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Un giorno qualunque

DSC05624 Volge all’autunno la città. Tokyo riprende il suo vertiginoso ritmo, i treni rimpinzati di persone, il contatto della pelle con la pelle diviene più raro, filtrato com’è da maniche che, di giorno in giorno, s’allungano di stoffa.

 Mi sveglio alle cinque e cinquantacinque quasi ogni mattina, la Gigia che allunga il musetto fino al bordo del cuscino, Ryosuke che si alza in un sospiro assonnato e si occupa di lei. Ogni giorno ha il rituale dell’attesa: anche oggi, che cosa accadrà?

 Salgo in bicicletta e corro veloce verso la stazione. All’incrocio della scuola i volontari alzano le bandierine per aiutare i bambini ad attraversare. Gambe cortissime, enormi cartelle, la sproporzione naturale dell’infanzia.

 Svolto a sinistra, mentre ascolto in podcast Linus e Nicola, la Pina di Radio Deejay, prendo il ticket all’ingresso del parcheggio.
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 In Giappone i parcheggi delle biciclette vengono gestiti quasi sempre da pensionati, uomini con la divisa e un cappellino, che ripetono cantilenando Buongiorno! Ohayou gozaimasu!  insieme all’intraducibile Itterasshai. Il mio posto preferito è sotto a un albero di ginkgo, e lo trovo sempre libero e facile all’accesso. È la gentilezza che mi usa uno dei guardiani, con cui ormai chiacchiero da anni. Mi racconta di sè, del suo paese natale, del viaggio sulla tomba di famiglia, parliamo della Scozia, dell’economia che galoppa e poi si ferma, dell’estate che è passata, del tifone che è in arrivo.

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Non sono ancora le sette, in treno trovo posto a sedere. Spalanco il pc sulle ginocchia, scrivo il nuovo romanzo che mi riporta a Roma, che mi guida in provincia, che mi tiene il volto tra le mani. Sono coccolata da questi personaggi di cui amo la caparbietà e l’immensa debolezza.

 L’uomo alla mia sinistra legge il giornale, lo separa in lunghi bastoncini di scrittura. La ragazza alla sinistra digita qualcosa al cellulare, subito dopo si addormenterà e con lievi gomitate, di tanto in tanto, dovrò chiederle di non appassirmi sulla spalla.

 Poi ancora rialzarsi, scendere, salire scalinate, passare i cancelli, rientrare in un’altra stazione, passare i tornelli, salire le scale un po’ correndo, penetrare un altro treno, scendere ancora, salire altre scale, ritrovarmi infine nella panetteria che profuma di bontà. E mentre scrivo ancora con la musica nelle orecchie, le commesse escono dal laboratorio con vassoi di panini farciti appena usciti dal forno, annunciando a voce alta le pietanze.

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 Le università sono riprese, piccoli problemi di passaggio, il sonno appiccicoso sui volti dei ragazzi, la gaiezza dell’estate che fatica a dire addio. Alcuni sono andati in Italia, altri in Austria, Germania, Francia, Canada e Inghilterra, altri sono tornati dopo un anno di scambio, e sul volto hanno la voglia di mettersi ancora in gioco, il desiderio costante di gestire il misterioso.

 Dopo le lezioni vado a prendere un caffè con una professoressa di francese, una donna che è tutta una smorfia, un agitarsi, un ridere sguaiato, pieno della vita che, si vede, lei ama tanto. Mi racconta delle manifestazioni contro il nucleare cui continua a partecipare, del marito che andrà in pensiore a breve, del figlio che è arrivato a fatica a quarant’anni con la procreazione assistita. Io le racconto della mia tesi di dottorato, delle due nuove università in cui lavorerò da aprile, della mia famiglia, dell’Italia e della disoccupazione che amareggia la mia gente.

