maternità

Due sovrani in ascolto

Sousuke bussa alla pancia, come gli ho insegnato a fare alla porta. Fai “toc toc”, suggerisco e lui scioglie le nocche sul legno, sventaglia aperture e chiusure dell’universo che è la nostra piccola casa.

Vi abitiamo da un anno e quasi una metà, dopo l’ennesimo trasloco cui si pensa a ragione destini l’esser stranieri ma cui forse, più semplicemente, conduce l’essere in quel trancio di vita – i trent’anni – che esige cambiamenti per significare davvero.

Un bambino di due anni che si accosta con l’orecchio, in ascolto. È il gorgoglio dell’esistenza che non capisce, è il re del palazzo de Il sole giaguaro di Calvino, è il sovrano in ascolto. Ma come quel palazzo regale, anche le mura della pancia hanno orecchi per sentire, e reagiscono alla voce disordinata del piccino, che non la sa dosare. Alla fine la maturità – se così si può dire – è questione proprio di quantità, di dosaggi e quanto basta (q.b.), come nel sottile rettangolo della nostra cucina accade.

Mio figlio chiama per nome l’altro mio figlio, suo fratello. È senza sapere, emulando semplicemente il suono delle tante vocali che comporranno il suo nuovo nome. Il padre già s’avventura da mesi nel diminutivo, che in fondo gli spetta, essendo l’essere umano più minuto della casa.

Sono due sovrani in ascolto, di cui fungo a divisorio, a parete, il padre a cassa di risonanza, la casa a ennesimo contenitore. Siamo tutti in ascolto, siamo tutti in attesa di un diverso confronto.

Sono diventata madre a trentatrè anni, in un paese in cui neppure mi aspettavo da ragazza di viaggiare. Talvolta apro gli occhi, fingo d’essere ignara di tutto quanto mi precede, e allora lo stupore della vita che mi si è sviluppata intorno come un bosco klimtiano, è grande. A partire dalla scrittura che tempesta i libri che s’ergono in torri dal pavimento e superano il limite del comodino, e raccontano che la pluralità è nel segno, che di parole è fatto tutto il giorno e la mia notte.

Poi c’è questo corpo nuovamente sformato, che ha la bellezza solo nel significato, ma soffre d’una violenza che la natura impone. Ogni pezzetto mi duole, ogni specchio mi confonde e sono risucchiata dal riflesso delle vetrine, di cui non noto neppure la merce in esposizione.

Si celebra nel discorso la gravidanza come qualcosa di meraviglioso. E lo è. Ma nella radice latina del nome, che traslato dal mirabile è il mirāri ovvero il ‘guardare con meraviglia”, come qualcosa che evoca insieme ammirazione ed orrore, nel letterario che desta straordinarietà, allontanamento dall’ordinario che rassicura perché conosciuto e riconosciuto come tale.

E’ il soprannaturale, il diabolico, la malia della trasformazione. Della creazione, dell’espulsione che è violenza, un divorzio accordato eppure straziante fino al momento della conclusione perfetta.

Il primo libro che lessi di Ogawa Yōko in giapponese fu 『薬指の標本』 L’anulare, il secondo 『妊娠カレンダー』 Diario di una gravidanza che, più letteralmente, va tradotto come “Diario della gravidanza”, perché si tratta di una dicitura cui è familiare chiunque frequenti un ospedale o una clinica. Si tratta in fondo solo del titolo che capeggia su un foglio che illustra alla futura madre le fasi del processo cui è e continuerà ad esser soggetta per i mesi a venire.

In quell’esilissimo libro, vincitore del Premio Akutagawa nel 1990, è la meraviglia in negativo che emerge, l’occhio della sorella minore che spolpa comportamenti della sorella maggiore, in un’attesa che non è dolce, né placida né gioiosa, come nello stereotipo comune è tacitamente imposto .

Ed io, che madre lo sono diventata con immensa fatica, con intrusioni violente che mi hanno aperto ad una geografia del corpo di cui prima di allora tutto ignoravo, che nel desiderio ho scoperto con Ryosuke il mondo dell’adozione – non ancora attuata, per le gravidanze sopraggiunte, ma rimandata ad anni a venire che ci troveranno tutti più grandi, compresi i bambini, ed attrezzati a ricevere il dono d’un altro figlio – non nego l’orrore, la confusione, l’attesa smaniosa che il bambino nasca, per potermi riappropriare dei confini delle gambe, del ventre che partito da poco più di sessanta centimetri, ormai s’avvicina al metro di circonferenza. Per non temere il cibo, per fare le scale, per dormire col viso schiacciato sul cuscino, rovesciata verso il basso, come ho sempre amato fare, quasi spiegando nel sonno invisibili ali.

