giapponese scritto si fa notevolmente più complesso del parlato in cui i suoni si mescolano ed è il contesto a decidere tutto. La naturalezza della conversazione giapponese, infatti, richiede una gamma di termini assai più limitata di quanto non ci si aspetti. E quando invece si parla molto formalmente, pare di dialogare in un’altra lingua ancora.

 Ci vuole particolare cura, ci vuole attenzione alla forma.

Ma il concetto di forma, /kata/ non tocca solo la lingua.

È la forma, che ogni cosa determina e gestisce, il recinto entro cui si posano gesti e parole in questa cultura che gelida non è, se non in un paragone che nessuna cultura riuscirebbe a sostenere, e che di certo non meriterebbe.
Nella cultura giapponese ogni「場」 /ba/ ogni “luogo” ha la sua「型」/kata/ “forma”. Ma i luoghi possono metaforicamente sciogliersi fino ad abbracciare ogni situazione, ogni contesto. Così, per ogni tempo della vita esiste una gamma di gesti e di parole, un codice di comportamento che fa sì che non si commettano errori. È la cautela di questa cultura millenaria, che tende a ponderare prima di agire, a valutare attentamente ogni passo prima di allungarlo sulla strada.
 L’improvvisazione non premia in certi casi. E la spontaneità è la scusa dietro cui, non sempre ma un ragionevole numero di volte, si nasconde l’insensibile, il pigro, colui che preferisce solamente buttar fuori.

 Tendenzialmente il giapponese preferisce andare sul sicuro o, perlomeno, sull’altamente probabile, il che gli garantisce di evitarsi quell’andare a tentoni che si definisce 「試行錯誤」 /shikōsakugo/. Sbagliare non è da condannare, a meno che quell’errore non fosse facilmente evitabile con un po’ di pazienza e seguendo il codice di comportamento che la situazione in questione di regola avrebbe richiesto.

 Me lo ripeto spesso quando sto per fare qualcosa, per dire una parola, per prendere una decisione. Che serve ponderare, non essere impulsiva e tutto quanto è necessario a comporre il risultato cui anelo, come pezzi di un puzzle, si nutre di tempo e non di fretta.
Non per nulla il concetto di 「型」/kata/ è fondamentale nelle arti marziali, nelle discipline tradizionali, in ogni cerimoniale. Solo dopo averlo appreso così bene da assorbirlo nell’automatismo, sarà possibile spezzarlo, ed è lì che nascerà l’originalità, la più alta creatività.
La bellezza, la perfezione così come la più apprezzata imperfezione, nascono da lì. Da un gesto dopo l’altro, che prepara corpo e mente, a quello che ci attende.

 Sono regole da far proprie, riti di passaggio applicabili ad ogni situazione della vita, all’inizio di un amore, di un’amicizia, alla ripresa del lavoro, all’avviarsi di un progetto lavorativo o personale, anche ad un mero giorno di vacanza che per dirsi tale richiede una serie di fasi.
 La chiave sta nell’individuarle e nel frenare l’impazienza che ci vorrebbe far saltare subito al risultato, alla fine.

 Ed una volta che si è fatto tutto quello che il /kata/ richiede, il lavoro fisico, emotivo e professionale che ci riesce, dopo averlo eventualmente rotto sprigionando un nuovo risultato, serve allora fermarsi ed aspettare. Semplicemente.