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 Tornando a casa vado a fare la spesa in bicicletta. Soppeso gli ingredienti tra le mani, attenta alle scadenze che, in questo paese, hanno due diverse diciture, una oltre la quale il prodotto non lo si può proprio consumare 「消費期限」, un’altra invece che garantisce la bontà 「賞味期限」 e sorpassata la quale, il sapore non sarà più al meglio, ma sarà comunque possibile mangiare. Sarà per questo che sono tanto attenta a questa parola? Scandenza dei sentimenti, scandenza delle parole …

 È una quotidianità bella, scandita da gesti soliti di cui non avverto neppure un poco la banalità. Sono innamorata follemente del mio uomo. Della mia bimba pelosina. Della mia casa piccola e “leggera”, libera dal peso innecessario delle cose.

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E mi chiedo se il segreto della gioia non sia proprio, da una parte, l’osservazione attenta e lenta del proprio giorno, il seguirSI quasi si fosse investigatori privati di se stessi, la rilassatezza che si prova a non perdersi nessun passaggio tra ciò che precede e ciò che succede, il dare se non valore almeno consapevolezza alle azioni perpetuate, alle cose e alle persone incontrate e, dall’altra l’aggiungere (conoscenza) e il sottrarre (inutilità materiale ed emotiva).

Tutto ciò che è superfluo pesa troppo, è una zavorra.
E allora continuo il danshari e da settembre ho aggiunto un’altra lingua e due sere a settimana conto eins, zwei, drei e tutti i sostantivi hanno la maiuscola nel nome.

♪ 湘南乃風「パズル」

Uno studente (quasi) come tanti

  Ero sul letto stamattina, chiedendomi non che cosa fare, ma cosa pensare. Chissà se mi è mai successa una cosa così.
Laura, cosa pensi? Cosa puoi pensare adesso? Cosa ti viene in mente? Cosa stai pensando? Cosa stai pensando?

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Il mio primo incarico all’università l’ho avuto a ventisette anni. Ricordo l’emozione, la soddisfazione, la paura, la curiosità. Negli anni classi e università sono aumentate.

Ognuna ha un suo paesaggio umano. Coincide in parte con il ranking, in parte con gli studi in cui eccelle.

Alcune studentesse vengono con le borse firmate Gucci e le perle al collo, altre con pantaloncini cortissimi, gambe chilometriche ed occhialoni tipo star, alcune con le ballerine ai piedi, altre con le ciglia finte ed unghie così lunghe e decorate che ti affascina anche solo starle a guardare affrontare la materialità del quotidiano. Alcuni faranno di sicuro un master negli Stati Uniti, passeranno le vacanze in Europa con i genitori o con la nonna, altri lavoreranno part time tutta l’estate.

DSC02781Alcuni ragazzi si godono l’università e stanno dietro al club di orchestra, a quello di danza; altri hanno solo fretta di inziare a lavorare. Alcune ragazze aprono lo specchio, osservano le loro lunghissime ciglia, poggiano le lenti colorate sul banco perchè “sensei, scusi sa, ma mi pizzicavano”. Altri sono destinati a diventare interpreti e traduttori, scrittori, politici ed artisti. Alcuni funzionari, altri a sposarsi e a fermarsi lì.

Alcuni ti dicono “arigatou” a fine lezione, altri ti salutano vociando e magari aspettano che escano tutti per chiederti consiglio su un ragazzo o una ragazza che gli piace. Università che sfornano eccellenze, altre che accolgono ragazzi complicati che però, più anche di quelli ricchi e bene educati, ti affidano la loro vita, hanno una sincerità in corpo che ti fa sentire, nel profondo, il significato del verbo insegnare, dell’essere sensei. Una figura per cui, a comprenderla per bene, si diviene un riferimento, un aiuto, talvolta un modello, a volte semplicemente qualcuno a cui raccontarsi.

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 Poi l’anno finisce. A volte sono due, a volte tre. Ma prima o poi finisce.

