estate

「様子を見ましょう」 o delle certezze

DSC01146L’estate arriva vociando, stretta nelle divise corte dei bambini, con i loro cappellini gialli e le ginocchia che sbocciano – graffiate spesso di nuove esperienze – dai pantaloni corti, dalle gonnelline a sbalzi. Giunge alzando le braccia e stendendo gli indici all’orizzonte, nelle scolaresche che in questo periodo dell’anno sono tutte impegnate nei 「修学旅行」/shūgakuryokō/ ovvero le gite di fine anno. Mentre il paesaggio si riempie dell’infiorescenza globosa delle ortensie, della pioggia che picchietta sui loro capi pesanti sostenuti nel rosa, blu e violetto da gambi affidabili e robusti, l’estate si sfrega le mani preparando i cori di cicale. Manca poco.

Arriva con i sandali ai piedi e involuzioni capricciose di freddo e di caldo che raccontano l’indecisione recente di ogni stagione. Fuochi d’artificio che si schiudono in cielo come fiori scarlatti dalle lunghe code di manjushage (Lycoris radiata o Gigno Ragno Rosso) e chiacchiericcio che s’attarda fuori dalla stazione, oltre l’uscio di casa. Ragazzini che nel lungo tramonto si tirano un pallone, un padre ed un figlio che si scoprono amici in una palla da baseball e in un guantone.

 Mi preparo alle conferenze estive che mi porteranno in Hokkaido, poi a Londra, infine a Kobe. Non penso ai vestiti, ma alle parole. Alla negoziazione costante del significato che salta da una lingua a un’altra e tenta di dire quasi la stessa cosa, lasciandomi addosso in egual misura piacere e frustrazione. Non avrò più la Gigia tra le mani ma sarà costante lì, a pascolarmi gioiosa nel cuore; Sousuke sarà nel mio abbraccio anche quando ci troveremo in due paesi separati da un mare e migliaia di chilometri di terra, così accadrà anche con Ryosuke che ultimamente mi manca anche quando siamo l’uno accanto all’altra.

DSC01124Solo un mese scarso alla fine del semestre, s’affrettano i preparativi degli esami.

È l’estate, il battito di ciglia tra primavera e autunno.

「様子を見る」 /yōsu wo miru/;「様子を見ましょう」 /yōsu wo mimashō / è il nostro “stare a vedere”, “vediamo come si evolve la situazione”, “vediamo un po’ come vanno le cose”, “vediamo…”.

Si usa con una frequenza tale, ed in contesti tanto ampi, da sembrarmi espressione capace di decifrare quel senso di fatalità partecipe di cui è fatta in buona parte l’attesa giapponese.

Lo si pronuncia spesso sul ciglio di una strada che nel mezzo si interrompe. Dal dottore, per esempio, di fronte ad una diagnosi che non può che essere imprecisa (perchè mancano dati, perchè ogni corpo si rivela differente), o quando si espone un problema che ci assilla e l’altro (dal caro amico al cameriere che ci mette in lista d’attesa per l’ingresso a un ristorante) cerca di fornirci una soluzione momentanea. Quando non si può prevedere quello che accadrà, ci si ferma e si resta a guardare.

DSC01162I giapponesi del resto non danno mai certezze. Preferiscono rimanere in bilico su un filo, tenendoti per mano se serve, ma senza sbilanciarsi. Difficilmente di fronte ad una domanda complicata (soprattutto se richiede un investimento di tempo o di denaro, l’aspettativa di qualcuno, un seppur minimo rischio di deludere, di non riuscire, di non poter far fronte ad eventuali complicazioni di salute) un giapponese risponderà subito di sì, che esaudirti è in suo potere. Questa consapevolezza a volte estrema dei problemi, mi rilassa incredibilmente.

Non riceverò promesse false, nessuno verrà a sbandierarmi i suoi poteri, facili “sì” che dovrà poi puntualmente ritrattare o, peggio, impormi sotto forma di conseguenze successive.

