festa della neve

Sapporo o della neve in festa

È un’ambasciata di pace questo giorno che inizia tardi con un forte mal di schiena ma poi nel suo completo vuoto di intenzioni finisce per nutrire. È l’assenza di impegni e la libertà che trasuda un simile progetto.

Mi sveglio tra lenzuola che non sono le mie, in una camera d’albergo a Sapporo, con una inedita gioia addosso. Avevo dimenticato la sensazione che si prova ad essere in viaggio, della vacanza che non richiede gesti. La sveglia non suona, nessuno deve mangiare, l’immondizia non va buttata, l’orologio non detta i minuti, il treno non aspetta e non parte, il giorno non muore.
Dopo settimane frenetiche è come rinascere in un letto.

Sono i giorni giusti per essere a Sapporo in inverno. È il sei di febbraio e il Festival della Neve 「 雪まつり」 è appena iniziato. È un evento che chiama turisti da tutto il mondo, ammalia di neve e ghiaccio gli sguardi ed è tutto un fotografare. Le sculture sono immense, piani di palazzi e la sera s’illuminano delle sfumature del giallo e del blu.
Un viaggio nella leggenda di Ise; il palazzo imperiale tailandese; mascotte di provincia e personaggi di fantasia come Totoro o Kumamon. Si tiene nell’Ōdōri kōen 「大通公園」, un parco lungo e sottile che si raggiunge in pochi minuti dalla stazione.

Oltre alle sculture che si ergono imponenti al centro e ai corridoi laterali in cui camminano lenti i visitatori, vi sono decine di negozietti di cibarie da gustare sul posto, in piedi, con la fame ingorda e superflua del turista. Poliziotti gestiscono il traffico indirizzando la folla da un lato all’altro delle strade che spezzano il parco in due grossi blocchi.

 L’Ōdōri kōen, letteralmente “il parco del grande viale”, è stato costruito nel bel mezzo della città per fugare il pericolo di incendi di enorme portata, di quelli che spazzano via quartieri interi, di quelli che i giapponesi temono più di ogni altra cosa. Lo spazio spezza il fuoco, il vuoto ne placa il furore.
Per molti dei gesti umani vi è una spiegazione: cercarla è ogni volta motivo di fascino e di scoperta.

 Sapporo viaggia in sotterranea lungo la rete di gallerie che collegano la stazione alle strade antistanti, così da evitare la neve che si fa aggressiva, una tormenta, tanto da chiudere occhi ed ombrelli.
Sono stradoni che corrono dritti, senza incertezze, ma il passo dell’uomo è a singhiozzo. È colpa dei tanti semafori che scattano a una velocità che non è facile sincronizzare con il proprio procedere. E fermarsi a zero gradi o anche meno ad un angolo di strada non può rilassare.

 Sapporo è anche la città il cui suolo è inciso dai binari dei tram, vagoni decorati come ogni cosa in questo paese fantasioso. Uno ha stampati sopra disegni fumettosi, un altro ha fanali come occhi, sopracciglia ed orecchie: è un cagnetto, un wan-chan ワンちゃん, che scivola tra un tempio e una galleria coperta lungo un vialone poco alberato.

Così al groviglio di pali della luce che sono trademark del Giappone di oggi vi si aggiungono, in mezzo alla via e sospesi nel vuoto, altri fili cui s’appende febbricitante l’elettricità dei tram.

Lunghi viali di insegne che – letteralmente – insegnano come le grandi città giapponesi vivano non solo dell’orizzonte ma anche della perpendicolare verticale, intersezione di rette. Cartelli di ristoranti, lavanderie, agenzie di viaggi, parrucchieri, juku, cartolerie. Eccetera, eccetera, eccetera. Tutto compatto, dal basso all’alto a sfruttare ogni briciola di spazio.

È un viaggio che organizziamo all’improvviso per riparare la mancata partenza per l’India. Ma l’Hokkaido non è mai un ripiego per noi che tanto lo amiamo, come un’appendice costante dei nostri desideri.

(fine prima parte)


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