 Capita che ti riscrivano per raccontarti del loro viaggio in Italia. Ti chiedono anche di incontrarti, per un tè, una passeggiata al parco. Ci infilano dentro tanti ma dai, ma che davvero, ed altre espressioni piene d’una sorpresa che è nella lingua italiana, nell’entusiasmo che tutto accende come fuochi. Parlano di corsa, hanno voglia di dirti tutta la bellezza che hanno vissuto, di dimostrare progressi faticati ma profondamente goduti, perchè – ed è questo che cerchi sempre di insegnare – imparare dona un potere e una gioia che restano incorruttibili nel tempo.

 A volte, invece, tra te e loro non è più l’italiano ma solo il sè. La ricerca del lavoro, i colloqui, la loro vita che dopo la fine dell’università è andata in altre direzioni. Del ragazzo storico che sta per diventare marito, dell’amore che non viene, del figlio che vorrebbero ma è ancora troppo presto, dell’orario d’ufficio che è duro, della nostalgia nei confronti di quelle lezioni in cui eravate solo voi, ad affrontare una lingua bella, una cultura, il quotidiano di cancelli che s’aprono al mattino, della campanella.

DSC02836 Negli scorsi due anni, per il corso di italiano principianti e per quello intermedio, ho avuto un ragazzo speciale. Cinese d’origine ma giapponese – a suo dire – in tutto il resto. Il migliore nella graduatoria dell’università, un ragazzo motivato e intelligente. Un padre violento, una famiglia complicata, tanta voglia di superare i ventuno anni e di andarsene di casa. Voglia di rivalsa per un passato altrui di cui a volte la famiglia ti fa inconsciamente pagare lo scotto.

 Prima o dopo la lezione capitava spesso che ci vedessimo per parlare. Io avevo la mia adolescenza complicata, i miei terribili ventuno, le esperienze personali che varie coincidenze avevano purtroppo con la sua. L’identità, la ricerca, la costruzione passo passo della felicità che, seminata come farebbe Pollicino, fa sì che tu ritrovi sempre la strada verso essa. Gli dicevo di quanto avevo faticato io, di quanto ci avevo anche creduto, delle scommesse che vanno fatte nella vita perchè, prima o poi e in una misura che è impossibile prevedere, ti ripaga. E anche se non sono fuochi d’artificio ce lo si fa bastare. Si riesce, infine, ad essere gioiosi. Gli dicevo così.

DSC02432Si parlava di futuro, solo di futuro. Anche davanti ad un caffè, il marzo scorso, tornata dall’Italia, perchè aveva voglia di dirmi dei suoi studi, dei progetti. Di qualche dubbio che poi, ero convinta, con il tempo si sarebbe risposto da sè.

 Stamattina trovo una sua email nella posta e mi torna in mente che, proprio due giorni fa, con Ryosuke ci chiedevamo come stesse. “Bene, di sicuro. È un ragazzo in gamba”. Sorridendo, apro il messaggio.

 È ricoverato all’ospedale, ha un cancro maligno al cervello.  I medici dicono che è una massa molto difficile da curare. Martedì dovrà decidere se provare la cura o rinunciare. Mi scrive ordinatamente, in fila, gli orari di visita dell’ospedale. Mi chiede di andare a trovarlo prima di allora. Ha solo, ancora, ventuno anni.

 Ed eccomi tornare all’inizio di questa scrittura. Al letto su cui è sdraiato Ryosuke che ha la varicella e rimane scoperto e dolorante tra le lenzuola, alla Gigia che è alla finestra ad osservare mondi, avventure complicate di gatti, porte e farfalle che vede solo lei. E a me, a me che non mi chiedo cosa fare adesso, perchè da fare io non ho proprio nulla, ma cosa pensare, cosa pensare.

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『可愛い子には、旅させよ』 o della maternità

È un serpente che si ingoia la coda. Che si arrotola su se stesso e diventa una girella. Torna e ritorna il pensiero di quello che accadrà, di come andrà. E poi c’è il “se” che rende traballanti fondamenta.