Più frequentemente mi sarà detto di no e allora andrò a cercare altrove o resteremo invece tutti, pazientemente, a guardare che succede. Perchè spesso dopo un no, sboccia un prodigioso sì.

「様子を見て決めましょう」/yōsu wo mite, kimemashō/

Personalmente, per carattere e principio tendo a dire sempre sì ma poi, faticosamente e pungolata dai sensi di colpa, devo spesso ritrattare l’entusiasmo, riformulare i confini delle mie possibilità.

DSC01117Se questo mio sopravvalutarmi mi aiuta a fissar scadenze di scrittura, a prendere impegni per conferenze e tendenzialmente a rispettare i tempi di consegna, sul piano privato non è ugualmente vantaggioso. È doloroso scoprirsi insufficienti, e dispiace non essere all’altezza.

Eppure l’errore non sta nel negarsi – che è anzi diritto sacrosanto ed esercitato fin troppo poco se si vuol arrivare a qualcosa di grande nella vita – ma nell’iniziale, leggero, dire sì. Valutarsi esattamente per quello che si è, senza cadere nell’eccesso o nel difetto, senza sopravvalutarsi o sottovalutarsi, è sapienza che forse l’età e la saggezza porteranno.

Per ora, cercando come sempre di ricavare il meglio dall’esperienza di vivere nel mezzo di questa cultura d’oriente, tra questa gente mite e rispettosa, mi dico di fare tutto senza fretta, di non saltare a conclusioni (spesso errate), di non precipitarmi a fare qualcosa di avventato, nè di promettere quanto non son certa di poter dare, che sia tempo, parola, incontro od altro ancora.

DSC01080Lentamente, tutto giungerà.

Girasoli nel bel mezzo di Tokyo, cicale e Ponyo alla tv

  Girasoli, nel bel mezzo della capitale giapponese.
L’estate è tante cose in questo paese e Tokyo, benchè sia la metropoli più grande del mondo, conserva nella trama complessa delle sue strade aspetti che hanno più della campagna che della città.
E’ questo che, a mio parere, la rende tanto “vivibile”. Il fatto che non sia una ma tante.

  E così, a poca distanza da Shibuya, tra le strade del particolarissimo quartiere di Daikanyama, spuntano girasoli ai lati delle strade e rovesciano la loro corolla sui volti dei passanti. Tutto ciò con un fitto sottofondo di cicale che bucano il terreno per venire fuori e, qui e là nei parchi e nelle aiuole, si notano i fori che custodivano le larve.

  Di cicale se ne vedono già molte a terra, cibo di formiche, ali spesse e corpo fisso nel rigor mortis. Mi capita di raccoglierne sull’asfalto delle strade per posarle in un luogo più accogliente. Sotto l’ombra di un albero, ai piedi di un grasso girasole.
Ci credereste mai che Tokyo e’ anche questa?

  E poi, in questo scatto del 16 agosto, giorno di un compleanno fuori programma, fortuna volle che entrasse pure una piccola ape in cerca di cibo.
Fuori dalla cornice della prima foto, a sinistra, passavano donne con i loro parasoli e, sulla destra in fondo, già si intravedeva la splendida custodia di libri che ci avrebbe ospitato nelle ore più calde del pomeriggio.

  Questa sera danno Ponyo in televisione e, come mi capita spesso di pensare, vi sono infinite piccole ragioni per le quali amo vivere qui. Come i girasoli estivi per le strade di Tokyo, il canto delle cicale che anima l’intera capitale e i film di Miyazaki Hayao che vengono trasmessi alla tv in un caldo venerdì sera d’agosto.

Agosto Monogatari 「八月物語」

  L’ultimo giorno del mese è, per sua natura, portatore di bilanci. Quanti libri ho letto? Quante pagine ho scritto? Quanti piatti nuovi ho cucinato? Quante parole nuove ho imparato? Quanti luoghi ho visitato? Quante volte ho visto i miei amici?

  Nulla è così fiscale, invero non li conto. Forse perchè credo in una matematica tutta personale. Tranne i primi – i libri – che catalogo e riassumo, perchè determinano l’andamento dei miei studi.

