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Yamauchi Mariko, “Sedici è l’età della prima volta”

OSK201310310021Quella di Yamauchi Mariko è una scrittura piuttosto secca, senza troppi giri di parole. E nel non girare su se stessa arriva subito al punto e lo spiega bene.

In questo racconto lungo, vincitore del Premio dei Lettori per la Narrativa Femminile per le donne vietata i minori di 18 anni (R-18文学賞) – un riconoscimento della grossa casa editrice Shinchosha che premia la narrativa erotica – due ragazzine parlano tra loro, con l’informalità sfacciata dei quindici anni. Si guardano intorno e notano cambiamenti nelle compagne di classe che, dopo che hanno perso la verginità, sono diverse, la pelle è più bella, son tutti vantaggi. Decidono che il sedici è il numero perfetto, che loro lo faranno entro i sedici anni, perchè dopo no, diventa tardi. Ma il sedici viene subito dopo il quindici: è un numero che mette fretta, manca così poco.

L’evoluzione del sè nella sfera sessuale passa attraverso racconti e poi sogni. Delle due protagoniste una è la voce narrante e l’altra l’amica del cuore e proprio quest’ultima scopre nel mondo onirico una realizzazione piena delle proprie fantasie. O così, perlomeno, riferisce alla compagna di scuola. Ma poi capita l’imprevedibile, e la quindicenne si addormenterà, per una strana sindrome che non le scombina il corpo ma semplicemente la fa dormire, e passerranno mesi, passeranno persino i sedici anni, prima che si svegli. Così le strade delle due ragazzine si dividono per un lungo lasso di tempo: una sognerà tutta la sessualità che non praticherà, l’altra si affretterà a trovare un ragazzo, a farci l’amore e a provare infine repulsione per il tutto. Ma il sesso è questo poi?

È limpido questo racconto, trasparente il passaggio nella scrittura dal racconto della protagonista all’azione, lo stile non intralcia ma accompagna. C’è la masturbazione come scoperta, lo sport a scuola come epifania del corpo, quel senso latente di colpa verso deità, familiari, chissà cosa o chi che rendono segreta la sessualità. E poi c’è il desiderio così violento di mettersi alla prova da non distinguere più ciò che è pericoloso oltre ogni buon senso e cosa invece non lo è, cosa è squallido e cosa cova la dolcezza di un ricordo destinato a durare nel tempo.

È la sessualità che inizia dai discorsi, sulle fissazioni che sono un misto di ignoranza e desiderio di sapere, della mente che galoppa e del corpo che gli resta dietro a far da coda. Farsi il fidanzato nei discorsi delle ragazzine è finalizzato solo a quello, al traguardo, al perdere la verginità.

Solo dopo, sul finale di racconto quando ormai è passato tanto tempo e il futuro illustra (come sempre) meglio il passato, ci si ripensa a quei giorni frettolosi, alla voglia di aver già fatto tutto, e divenuti grandi ci si chiede che bisogno ci fosse di avere tanta fretta. E si capisce che si poteva benissimo aspettare che arrivasse tutto in modo naturale senza spingere l’acceleratore sugli incontri, sul sesso, sulla vita.

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Incipit

高校に入学してから一人また一人と、クラスの女子が処女でなくなっていく。あたしは耳年増でそういうことに勘が働くほうだから、脱処女が教室にいれば、当日ないしその週のうちに気づくことが多い。

処女を失った子は心ここにあらずといった風情で、頬杖をつき、甘酸っぱい色気を振りまきながら物思いに浸っている、というのは幻想で、実際は未開の経験を積んだ優越感が、隠しようもなくぷんぷんと匂うのだ。

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Autrice: 山内マリコ Yamauchi Mariko (1980, Prefettura di Toyama)

Titolo originale:「十六歳はセックスの齢」 Jūrokusai wa sekkusu no toshi (“Sedici è l’età della prima volta”) in  『ここは退屈迎えに来て』 Koko wa taikutsu mukae ni kite

Editore: 幻冬舎 Gentosha

Anno di pubblicazione:  2012

ISBN: 978-4344022324

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Amare un giapponese

  E mentre mi avvicino a Shinjuku in treno andando verso il lavoro, tra il profilo delle persone ritte in fronte a me scorgo quello dei grattacieli che salgono pian piano, crescendo di statura come bambini, tutti lindi e sorridenti prima di entrare a scuola. Un uomo ha la camicia piena di macchie, pochi capelli, un lettore super tecnologico tra le mani e gomiti e petto picchiettati dal caffè che deve essere precipitato sulla sua mattina.

Credo sia la moda che segue tutto il mondo ma mai come quest’anno ho visto tacchi alti e spesse zeppe ai piedi delle donne giapponesi. Ed io, benchè di solito avvezza a sandali super piatti, non le disdegno. E oggi i miei tacchi sono alti, altissimi. Mi rendono d’una misura che non ho. In borsa ho il cambio, perche’ mi sto lentamente riabituando.