Ed io che son ripetitiva nell’affetto quanto fuggo invece la ripetizione nel linguaggio, che di questo tornare e ritornare sempre sulla stessa cosa sono cosciente senza però la capacità di migliorare, chiedo perdono. Mi scuso in e con continuazione.

DSC00387“Dico sempre le stesse cose, faccio le medesime domande. Mi dispiace. Ma… secondo te andrà bene? Piacerà? Manca così poco. Verranno a trovarmi? Sarò all’altezza? Andrà bene? Piacerà?”

Ma Ryosuke non mi ignora, mi risponde, ed è sempre un rassicurare. Che è normale, anzi ovvio:

「ピッチャの子供だから」

“E’ perchè è tuo figlio”

Ed è vero. Che i figli non sono solo di carne o di pelo, ma anche di carta, di bites, di tempera, di stoffa, di farina e uova, di colori, di un progetto finanziario o fotografico, di una causa, di parole, di lezioni, di cure ad un paziente, di un viaggio organizzato etc. etc.

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E questo sentimento di maternità e di paternità è in fondo un segno di un possesso che non corrisponde ad un comprare ma che è innanzitutto un desiderio ed un impegno.

Perchè ci sono cose che capitano, come capitano a volte i figli, ma ci sono donne e uomini per cui quel che capita per caso e naturalmente ad altri non è ovvio, e loro se lo devono guadagnare, architettare, in un faccia a faccia costante con se stessi e con la propria paura di non riuscire mai. Cose che richiedono un gran tempo e un gran coraggio, perchè la tenacia porta spesso in egual misura a successi e a fallimenti.

Si può allora essere madri e padri a pochi anni, di qualcosa che ci coinvolge da vicino, che sentiamo prolungamento d’arti e di interiora, qualcosa che poi però bisogna avere il coraggio di prendere per mano e spingere con delicatezza al centro di un palco, fuori dal portone di una casa. Qualcosa da presentare un giorno al mondo. Che i cassetti sono fatti per i desideri che non sono ancora maturati a sufficienza per uscire, per cadere come frutti da un ramo ed essere mangiati. Ma che, per quelli già belli e fatti, i cassetti sono tombe.

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Per rispettarli i propri sogni è importante prima o poi lasciarli andare, proprio come i figli.

Li saluti a gennaio. Alcuni li vedrai, altri mai più. Forse li incrocerai per strada, nelle casualità che capitano a frotte in questa città enorme. Ed è bella la leggerezza nel distacco, questa inconsapevolezza del mai più. Sono gli studenti che incontro ad aprile, sotto la fioritura piena dei ciliegi, e che lascio andare in inverno, quando scende ormai la neve e il gelo scuote la spina dorsale.

Crescono, un anno è l’arco di un pensiero profondo che alcuni affrontano, altri subiscono, altri ancora ignorano. Arriverà l’anno successivo. Ogni dramma un’occasione per imparare presto la propria forza e la propria debolezza. E non c’è alcuna banalità nella parola “amore”, un sentimento che io avverto per questi ragazzi e che tanti di loro mi dimostrano nel tempo.

In giapponese c’è un proverbio dolce che recita così: 『可愛い子には、旅させよ』/kawaii ko ni wa tabi saseyo/ e che letteralmente significa “il bambino amato, facciamolo viaggiare”. Perchè la tua creatura la vorresti sempre vicino, il bambino amato perennemente tra le braccia per proteggerlo da tutto e anche, egoisticamente, per coccolarlo ancora a lungo.

Ma proprio perchè il bambino è amato va lasciato andare, va liberato, va provato. Bisogna dargli la possibilità di misurarsi con la vita.

Merita fiducia.