“Ma studi ancora giapponese?”

  Il giapponese non ha fondo. E’ come la borsa di Mary Poppins e basta infilarvi dentro due dita per tirarvi fuori una parola che non si conosce. E per quante volte vi si immerga la mano si riemergerà sempre con un termine dal suono magari simile ad altri ma portatore di significati differenti.

  Le parole per loro natura sfuggono, sono ricoperte d’olio e grasso e non si fanno “acchiappare”. Questa lingua poi cela il suo infinito fascino proprio nella complessità della sua forma, dipanata in tre diversi tipi di scrittura, e nella sua illimitatezza.
Cambia con gli anni il modo di studiarlo – non più sui libri di testo ma leggendo libri e saggi – ma non si può sperare in alcun modo di “consumarlo” tutto.

  Mi sveglio tardi questi giorni. Tutte le università hanno concluso il calendario accademico, i ragazzi hanno svolto gli esami e – secondo un principio didattico nel quale credo profondamente – hanno mischiato tensione a divertimento. Nei fogli di commento che chiedo loro di scrivere a fine semestre trovo grafie, aggiunte, valutazioni del corso e persino pareri sul mio modo di vestire.
E’ curioso ma dopo le prime lezioni noto che molti di loro vengono a lezione vestiti un po’ più curati, un filo di trucco, un’acconciatura diversa, un accessorio che spicca. E spesso mi chiedono un parere: “Sensei, le piace? Cosa ne pensa? Mi sta bene?”.

  La bellezza di insegnare all’università è veder crescere i ragazzi, notare negli anni i loro cambiamenti.

  Chi mi dice che aveva paura del contatto con gli altri ma grazie alla lezione – durante la quale, per facilitare la comunicazione e lo stringere di nuove amicizie, faccio loro cambiare più volte posto – hanno superato il timore. Chi mi dice che è un piacere, che l’Italia ce l’ha nel cuore. Che vorrebbe viaggiare. Perchè la maggior parte di questi ragazzi non ha mai visto l’Europa.

  E poi, secondo una caratteristica tutta giapponese, alcuni ti scrivono a fine semestre anche letterine che riempiono di disegnini e faccine. Ringraziamenti a suon di ありがとうございました e 後期もよろしくお願いします.

  Così le vacanze d’estate sono iniziate e molti di loro torneranno per la festa dell’o-bon a casa, nei differenti frammenti di Giappone di cui sono originari. Io resterò a Tokyo quest’anno. Mi godo il canto delle cicale che urlano indecifrabili, struggenti sentimenti e lo spirito febbrile delle olimpiadi londinesi che arrivano in Giappone a suon di judo, calcio, nuoto. Con Ryosuke pero’ faremo gite e gia’non vedo l’ora.

  Vi saranno a giorni le strazianti commemorazioni per le vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e, come ogni anno, mi chiederò come hanno fatto i giapponesi a perdonare gli americani e come fa il mondo a non sospettare di un popolo che pretende lo smantellamento degli ordigni nucleari quando è l’unico ad averne mai fatto uso*.

“Dopo la guerra eravamo terrorizzati dall’occupazione, dalle ritorsioni degli americani. Ma furono così gentili nei nostri confronti. Provammo solo riconoscenza”

  Così anni fa mi spiego’ un’anziana signora giapponese quando le chiesi il perchè. Lei era lì e ci sono cose che io non potrò mai capire. E sono grata a questo tempo che è ragione della mia ignoranza.

(*mia personalissima e non necessariamente condivisibile opinione, si capisce.)

