morte

断捨離 o della bellezza del vuoto

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  Buttare, buttare e liberarsi di tutto. Svuotare, scegliere con attenzione quel che si vuole che resti e lasciar andare tutte le altre cose. Ridurre i bisogni all’essenziale e intorno a quello lasciar navigare l’immaginazione.
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Dei tanti significati della parola zen quello che si collega al sentimento del vuoto, che è bisogno dello spirito ed equilibrio del cosmo, è per me di maggiore impatto. Coltivare il minimalismo e non adombrarsi di oggetti è la filosofia del danshari 断捨離.
Tre kanji, uno accanto all’altro che, come sanno fare solo gli ideogrammi, spiegano molto più di quel dicono nel suono. C’è kotowaru 断る che è “rifiutare”, c’è suteru 捨てる ovvero “buttare, gettar via” e infine hanareru 離れる che significa “allontanarsi, prendere distanze”.

Una casa piccola va annaffiata di spazi, di cavità. Lasciata svillupparsi in lungo e largo. Una camera deve essere soprattutto aria, luogo dove muovere il corpo. E a Tokyo, dove gli appartamenti sono di pochi metri quadrati, diviene una necessità che si fa virtù.

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Ho cercato di dare un nome a questo sentimento che mi ha sopraffatta a marzo scorso, al ritorno dall’Italia: forte, assolutamente inedito, il bisogno di ridurre all’essenziale, di liberarmi degli orpelli, di sfrondare appendici e mirare fluida e sottile verso l’alto. Ho capito infine che l’abbondanza, l’opulenza cui anelo è quella del tempo, della serenità e non quella delle cose.

E allora ecco sacchi, enormi sacchi dell’immondizia. Uno, due, tre poi quattro e anche cinque. Arriva il sesto e poi il settimo. E la gioia dell’occhio e del corpo inizia a farsi sentire. Leggera, potrei sollevarmi da terra. Fluttuare in questo mondo pieno di cose, di colori rutilanti che spingono come palmi e sussurrano “guardami!”, “desiderami!”.
 
  Grazie al danshari, applicato con una sorta di ferocia in casa nostra per una decina di giorni, ho riaperto cassetti, scatoloni che attendevano dagli anni del trasloco, astucci, file strabordanti di fogli, armadi gonfi di abiti che per troppo tempo ho tenuto senza mai indossarli.
Ho gettato via tante scarpe. Averle amate, mi sono detta, non significa doverle tenere con sè per tutta la vita. Accade anche agli amori, ad alcune relazioni intensissime che naturalmente finiscono e non è giusto perpetuarle solo perchè ci si è abituati alla loro presenza, perchè è doloroso doverle gettare via. Le si sfibra soltanto; lise e lustre mostrano toppe, strappi. Ammaccature.

  Danshari è scegliere, selezionare il meglio, separarsi anche con dolore da ciò che nel quotidiano, nel tempo che è adesso e per quelli che siamo ora, non ha più significato. Il senso negli anni e nei mesi si perde, come acqua filtrata da un rubinetto guasto. Goccia a goccia, martellante. E ci si accorge che tanto quanto le cose aumentano, il volume della nostra vita diminuisce. Le cose richiedono cura, spazio, rubano tempo anche solo a cercarle tra gli altri oggetti.

Ecco allora che finiscono nel sacco anche i soprammobili, le stoviglie che ci hanno accompagnato per anni ma che si sono sbreccate, hanno perso la funzionalità e restano a invecchiare nel ripiano di una credenza. Per accettare la vita bisogna accettare anche la morte, la fine di ogni cosa. Accade per gli esseri umani, per gli altri animali, per le piante. E accade anche agli oggetti. Sprecare non è solo usare troppo ma è anche tenere.