SayCet, Circonflex

節 o i nodi del bambù

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「節」 è setsu, il “passaggio” e il “periodo”, ma è anche – a seconda della lettura del kanji – fushi, l’“articolazione”, la “giuntura”. Il “nodo”.
  Aggiungici l’occhio ed esso si trasformerà in 「節目」 fushime, nel “punto di svolta”, quello che determina il cammino, la crescita d’un albero, lo sviluppo d’un bambino, la psiche di un adulto.
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  I giapponesi sono soliti spiegare questo concetto con il bambù, con l’immagine dei nodi che si creano di sezione in sezione e sostengono, del suo fusto cavo e legnoso, l’allungarsi solido e ritto verso il cielo. La crescita che inizia da un nodo e in un nodo finisce. Così sono le fasi della vita, ed ogni svolta è un irrobustirsi. Così ogni periodo dell’esistenza risulta necessario ed esso va affrontato bene, dal suo inizio alla sua fine.
 Così l’anno dei giapponesi è punteggiato, come un quadro di Seurat, di cerimonie che determinano il passaggio da una fase all’altra della vita. E non vi è nulla di superfluo nel cerimoniale, che sia quello delle grandi occasioni o della vita quotidiana. Lo shichi-go-san, il rituale dei saluti, il biglietto da visita, il funerale. Eccetera eccetera.
   Ogni periodo si congiunge a quello successivo, e lo 「繋がり」 tsunagari è il “collegamento” che preserva dalla fine improvvisa, che previene l’incrinarsi dello 「和」 wa, dell’armonia.
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  Accade alla fine della prima ora. Una studentessa mi si avvicina. È M-chan, che ha una malattia della pelle che le oscura il volto, le braccia e il collo, che le apre ferite e mostra spesso del suo corpo lo scarlatto. È la più grande della classe e lo testimonia il puzzo di fumo che si porta dietro nella trama dei vestiti, nei capelli che lascia sciolti e neri sulle spalle. Se non avesse più di vent’anni non lo potrebbe fare, non potrebbe neanche bere: la maggiore età in questo paese arriva tardi.
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  Mi chiede la situazione delle sue assenze ed io, che ho il registro davanti, le dico che non può più farne ma che non si preoccupasse, che anche l’altro semestre aveva raggiunto il limite e poi, all’esame, aveva preso un ottimo voto e che, quindi, mi aspetto a gennaio molto da lei.
  Le tremano terribilmente le mani. Vuole parlarmi di qualcosa. Mi dice che di assenze non ne farà più, che cercherà di venire sempre, ma che non sta bene e che non è una scusa. Mi porge una busta, le faccio una carezza sulla spalla. Mi ringrazia, se ne va. 
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  I ventuno sembrano anni belli e per qualcuno lo sono veramente. Ma ad altri confondono le idee, rimescolano ogni cosa. Forse è una coincidenza puramente numerale ma così è stato per me e così è per tanti miei studenti. Almeno uno o due, ogni anno, sembrano cadere. Si perdono. Iniziano a star male. Arrivano pesti dal sonno, lo sguardo torvo, sul viso si spengono luci e restano finestre con le persiane sempre chiuse, facciate senza ornamenti.
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A questi ragazzi io porgo la mia storia, liberata dalla lische, spiego quanto anch’io una volta mi sentissi sradicata, vivessi perenne il sentimento della fine. Racconto loro dei litigi, del significato latente dei giorni che mancavo di contare perchè, a viverli così, non c’era desiderio di ricordarli. Ma poi parlo loro anche della fatica – che, se è originata da se stessi, sa di autostima duratura e regala inacquistabile potere – dell’essere testarda, dello studiare con una passione esagerata, figlia in egual misura della gioia di sapere e del desiderio disperato di salvarsi. Del “periodo” che finisce, del nodo robusto che si crea e del nuovo che nasce da quello che sembrava, invece, un completo fallimento.