Tutto vale la pena, perché la pena si rimuove. La mente dell’uomo in questo è benedetta, nel meccanismo difettoso e impreciso che pretende costante richiamo per ritornare su cose che si sono patite in passato.

Mi attendo, come un dono, il ritorno di me stessa. Mi aspetto clemenza. Vera dimenticanza.

 

Ogni gesto

DSC01070Iniziano le danze delle febbri, tutti a ballare intorno al fuoco dei trentotto e trentanove. Mi si chiede l’ora in cui qualcosa accade, “A che ora gli ha misurato la temperatura? A che ora ha mangiato il bambino?”. Ed io resto sbalordita dalla mia inconsapevolezza. È stata la sera o la mattina? Era ieri o è stato oggi? La linea che demarca il giorno e lo distingue dalla notte sfuma in una sequenza singhiozzante di numeri: le 21, le 23, l’1, le 3 e 30, le 4 e 40. Delle mezzore o delle rare ore in cui si cala infine nel silenzio e poi nel sonno.

È difficile fare la madre, non lo sapevo. È difficilissimo conciliare le notti, tutte ristrette come panni in lavatrici settate malamente, con le sveglie all’alba, talvolta anche prima delle cinque, solo per scrivere un po’, per studiare, per prendere dei treni e andare ad insegnare. Hanno maniche corte le mie notti, sono lenzuola che coprono solo le ginocchia.

Prima guardavo le donne con i piccini attaccati al collo, magari sedute ad un caffè, rincorrendoli attraverso strettoie di tavoli e labirinti di sedie, cercando talvolta di tirarli in piedi quando quelli – indifferente ed allegri – si spalmavano a terra, sul pavimento del locale. Ne invidiavo la leggerezza, il tempo in abbondanza.

DSC01092Adesso invece ne immagino il profilo notturno, la fatica, alle prese con sveglie improvvise, con termometri che segnano anche 40 e che in un momento azzerano la percezione del tempo, il domandarsi perenne “ma come si fa in questi casi? esattamente cosa devo fare adesso?”.

Non ho mai amato “le madri di tutti”, quel tipo di donne che ostentano la maternità come brandissero un trofeo, che suggeriscono che tra le infinite ve ne sia una giusta e che, guardacaso, quella sia proprio la loro. I bambini sono tutti diversi, ripete la gente. Ebbene, se è per questo, lo sono anche le madri. E se l’obiettivo è uno – crescere bene i propri figli – i modi di attuare questo piano sono tanti.

DSC01094Forse è merito dell’intrenseco garbo dell’arte giapponese della conversazione – che fa sì da valorizzare il bello e lasciar da parte il brutto, che perennemente cerca un motivo di lode da mettere avanti, che ponga l’altro, i suoi discorsi, nel bel mezzo – forse invece è perchè scelgo con cura persone ed ambienti, o perchè più banalmente sono fortunata negli incontri, ma non mi è ancora capitato di imbattermi in locali esemplari di “madri di tutti”.

Mi guardo intorno, cerco piuttosto di capire come qui vengono cresciuti i bambini, come combinare il meglio del mio essere italiana a quello dell’esser diventata adulta tra giapponesi.

DSC01178Piangono i bimbi, fanno anche i capricci, ma qui avverto una sorta di calma diffusa nelle madri, qualcosa che mi lascia stupita, intimamente ammirata. Non si fanno tirare dentro l’isteria, aspettano che si calmino da soli, non sembrano aver fretta di metterli a tacere.

Si vergognano senz’altro, vorrebbero che facessero silenzio, ma restano vicini ai piccolini senza alzar le mani o senza gridare loro contro. Quando poi scatta l’arrendevolezza e il pianto di stanchezza, li abbracciano o li accarezzano, e lì finisce tutto.