Di un furin che è un’anguria, delle kompeito e di Okinawa

   L’estate in questo paese arriva tardi. La precede e vi si mischia la stagione delle piogge che rovescia senza esatta previsione il suo scontento sull’arcipelago del Sol Levante. Il nostro primo furin, mio e di Ryosuke, suggerisce nella sua artigiale fantasia la frutta più allegra dell’anno. E’ il colore della buccia spessa dell’anguria, il verde e nero della campanella di vetro, e il rosso a macchioline nere della polpa del frutto e dei suoi semini.
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L’avevamo visto nella vetrina di un negozietto di Kichijoji la scorsa estate ma, nel rimandare di volta in volta l’acquisto, quando entrammo e chiedemmo di quel particolare furin, la commessa ci spiegò che era esaurito. Così, quando quest’anno l’ho ritrovato nuovamente in vetrina ad agitarsi insieme ad altri tre furin ho atteso solo il weekend e intrecciate le dita di Ryosuke siamo entrati insieme nel negozio.
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Ed ora sventola ad ogni colpo di vento dell’estate che promette.
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  Assomiglia al rumore croccante e delizioso di minuscole kompeito, le antiche caramelle colorate giapponesi che sanno di niente, che sbattono tra lingua e denti. Ne abbiamo ricevute in regalo come piccola bomboniera al matrimonio di N-kun qualche settimana fa.  
  Ryosuke se ne mette una manciata in bocca, avvicino l’orecchio alla sua guancia e il suono si spezza in frammenti di risa. Assomiglia al tintinnare del furin. Sì, le kompeito e la campanella di vetro.
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  Inizia stasera un lungo weekend. Un 「三連休」sanrenkyu, ovvero un ponte di tre giorni che il lunedì regalerà. Sara’ il “giorno del mare” 「海の日」e immaginarie onde ci porteranno un giorno di vacanza. 
  E a dire mare ripenso alle vacanze da bambina e poi da ragazza in luoghi italici che ora, per la prima volta nella sua vita, la mia nipotina Livia frequenta. 
  Ma mi tornano addosso anche i profumi e i colori di quella terra meravigliosa agganciata al sud-ovest del Giappone, Okinawa di cui il cibo e la musica più d’ogni altra cosa mi affascinano. 
  Durante il nostro viaggio tre anni fa assistemmo dal vivo ad un concerto di queste due splendide ragazze (Tink Tink) di cui inserisco sotto uno dei pochi filmati disponibili in rete. Il suono particolarissimo degli strumenti, la loro unica vocalità riescono a mettermi sempre addosso il buonumore.
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  Gli yukata, l’anguria, i furin, i temporali improvvisi, l’anguilla, i pomodori, i matsuri, i fuochi d’artificio, l’umidità, i fazzoletti che asciugano la fronte, alcuni piatti deliziosi, le tante libellule che si librano nell’aria. 
  E’ questa l’estate giapponese e nonostante l’aria così piena d’umidità che a volte sembra di star respirando acqua, io la trovo incantevole. 
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Delizie dell’estate

L’estate tokyota, sebbene afosa e forse difficile da amare per chiunque non vi sia abituato, io l’attendo con ansia ogni anno.
Delle tante delizie, giusto tre.

Farfalle enormi, colpo d’occhio nell’estate giapponese.
Nere, bianche, con le ali frastagliate di altri colori.
E’ un volo che appare più pesante e occupa porzioni d’aria a cui un insetto di “normali” dimensioni non potrebbe mai aspirare.

Poi ci sono i 風鈴 (furin), che tintinnano nel vento come monetine tra le dita, come un leca lecca tra le labbra di un bambino o il cucchiaino che ingordo sbatte sul piattino.
E’, per me, il suono acuto delle cose belle e contingenti.

E infine c’è il fischietto del venditore di tofu che in bicicletta percorre le stradine di quartiere. C’e’ tutto l’anno in verita’ ma solo in estate mi soffermo ad ascoltarlo.

In questa zona e’ un uomo di mezz’età con il volto deformato da una qualche malattia o malformazione congenita . Non l’ho mai fotografato per pudore, perchè temo possa fraintendere la mia curiosità che e’ invece diretta ad una figura professionale che, semplicemente, in Italia non esiste.

E quando torno a casa dal lavoro, macinando brevi o lunghe distanze in bicicletta, sento quel filare di suoni – anzi un filare unico e continuo per vari secondi – e apro il portone del palazzo più contenta.