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Dopo il danshari, che richiede una buona dose di coraggio iniziale, si compra meno, si ricorda con orrore lo sforzo e il dispiacere di buttare, si risparmia addirittura. Si iniziano a prediligere le cose belle. Si acquista solo ciò che piace davvero. Non si compra più tanto per comprare. E la casa, come per magia, resta sempre in ordine.
Lo si comunica con dolcezza anche agli amici, che i regalini simbolici non li si vuole più. Che basta il pensiero, davvero, magari un mazzo di fiori, del cibo da consumare. Gli oggetti belli ma inutilizzati li si dona a chi li vuole, li si porta a un mercatino o, fuori dalla porta, li si appoggia in un vassoio con un cartello “Potete portare via quello che vi piace, a me non servono più. Grazie”.

A guardare adesso il nostro piccolo appartamento in affitto penso a un vaso. Che era ostruito da cose e l’acqua al suo interno inevitabilmente sporca, poca. Il fiore languiva. Così ero anch’io, e languivo. Ora mi sento rinata.

♪  twenty one pilots: Guns For Hands

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Per saperne di più: 
やました ひでこ 『断捨断 新・片づけ術』;  

近藤 麻理恵 『人生がときめく 片付けの魔法』
Dominique Loreau, L’arte della semplicità

Tempo che vieni, tempo che vai

A volte ci si fa male inutilmente. E il tempo è poco. Il tempo che, mentre lo si chiama, lo si perde già.

Ieri° sarebbe stato il compleanno della nonna di Ryosuke. Ieri° è stato il funerale del nonno di Ryosuke.

Abito nero, scucito l’orlo sul lato sinistro, una collana di perle bianche, quelle indossate al mio matrimonio. Un fazzoletto arrotolato e infilato tra la manica e la pelle del polso.
È stata una cerimonia commuovente, struggente. Il nonno di Ryosuke era shintoista e così è stato anche il suo funerale. Una sobrietà di materiali – che richiamano il legno, i prodotti di stagione – e di parole, che sono poche e cantate come haiku.

Siamo solo un mucchietto di persone. La famiglia. I figli, e di questi le mogli o i mariti, i nipoti. La bisnipotina è a scuola. Ma non potrebbe essere diversamente perchè lui era insegnante, preside di una grande scuola.

Aprono la bara e accanto al suo volto di pace sono poggiati un pacchetto delle sigarette preferite, lo hyotan scolpito un tempo per Ryosuke bambino, i suoi dolcini preferiti.
  Tra le parole cantilenate dal kannushi, che mi ricordano la lettura di brani del Genji Monogatari all’università, ci porgono cesti di corolle di fiori. Uno alla volta, tutti, ne adagiamo intorno al suo volto scoperto, nudo e bianco, immerso nella calma della morte.
Posiamo delicatamente le corolle due alla volta, sul cuscino di seta che sorregge la testa.  Crisantemi bianchi, sinuose orchidee, fiori d’un rosa acceso il cui nome non conosco in nessuna lingua.
Sul suo ventre Ryosuke spalanca le parole crociate che lui amava tanto fare, il libricino delle passeggiate nella prefettura di Oita. Il segnalibro infilato nelle pagine del paese natale, inizio e fine di ogni cosa.

   Ryosuke mi si abbandona e piange forte. Per un istante avverto la sproporzione dei nostri corpi e mi sento tanto inadeguata. Perchè Ryosuke è tanto più alto di me e l’accoglienza che io trovo nel suo petto lui non può averla e non potrà mai averla da me. Eppure gli sembro bastare ed io ho una pinna in petto.
A casa, sul letto, sul pavimento della nostra casa piccina, con la Gigia ignara e alla ricerca perenne delle nostre mani, sarà più facile. E infatti lì lo accoglierò più che posso. Lo lascerò parlare e non cercherò più di consolare. Il dolore è cosa giusta e il ricordo che provoca le lacrime è pieno di diritti.

Ma ora è il momento in cui possiamo dirgli le ultime parole prima che il suo corpo perda la forma che conosciamo e che ricorderemo. Ci raccogliamo intorno a lui.
E allora ognuno dice qualcosa al grande nonno, al padre, al suocero. Grazie papà. Otsukaresama deshita. È stato breve ma sono tanto contento di averti conosciuto. Anch’io gli dico una cosa importante, ma la voce è fioca e la sussurro a Ryosuke che in questo desiderio è acqua e farina, sale e shoyu.