Ricordo quando, appena giunta qui ventiquattrenne, abituata a Roma ad indossare sempre scarpe con i tacchi mi trovai in difficoltà ad apparire troppo alta. Non ho che un metro e sessantaquattro dalla mia ma quei dieci centimetri costituivano un’addizione che mi faceva sentire diversa. Avevo l’idea che il “donnone”, benchè magro, potesse far paura e così vi rinunciai. Piena di pregiudizi nei confronti del giapponese che gli stranieri intorno a me definivano medio.  
“Perchè ai giapponesi non piacciono le donne alte, ai giapponesi fanno paura le donne occidentali perchè sono aggressive, ai giapponesi …”

E magari il termine risulterà un po’ duro ma c’è un sacco di feccia anche in Giappone. Uomini e ragazzi che cercano la straniera solo per “provare” e per provarsi di piacere a qualcuno di una razza tanto diversa. Gente sciocca che ti ferma per la strada, magari ti dice che sei bella e che ti vuole fare foto. Alcuni offrono lavori, altri ti passano un biglietto in un caffè. Sono sciocchezze, tecniche per rimorchiare malamente. Sciocco chi chiede e sciocca chi crede, per pura vanità, che le parole altrui siano vere. Perchè magari ci vuole credere davvero, che è bella più delle decine, delle centinaia di donne che transitano ogni giorno per Shibuya o Harajuku.
Sono quelli che approcciano la straniera e non la persona. E non sono solo per la strada – che lì è facile capire – ma sono anche amici di amici, a volte colleghi dell’università.

Della mia vita giapponese ho un periodo assai movimentato, il più movimentato all’interno di una vita soprattutto piena di studio, di passioni intellettuali e di amori profondi e duraturi. Una vita che succedeva a Roma e precedeva Ryosuke, un’esistenza breve, infilata a sandwiches tra due vite simili, improntate su una forma di rigore che mi ha fatto sempre amare naturalmente le cose “giuste”. Un periodo pieno di errori, commessi uno ad uno con una coscienza da chirurgo, con la precisione di star sbagliando ed il piacere intenso di continuare a farlo. Un anno di discoteche, di alcol, di incontri con ragazzi bellissimi ma stronzi, bellissimi ma sciocchi, normali e pure vanitosi, deboli e leggeri, troppo innamorati, troppo ingenui o troppo presi da se stessi. Ragazzi troppo-sempre-qualche-cosa o troppo-poco-qualcun’altra.


Ore piccole che poi erano ore senza giorni perchè la notte si faceva un tutt’uno con la mattina successiva, tornando da un locale in treno, con Miwa al mio fianco e un amico deejay che russava davanti a noi. Amiche con cui si andava a fare colazione magari ad un sushi-bar alle cinque della mattina. O uno spicchio di notte trascorso nei manga-kissa in attesa del primo treno. Lezioni e conferenze la mattina e poi la notte accesa. Un anno per dimenticare quello che c’era stato prima e non ci sarebbe stato più.
Un anno che mi ha ferito tanto quanto poi l’ho amato dopo. Così tanto da farne un romanzo. Un anno in cui ho capito un po’ di più da dove vengano certi stereotipi, e di quanti diversi giapponesi sia fatto questo popolo complesso.

Perchè non ci sono “i giapponesi” e non c’è lo “stare con un giapponese”. C’è Takanobu e c’è Akira, c’è Yuuki, Hikaru e Munetoshi, c’è Shoki e Hiroshi, Masahi e Tsubasa. Ognuno ha in sè qualcosa di diverso. Uno amerà una donna solo perchè straniera, per la curiosità di vedere un corpo che non sa, per provare l’amore di qualcuno che è nato e cresciuto in un continente tanto lontano. Un altro, invece, amerà una Silvia, una Francesca, una Maria o una Ilaria perchè quella donna, quella precisa donna è Silvia, Francesca, Maria o Ilaria.
E sta a quella donna fidarsi solo di se stessa. Scegliere se sbagliare per il piacere di sapere, amare un giapponese solo perchè è giapponese, rifiutare chi non è un 100%  – o è semplicemente meno di un 80%  –, accettare anche il 10% per essere in grado un giorno di individuare chi è molto di più, credere all’incredibile, fidarsi dell’inaffidabile, giocare con l’altro e magari poi starci male.
E in ognuna di queste fasi non c’è un solo errore. Le scelte sono sempre tutte giuste. L’importante è che, appunto, siano scelte.