DSC01132Eppure è proprio in quella silenziosa, spesso dolce resistenza, che li si sta educando. Sopportando anche che, intorno a loro, si pensi l’esatto contrario. Si cede spesso all’imbarazzo e allora si alza la voce, si grida. Ma non è mai per parlare al bimbo, bensì per dimostrare a tutti gli altri che li si sta educando, che si sta facendo il proprio lavoro. Una trappola in cui dovrò fare molta attenzione a non cadere.

Ricordo d’averlo pensato anni fa, notando la cura dello spazio pubblico. Che si imita naturalmente tutto quanto ci circonda, inconsapevolmente ci si adegua. È tanto più difficile buttare una cartaccia dove è tutto pulito piuttosto che farlo dove è sporco. Tutto sta allora nel circondarsi di quanto sappia migliorarci, che ci spinga a dare il meglio di noi.

Frequenta chi è meglio di te. Me lo ripeto da anni come un mantra. E “meglio” non significa necessariamente più colto o raffinato. Migliore in quanto a gentilezza, per esempio, o per il modo che ha qualcuno di reagire alla delusione. Ogni persona ha un dono.

Bisognerebbe ricordarlo, quanto ogni nostro gesto sia d’esempio a qualcun altro e quanto serva a mantenere o rompere equilibri. Imitare e creare con le proprie azioni un ambiente in cui sarà naturale agire per il meglio. È questo che vorrei riuscire a fare come madre.

「音」 o la voce delle cose

Il mondo è pieno di rumori.

DSC00599Sousuke ne gusta le varianti, sperimenta l’incontro tra le cose, il suono che producono a scontrarsi, a strusciare l’una sull’altra, a graffiarsi. Sbatte il ciuccio sui giocattoli, le manine sulle superfici (tavoli, vetrate, corpi) e stringe nel palmo tutto ciò che gli capita a tiro. Mette alla prova la consistenza delle cose, si stupisce, assorbe, impara e poi rilascia. Ogni prima cosa si esaurisce per lasciar spazio ad una seconda, ad una terza. Ad un’altra.

Con il tempo, nel linguaggio ogni cosa si andrà limitando, una gamma di colori si farà solo “azzurra” o “blu”. Il “bianco” raccoglierà nel pugno decine di toni differenti. Un suono somiglierà sempre ad un altro. Nulla starà lì solo per se stesso, vi sarà bisogno di spiegarlo e così paragonarlo, ridurlo a qualcosa che si conosce già, qualcosa di inevitabilmente diverso. La meraviglia sarà chiusa tra le quattro vocali e consonanti di una parola sola.

Cresce la sua capacità di relazionarsi al mondo e insieme diminuisce, in ogni conquista, anche la capacità di cogliere il diverso, ciò che non è compreso nel linguaggio. È la regola del nostro mondo, la condizione prima della comunicazione. Qualcosa che, nonostante la sua normalità, mi impressiona profondamente.

D’altra parte anch’io, con la nascita di Sousuke, apprendo un nuovo modo di relazionarmi all’universo quotidiano: mi guadagno il tempo col silenzio.

DSC00611Il mondo torna a stupirmi dei suoi suoni. Una bottiglia d’acqua che può rilasciarne di simili a uno scoppio, il fruscio sommesso delle vesti quando mi muovo per la stanza, il clangore delle pentole mentre cucino, lo scroscio dell’acqua nel lavandino, il cigolio d’una porta e il sibilo del vento, il semplice colpire e sfregare delle piante nude sul parquet.
Ogni rumore è un possibile nemico del sonno di mio figlio, ogni movimento può causare la fine del mio tempo privato.

È quello in cui concludo il romanzo, che cresce adulto e si evolve anch’esso come un figlio. Ed è particolarmente vero adesso, perchè questo libro – che miracolosamente è già sotto contratto prima ancora d’esser terminato – è nato qualche mese prima di scoprire d’essere incinta, ha iniziato a prender forma quando Sousuke era nella mia pancia, ha subìto una brusca deviazione quando lui è venuto al mondo, è tornato sui suoi passi dopo i primi tre mesi di vita del bambino, ed ora, con le sue metaforiche gambette, si dirige con decisione verso la fine.

DSC00676È anche quello della tesi di dottorato, che ha tardato troppo, e a dicembre passerà infine in nuove mani. Va nutrito ogni giorno di letture, di scritture. Ne intendo fare, tempo permettendo, una cosa che rimanga. Qualcosa che apra nuove strade ancora.