Un corpo tanto grande. Così me lo ricordo.
Un corpo che adesso brucerà, che si farà cenere ed ossa insieme al suo piccolo bagaglio di cose e di fiori.

Attendiamo che questo avvenga in un’altra sala, in un altro luogo. Poi nuovamente ci riuniamo.
Lì, davanti a noi, in un grande vassoio d’acciaio, quel corpo tanto grande che è ora ridotto a un mucchietto di cose, friabili come foglie autunnali, come scaglie di pietra gessosa. Poi, un attimo dopo, inizia un rituale che non conosco.

Due a due, con un paio di lunghissime bacchette ciascuno, – uno ad un lato e l’altro a quello opposto del vassoio – impugniamo il legno e con la punta muoviamo insieme un osso, uno solo per coppia, nel contenitore.
Quello che prende Ryouke è sottile, più piccolo degli altri, d’un bianco che è cenere, marrone e carbone dolce. Lo sceglie minuto perchè io non abbia paura di sbagliare, di farlo cadere.

Una ad una e poi insieme tutte le ossa vengono poggiate nel contenitore. In cima alla scatola, con un paio di guanti bianchi, chi deve spiegare ci spiega, sollevando – con la delicatezza di chi stia maneggiando il corpo tiepido di un uccellino – alcune ossa rimaste da parte:

“Questo è l’orecchio destro. Questo l’orecchio sinistro. La gola. La parte superiore della testa.”

Sopra ad esse lo zio di Ryosuke vi posa gli occhiali grandi che portava il nonno, una delle protesi che noi umani ci portiamo dietro nella vita.
La scatola avrà il suo coperchio e un contenitore bianco, di una carta gentile all’occhio e al tatto. Una scatola che Ryosuke abbraccerà al ritorno sul minibus che ci riporta al punto di partenza. La sorella, dietro di lui, tiene la fotografia che lo ritrae, due nastri che fanno da cornice ai lati. Uno bianco e uno nero. Un fiocchetto che mi fa pensare, in un istante, al dito che poggiavo sui lacci delle scarpe da bambina, quando un adulto me lo chiedeva e che, tirando via, faceva sì che il nodo potesse infine essere chiuso senza risultare troppo molle.
Passa un pulmino di bimbetti dell’asilo. Ci incrociamo. Ci guardano attenti e osservano la fotografia buona del nonno.

Lo shintoismo vuole che chi muore diventi un 神 kami, un dio.
“Così proteggerà tutta la nostra famiglia” dice Ryosuke. E penso che non c’è cosa più giusta di questa. Perchè la protezione, il grande nonno, l’aveva anche nel nome. Si chiamava “Mamoru” che, letteralmente, in questa lingua piena di disegni, significa “protezione, proteggere, salvaguardare”.

Quello di quest’uomo che più ci commuove è l’amore infinito che provò per la moglie. Un sentimento che turba perchè mischiato indissolubilmente al dolore della sua perdita più di venti anni fa. Non era di tante parole ma quella sofferenza ce l’aveva scritta addosso. E quando si perde qualcuno che è ponte con la vita si vuole solo morire, abbandonarsi, lasciarsi andare.

Io so che lo farei. Non avrei la forza, non mi interesserebbe forse neppure averla.
 

  Bisogna sbrigarsi ad essere felici. Bisogna sbrigarsi veramente.

♫ Port Royal – Anya Sehnsucht
°Era il 2 di maggio e c’è voluto un po’ di tempo…

Gente che si dà in un’altra lingua

  “Io non ho paura, perchè …non ho … potege…”
E’ una frase piena di pause, quelle dell’incertezza della lingua che non sa, dell’italiano che inciampa nell’inglese e cerca di spiegare il pensiero in giapponese.
Ha i capelli tinti d’un rosso artificiale, porta gli occhiali ed ha i lineamenti che emergono tondeggianti dal quadrato del volto. Un naso importante, labbra grandi e bocca larga. Un’incertezza che avverto e non conosco.
  “Potegere? Perteggere?”
“Perdere?” suggerisco io anticipando per evitare frustrazione. Lo faccio sempre quando uno studente cerca invano di spiegarsi perchè i secondi che passano scavano una voragine tra il pensiero e la parola.
  “No, proteggere” precisa lei che infine si è trovata.
“Io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”