♫ Vector Lovers_Kissed you by the fountain

Il Fuji-san non è uomo e non è donna

  Il Fuji-san non è uomo e non è donna. Non è divinità maschile nè femminile. E’ un monte ermafrodito. Così scrive Takeya Yukie. La lingua giapponese lo permette e non c’è bisogno di definire sempre il sesso delle cose.
In una vecchia canzone per bambini il Monte Fuji ha sembianze umane: ha la testache spunta dalle nuvole, il corpoavvolto in un kimono fatto di neve e i banchi di nebbia che si allungano in lontananza alle sue pendici non sono che le maniche di quell’immacolato kimono.
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Una antichissima credenza giapponese vuole che le montagne siano abitate dalle divinità e che, per questo, non sia lecito scalarle. Gli dei posseggono quei luoghi e gli uomini non possono e non devono disturbare la pace che vi regna.
Il Fuji-san, monte prediletto nell’immaginario dei giapponesi, era ed è tutt’ora considerato da molti una divinità. E’ la montagna più alta del Giappone ed è simbolo dello stesso concetto di “bellezza” per questo popolo. I giapponesi provano nei suoi confronti ammirazione sì, ma anche quel tipo di timore reverenziale che si avverte per le cose belle e, insieme, terribili.
In Giappone l’appuntamento con il tempo, che procede in centinaia d’anni, definisce sia il ricorrere prossimo del grande terremoto del Kanto che, la storia insegna, accade una volta ogni cent’anni, sia il risvegliarsi del Fuji-san che, invece, erutta ogni trecento anni. Perchè non bisogna dimenticarlo. Che il Fuji-san, anche con il suo kimono di neve indosso, è sempre un vulcano e possiede una lunga tradizione di eruzioni alle sue spalle. In giapponese “vulcano” si dice kazan 火山 che è “fuoco, fiamma” e “montagna”.
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Accadrà e c’è poco da aver paura. I giapponesi vivono in perpetua attesa di qualche disastro che verrà. Perchè verrà. E dopo che accadrà per un po’ a Tokyo non si potranno stendere i panni fuori e l’aria sarà impregnata delle ceneri del dio che si manfesta. Si girerà forse con le mascherine e muteranno i disegni dei bambini che tanto spesso tracciano il profilo del monte sulla carta.
  E in un territorio tanto “accidentato”, attraversato da frequenti tifoni, scosso da terremoti di notevole portata, travolto da tsunamie da una vasta gamma di altre calamità naturali, la solidarietà e l’aiuto reciproco sono  indispensabili.
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 Si dice che lo 仕方ない[shikata nai] il “non c’è nulla da fare” che spesso ripetono i giapponesi e che rende perplessi gli stranieri (i quali leggono in questa frase una eccessiva accettazione degli eventi), sia dovuto proprio alle intemperie climatiche cui questo popolo è abituato a fare fronte e che hanno modellato il suo carattere tenace, profondamente rispettoso e sempre collaborativo.
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 Ma lo “shikata nai” viene spesso frainteso perchè non è un “non faccio nulla e aspetto che le cose si aggiustino da sole”, ma bensì la presa di coscienza della sfortuna da cui poi parte la volontà di fare bene e di “gambaru”, ovvero di dare il massimo nelle proprie possibilità.

Il coniglio in bicicletta

  Ryosuke prende un giorno di vacanza per trascorrerlo con me, perchè anche a vivere insieme, a passare insieme i fine settimana, ci si manca. I gesti sprofondano nella litania del sempre e viene voglia di dedicarsi tempo nuovo. E’ come una fame che ti assale all’improvviso e che non molla.
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Progettiamo da settimane di tornare a mangiare la soba – che poi e’ la piu’ buona di Tokyo – a Jindaiji (qui alcune foto) a Chofu. Così mi viene a prendere al lavoro ed entrando nel caffè dell’università mi sorprendo di trovarlo in un luogo che nell’immaginario è solo mio.    
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Saliamo in bicicletta sotto il sole bollente dell’una e attraversiamo strade, percorsi nascosti alla vista di chi sceglie la via maestra, il lungo fiume nelle cui basse acque s’agitano anatre e bianche gru, il verde di campi coltivati, ripidi sentieri che s’aggrappano per salire o per scendere.  
Attraversiamo il tessuto narrativo di questa città piena di storie. 
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 Ci rincorriamo in bicicletta, io mi fermo a scattare qualche foto e quando possiamo allunghiamo una mano e ci stringiamo forte il palmo. Io che guido sempre a sinistra, lui a destra. La gente una volta ci guardava, chissà se lo fa ancora adesso. Sono io che non la guardo più, tanto sono immersa in Ryosuke e nella strada che si apre davanti a noi.
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Mi ha detto una cosa a letto stamattina, di quelle che non scordi più. Lo ha fatto come sempre nella sua lingua che è madre e padre dei suoi gesti. Nel giapponese che, per me, è pura sensualità per il suo differenziarsi da uomo a donna
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Ricordo ancora quando, seduti sul pavimento di legno del dormitorio, avevamo iniziato da poco a frequentarci e io gli chiedevo di leggermi libri, pagine di romanzi, solo per farmi sentire quella lingua che, nella sua bocca, aveva una eco cosi’ tremendamente intensa. Scapigliati ed eccitati, in quella vicinanza che era solo nostra, mi innamoravo sempre più di lui e della sua lingua piena di eccezioni.
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Poi, sulla via del ritorno, dopo una soba deliziosa, una chiacchierata che ci voleva proprio, baci che sanno di sale e bottigliette di tè comprate e già scolate davanti al kombini, ecco che lo vedo.
E tanto è inaspettato che rischio di non accorgermene neppure. Ma lo vedo. Eccolo
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Il coniglio in bicicletta.