E in questi progetti grandi che mi gonfiano il cuore di una passione tutta personale, o anche solo nella preparazione di una cena o nella sistemazione di una stanza, il silenzio mi è alleato. Anche il gorgoglio di una pentola che bolle, il timbro mesto di una sveglia che avverte che la pasta è cotta, il gemito della spia del microonde che mi dice che il riso è scongelato, possono diventare nemici potenziali.

In giapponese 「音」 è il kanji del “suono”. Si legge /oto/ o /on/, /in/ e indica il rumore, ma si può leggere anche /ne/ ed in quel caso indica la “voce” dell’essere umano, quel suono che s’avvinghia stretto ai sentimenti.

DSC00589Così è la parola 「本音」 /honne/ che indica “la verità” la sincerità dei propri sentimenti. È il kanji di 「本当」 /hontou/ “vero”, 「本物」 /honmono/ “originale, autentico”, abbinato a quello del suono 「音」nell’accezione di /ne/, della voce intima dell’uomo.

「本音を吐く」/honne wo haku/ “rivelare il proprio sentire/ le proprie intenzioni”

「弱音を吐く」/yowane wo haku/ “ lamentarsi, dolersi, rinunciare, arrendersi”

Può essere /ne/ anche il canto di un usignolo, perchè porta rimembranze e smuove emozioni.

DSC00528Tutto ultimamente mi fa pensare ai suoni, ogni cosa torna alla sua origine uditiva. E, come sempre, nei kanji trovo anche risposta ai miei quesiti.

Ecco che cos’era questo mondo di cose che si affollavano intorno a noi, al sonno del bambino, ai nostri movimenti, ecco cos’era questa nuova attenzione ai rumori del corpo, della casa, della strada.

Era il modo che la vita aveva di confessare i propri sentimenti. Era la sua “voce”.

Spitsu, Robinson 

「思い出のマーニー」When Marnie Was There

  IMG_0001 - コピーPer prima cosa il giudizio d’un istante, quello formatosi nel momento in cui il film è finito e, trattenendo a stento il pianto, ero ancora davanti al grande schermo cinematografico, nel buio della sala accanto a Ryosuke, con intorno altri sconosciuti vestiti nell’estate, tutti a fissare i titoli di coda che, nei film dello Studio Ghibli, sono accompagnati da disegni di sfondi tratti dalla stessa pellicola. Ebbene, le parole a fior di labbra sono state: 「すごく良かった!」 “È stato bellissimo”.

In questo lungometraggio diretto da 米林宏昌Yonebayashi Hiromasa (1973 Prefettura di Ishikawa) – lo stesso regista di Arietty e membro dello Studio Ghibli dal 1996 – la sceneggiatura ha preso il via dal libro della scrittrice britannica Joan G. Robinson When Marnie Was There. Il romanzo, uscito in Gran Bretagna nel 1967 e mai tradotto in italiano, è di per sè meritevole di lettura e, come gli altri libri della stessa autrice, tratta della mancanza d’amore percepita da una giovane ragazza, del dolore che tale sentimento porta con sè.

  Il titolo rivela più di quanto non riveli la trama vera e propria fino alle ultime battute del film. La storia infatti è forte, sostiene tutto lo svolgimento a tratti spezzettato del film, si dipana lentamente suggerendo ma mai svelando nulla.

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  Essa ruota intorno al personaggio di Anna, una ragazzina che da qualche tempo è cambiata, evita la famiglia e i compagni di scuola, il suo volto si è indurito e sembra non riuscire più a percepire la gioia. La sua madre adottiva, molto ansiosa e protettiva, sia per farla guarire da violenti attacchi d’asma che talvolta la costringono a letto sia per cercare di rendere la figlia più contenta, la manda da una coppia briosa di parenti che vivono in provincia. Anna, che tendenzialmente fatica ormai ad inserirsi in ogni nuovo ambiente, ama solo la solitudine e i disegni che traccia sull’album che si porta sempre appresso. Eppure nella ridente campagna dell’Hokkaidō, dopo alcune iniziali resistenze, grazie all’affetto dei parenti che l’ospiteranno ma soprattutto grazie all’amicizia unica e segreta che stringe con una misteriosa ragazza di nome Marnie, riuscirà pian piano ad aprirsi e riacquisterà la capacità di fidarsi e la gioia di vivere.