  Capita che nelle prime presentazioni, quando si deve parlare di un sè generale alla classe – chi sono, cosa faccio, cosa mi piace, chi c’è nella mia vita – ci si nasconda un po’ per imbarazzo, un po’ per una forma di modestia tutta giapponese, un po’ perchè non si hanno strumenti sufficienti per raccontarsi. Ma capita anche che durante la jikoshōkai 自己紹介 “la presentazione di sè” ci si sveli, affinchè di lì in poi non vi siano più domande che possano far male.
Forse è per questo che M-san da subito lo dice. Immediatamente dopo il nome.
“Mio figlio è morto dieci anni fa, in un incidente stradale”
E ci tiene a ripetere quella frase. Che non ha più paura, che niente le può più fare male perchè il peggio lei l’ha già provato.
“No, io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”

  E’ una ex insegnante di giapponese delle scuole medie. Ora insegna tennis ai ragazzi come volontaria. Dopo il pensionamento ha iniziato a studiare l’italiano.
Perchè proprio l’italiano?:
chiedo sempre a tutti dato che mi incuriosisce sempre tanto sapere cosa spinge persone così lontane dal mio paese a studiare una lingua che viene parlata quasi esclusivamente in Italia. E del resto è la stessa domanda che loro rivolgono a me circa il giapponese.
E’ perchè ha studiato il francese all’università e la pronuncia le risultò troppo complicata. E allora ha pensato che avrebbe potuto studiare l’italiano. Le piace anche la pronuncia, le piace tanto.
Racconta che suo marito dopo la pensione ha iniziato, invece, a studiare la storia e la filosofia del buddismo. Va ai corsi extracurricolari di una delle tante università che ci sono a Tokyo. Vi si organizzano lezioni nel weekend oppure la sera per i cosiddetti shakaijin, ovvero quelle persone che sono già inserite nella società, e “studiano part-time”. Li ospitano in aule che di giorno vengono affollate invece da quelli che mirano un giorno a diventarlo, shakaijin: giovani studenti spesso pigri e sonnolenti che incontro le mattine di ogni mia settimana.

  Così, nei discorsi di questa coppia che si sta facendo anziana e che deve aver sofferto tanto, si mischiano buddismo ed italiano in un connubio che sarei tanto curiosa di ascoltare.
L’italiano per i giapponesi è terapeutico. Si aprono strade da percorrere anche trafelati, con i bigodini in testa. Perchè nella lingua della pasta e della pizza, dei sorrisi e dei gestacci con le mani, si sentono liberi di reinventarsi.
Le formule indirette proprie del giapponese saltano, come ordigni ormai disinnescati, vengono risucchiate dalla forza, persino dalla violenza della lingua. Perchè in italiano bisogna dire o non si verrà capiti e non è più ovvio, come invece accade in giapponese, che l’altro capisca senza bisogno che si dica.

  Molti giapponesi dall’Italia tornano cambiati, più aggressivi, più diretti, tanto che del corpo fanno un tutt’uno con la mente. Sembra un paradosso ma a volte fatico persino a rapportarmi a loro. Diventano ibridi, nella stessa misura in cui un ibrido sono diventata anch’io, vivendo tanto fuori dall’Italia. I giapponesi che scelgono l’Italia rifiutano per istinto ampie pezze di Giappone. Così, anch’io, benchè intimamente innamorata del mio paese, soffrirei nel dovermi calare nuovamente nella sua realtà sociale, nei meccanismi che regolano il quotidiano del Bellissimo Paese. Sarei pesce senza acqua, lama senza manico, porta senza chiave.

  “Ehy, che stai a fa’?” esordiva un ex studente che parlava così bene l’italiano da rendere innecessarie persino le lezioni. La cadenza romana, il tono alto della voce, l’ironia continua sui giapponesi. Una sorta di piaggeria per accaparrare il mio consenso, per dire “anch’io sono italiano, anch’io la penso come voi”. Ma io ho cambiato idea e non la penso più nè come noi nè come loro. E soprattutto fatico sempre più a individuare un noi e a stabilire un loro. Dico “noi” per dire Italia ma sento assottigliarsi il potere del pronome.