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  In Omoide no Mānī le tematiche trattate sono tante.

  Vi è dentro la diversità, affrontata in un modo che non può lasciarmi indifferente. È l’avere in sè sangue straniero, occhi di un colore che non è di tutti gli altri, perchè gli occhi di Anna non sono neri o marroni come quelli degli altri giapponesi intorno a lei. È un senso di esclusione che, come spesso accade, non sono gli altri a percepire o “accusare”, ma proprio chi ne è portatore e che avverte la distanza dall’usuale, dallo standard, dal comune. Anna si sente diversa e ne soffre moltissimo.

  C’è poi il tema dei legami familiari, del perdono. Perchè a volte accadono cose nella vita che ci fanno comportare come non vorremmo e più è l’amore maggiori sono i danni di cui esso è capace e maggiore è anche la difficoltà di dimenticare i torti subiti e perpetuati. Tra tutti è soprattutto la spiegazione di cosa sia la maternità, di quanto essa possa avere forme diverse da quelle più semplici e comuni, perchè, come le cose più importanti in questa vita, essa non ha banalità al suo interno, e di fronte a una domanda che chieda cosa sia essere madre, come sia giusto affrontare questo ruolo, non c’è una sola risposta ma molte.

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 È poi la durezza di una vita vessata da tragedie e dispiaceri… una vita che, nonostante tutto, la si ama e durante la quale non si smette mai di cercare di essere felici. Questa insistenza nella gioia, nell’amore che non sempre è corrisposto, nella ricerca d’una serenità anche minuta che renda più sopportabili cicatrici e nuove ferite, mi ha profondamente commosso, forse perchè anch’io sono stata tanto triste da bambina, certa in fondo di non essere davvero amata, di essere sempre seconda, in dovere di dimostrare più che di essere. Eppure, con una cocciutaggine che a volte mi è sembrata miracolosa, non ho mai smesso di provare e la mia gioia adesso è grande.

 IMG_0006 - コピーIl femminile in Omoide no Mānī è dominante, l’amicizia è nella donna, la rabbia ed il dolore è nella donna, l’amore più profondo è nella donna. L’uomo, nell’economia del testo visivo, non è che una figura di profilo, una macchia in sottofondo che sta a guardare cosa accade a queste giovani che ci sono e sono state, qualcuno che viene a mancare divenendo pura conseguenza cui quelle donne dovranno fare fronte, chi con perizia, chi andando incontro al fallimento. È Anna, scritta in giapponese 杏奈o in katakana アンナa seconda della sfumatura che si dà loro; è Marnie, in katakanaマーニー, i suoi capelli biondi a lungo pettinati, gli occhi d’un azzurro chiarissimo color del cielo a mezzogiorno, figura misteriosa che solo all’ultimo si lascia svelare; è la madre adottiva di Anna che ha una colpa che la ragazza non riesce a superare ma che, al di là dei dubbi di Anna, la ama profondamente.

   Il disegno torna ad esser quello dello Studio Ghibli, che sa dosare dettagli ed essenzialità. Quell’equilibrio che a chi vi si accosta potrebbe sembrare fragile e invece va diritto al proprio punto senza esitazioni.

  Splendide le ambientazioni che abbracciano Sapporo, ma soprattutto la provincia, l’Hokkaidō della vita che va lenta e si fa godere. Commovente lo splendore dei disegni che raccontano una festa di Tanabata del villaggio, le tradizioni fatte di suoni e di oggetti che l’occidente non conosce. Anche visivamente è assolutamente impeccabile.

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  È un film che consiglio senza dubbio.

 Quando uscirà andatelo a vedere al cinema… e non lo guardate piratato. Acquistatelo in dvd, regalatelo agli amici. Le cose belle vanno protette o finiranno per soccombere. Andare al cinema a vedere un film è comunicare a chi gestisce le sale e la distribuzione che quel film vale la pena d’essere promosso e sostenuto. Lo Studio Ghibli merita questo tipo di onestà.