  Così, una donna che si presenta per la prima volta a me e alla classe e dice in italiano che non ha più paura, che niente le può più fare male, mi scatena pensieri e ricordi, il sentimento dell’ibrido e la percezione traballante di un pronome soggetto. Del non essere nè fungo nè cavolfiore, nè rabbia nè passione, nè italiana nè giapponese. Sempre straniera ovunque andrò o ritornerò.
Ma la familiarità, mi dico, è probabilmente una cosa che si crea alla stessa stregua di un tavolo, la cui superficie la si lima con gli strumenti del mestiere, con le mani e infine con l’uso finchè non sarà liscia e piacevole al tatto, le cui gambe vai ad accorciare di un millimetro alla volta per rimetterle al giudizio del pavimento. Un’approssimazione perenne destinata a non incontrare perfezione.
Ripenso poi alla paura che questa donna magra con gli occhi grandi e i capelli rossi mi insegna essere sentimento che si fugge ma che racconta tanto non solo di ciò che manca e si vorrebbe ma soprattutto di ciò che si ha.
  Di tutto quanto – che è spesso tanto – si vuole proteggere.
E rivaluto le mie paure più profonde, testimonianza della vita che amo, delle persone a cui tengo, di tutto ciò che ho.

Ci sono donne intorno a me che perdono figli, che hanno vissuto e mai superato dolori immensi che le hanno risucchiate. E’ gente che si dà in un’altra lingua. E’ gente generosa.

  Chiunque abbia una storia da raccontare la racconti. Il mondo, sono certa, cambierà.

♪ Saycet “Her movie”

「忙しい」 o della morte del cuore.

La prima volta fu la mia mamma giapponese a spiegarmelo.

Eravamo al cellulare, ero sposata da pochissimo e le raccontavo dei nuovi incarichi all’università, della pubblicazione della tesi di master e del romanzo che stavo scrivendo.
Ero affaticata e sentivo il bisogno di parlarne.

Faceva un gran freddo e ricordo ancora la minuscola stradina di Kichijoji in cui in piedi davanti ad un distributore di bevande, osservavo le lucine colorate dei pulsanti. Tutto intorno una catasta di biciclette parcheggiate un po’ a casaccio.


“Laura, lo conosci il significato dei kanji della parola isogashii?”
, mi chiese.

E continuò subito dopo con quella spiegazione che mai più avrei dimenticato.

Il significato della parola “occupato”,“impegnato” che si apprende presto in giapponese e che, così compatta, rimane nella mente.
E nel brusio della vita di quella stradina di Tokyo, un ristorante di ramen a poca distanza, un negozietto di magliette coloratissime più giù, la voce della mia mamma giapponese mi chiedeva di scomporre la parola nella mente.

Perchè 「忙」 sono sei tratti, due coppie da tre segni ciascuno. Ed è così, nel sezionarli, che il vero significato, quello originario viene fuori in tutta la pienezza.
Dentro a questo carattere, infatti, due concetti si tengono per mano.
C’è il cuore 「心」 sulla sinistra cui, subito a destra, segue la sua sparizione, la sua morte 「亡・くす」. 心を亡くす=忙しい

Ed è così che essere impegnati, occupati “isogashii” (忙しい) significa perdere il proprio cuore, far morire la propria anima.
La morte del cuore.

Ed è nello spiegarlo che i giapponesi consigliano riposo, svelando come nel linguaggio, insito proprio in fondo ad esso, vi sia anche l’avvertimento. Che nell’eccesso di lavoro, di studio, nel troppo tempo impiegato in altro dalla cura di sè il rischio è alto. Che non bisogna sottovalutarlo. Che non bisogna dimenticarsi di sè. Che nel vortice del tutto si perde l’essenziale.

E’ la morte del cuore.

*In fotografia le cose piu’ importanti della mia vita. Ryosuke, la Gigia e… Tokyo. (fotografia scattata giorni fa dallo stesso grattacielo)