♪ Fine On The Outside / プリシラ・アーンスタジオジブリ映画『思い出のマーニー』主題歌

 

 *Le immagini sono tutte tratte dal libricino che viene venduto nei cinema con l’uscita delle nuove pellicole o e qui sopra trovate la splendida canzone che accompagna il film.
 **Ho volutamente eliminato anche in questo caso dati troppo precisi della trama onde evitare di togliervi il piacere della visione. Gli spoiler non sono mai apprezzabili.

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『可愛い子には、旅させよ』 o della maternità

È un serpente che si ingoia la coda. Che si arrotola su se stesso e diventa una girella. Torna e ritorna il pensiero di quello che accadrà, di come andrà. E poi c’è il “se” che rende traballanti fondamenta.

Ed io che son ripetitiva nell’affetto quanto fuggo invece la ripetizione nel linguaggio, che di questo tornare e ritornare sempre sulla stessa cosa sono cosciente senza però la capacità di migliorare, chiedo perdono. Mi scuso in e con continuazione.

DSC00387“Dico sempre le stesse cose, faccio le medesime domande. Mi dispiace. Ma… secondo te andrà bene? Piacerà? Manca così poco. Verranno a trovarmi? Sarò all’altezza? Andrà bene? Piacerà?”

Ma Ryosuke non mi ignora, mi risponde, ed è sempre un rassicurare. Che è normale, anzi ovvio:

「ピッチャの子供だから」

“E’ perchè è tuo figlio”

Ed è vero. Che i figli non sono solo di carne o di pelo, ma anche di carta, di bites, di tempera, di stoffa, di farina e uova, di colori, di un progetto finanziario o fotografico, di una causa, di parole, di lezioni, di cure ad un paziente, di un viaggio organizzato etc. etc.

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E questo sentimento di maternità e di paternità è in fondo un segno di un possesso che non corrisponde ad un comprare ma che è innanzitutto un desiderio ed un impegno.

Perchè ci sono cose che capitano, come capitano a volte i figli, ma ci sono donne e uomini per cui quel che capita per caso e naturalmente ad altri non è ovvio, e loro se lo devono guadagnare, architettare, in un faccia a faccia costante con se stessi e con la propria paura di non riuscire mai. Cose che richiedono un gran tempo e un gran coraggio, perchè la tenacia porta spesso in egual misura a successi e a fallimenti.

Si può allora essere madri e padri a pochi anni, di qualcosa che ci coinvolge da vicino, che sentiamo prolungamento d’arti e di interiora, qualcosa che poi però bisogna avere il coraggio di prendere per mano e spingere con delicatezza al centro di un palco, fuori dal portone di una casa. Qualcosa da presentare un giorno al mondo. Che i cassetti sono fatti per i desideri che non sono ancora maturati a sufficienza per uscire, per cadere come frutti da un ramo ed essere mangiati. Ma che, per quelli già belli e fatti, i cassetti sono tombe.

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Per rispettarli i propri sogni è importante prima o poi lasciarli andare, proprio come i figli.

Li saluti a gennaio. Alcuni li vedrai, altri mai più. Forse li incrocerai per strada, nelle casualità che capitano a frotte in questa città enorme. Ed è bella la leggerezza nel distacco, questa inconsapevolezza del mai più. Sono gli studenti che incontro ad aprile, sotto la fioritura piena dei ciliegi, e che lascio andare in inverno, quando scende ormai la neve e il gelo scuote la spina dorsale.

Crescono, un anno è l’arco di un pensiero profondo che alcuni affrontano, altri subiscono, altri ancora ignorano. Arriverà l’anno successivo. Ogni dramma un’occasione per imparare presto la propria forza e la propria debolezza. E non c’è alcuna banalità nella parola “amore”, un sentimento che io avverto per questi ragazzi e che tanti di loro mi dimostrano nel tempo.

In giapponese c’è un proverbio dolce che recita così: 『可愛い子には、旅させよ』/kawaii ko ni wa tabi saseyo/ e che letteralmente significa “il bambino amato, facciamolo viaggiare”. Perchè la tua creatura la vorresti sempre vicino, il bambino amato perennemente tra le braccia per proteggerlo da tutto e anche, egoisticamente, per coccolarlo ancora a lungo.

Ma proprio perchè il bambino è amato va lasciato andare, va liberato, va provato. Bisogna dargli la possibilità di misurarsi con la vita.

Merita fiducia.

SayCet, Circonflex