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  Ed ogni volta che me li trovo davanti con una busta chiusa che mi racconta di diagnosi di depressione, di malattie nervose, o magari di malattie fisiche che li costringono a complicate operazioni e ne fiaccano la mente, ogni volta che mi porgono con mani tremanti e viso indifeso dichiarazioni della loro debolezza, penso a quanto sia maledettamente complicato crescere. È una vertigine, è la “balbuziente grandezza” della gioventù. Tutti perennemente impreparati ad ammirare cieli ardesia che invece di stelle chiamano tempesta. Eppure, nonostante tutto, li guardano quei cieli che tendono al grigio e poi al blu, e sperano, nonostate il vento che si alza e le nuvole che affollano la vista, nelle stelle.
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  Ci sono persone che queste fasi le vivono a ventuno anni, altri che le vivono ininterrottamente dall’adolescenza alla maturità. Altre che vi passano attraverso incolumi, come piedi di fachiro sulla brace, e ignorano nel profondo quanta fortuna serva perchè ciò accada. Ma quel che dico a questi giovani uomini e donne, è che bisogna imparare presto, nella vita, a chiedere aiuto. Che fare terapia aiuta ad accorciare la via. Ma soprattutto che c’è sempre una strada che ci porta fuori dalle prigioni e non è una strada che costruisce qualcuno per noi, è una strada che ci costruiamo da soli, come carcerati che guadagnano la libertà con solo un cucchiaino e un pezzetto di ferro. Scava, scava, prima o poi ti trovi all’aria aperta, faccia a faccia con la luce, il cielo pieno e sconfinato. 
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  E non bisogna stare troppo tempo ad odiare chi ha costruito intorno a noi quella prigione. A volte è solo troppo amore, errori subiti e reiterati, perchè è facile confondere la “vivenza” con la sopravvivenza. 
  No, non bisogna perdere tempo. Che non passi giorno senza cucchiaino e pezzetto di ferro alla mano.
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  E mentre parlo o scrivo loro, sento che davvero è valsa la pena di stare tanto male. Sia perchè adesso darei per scontato molto di quello che ho e che ricevo, sia perchè altrimenti non potrei aiutare altri.
  Spesso si ha una insensata, benchè naturale, paura di soffrire. Ci si dimentica che anche la sofferenza serve a creare nodi di bambù, ch’essa costituisce parte di ogni setsu. Basta non lasciarsi incattivire dai dolori e portare a termine, con caparbietà, ogni sezione del percorso.
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  A me tutto questo ha portato una serenità bella ma complessa che è adesso la mia vita. Con Ryosuke, la Gigia, questo paese annodato tutto intorno e centinaia di studenti che di anno in anno mi donano le loro fragilità. Una vita che amo tanto.
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Agosto Monogatari 「八月物語」

  L’ultimo giorno del mese è, per sua natura, portatore di bilanci. Quanti libri ho letto? Quante pagine ho scritto? Quanti piatti nuovi ho cucinato? Quante parole nuove ho imparato? Quanti luoghi ho visitato? Quante volte ho visto i miei amici?

  Nulla è così fiscale, invero non li conto. Forse perchè credo in una matematica tutta personale. Tranne i primi – i libri – che catalogo e riassumo, perchè determinano l’andamento dei miei studi.

“Ma studi ancora giapponese?”

  Il giapponese non ha fondo. E’ come la borsa di Mary Poppins e basta infilarvi dentro due dita per tirarvi fuori una parola che non si conosce. E per quante volte vi si immerga la mano si riemergerà sempre con un termine dal suono magari simile ad altri ma portatore di significati differenti.

  Le parole per loro natura sfuggono, sono ricoperte d’olio e grasso e non si fanno “acchiappare”. Questa lingua poi cela il suo infinito fascino proprio nella complessità della sua forma, dipanata in tre diversi tipi di scrittura, e nella sua illimitatezza.
Cambia con gli anni il modo di studiarlo – non più sui libri di testo ma leggendo libri e saggi – ma non si può sperare in alcun modo di “consumarlo” tutto.

  Mi sveglio tardi questi giorni. Tutte le università hanno concluso il calendario accademico, i ragazzi hanno svolto gli esami e – secondo un principio didattico nel quale credo profondamente – hanno mischiato tensione a divertimento. Nei fogli di commento che chiedo loro di scrivere a fine semestre trovo grafie, aggiunte, valutazioni del corso e persino pareri sul mio modo di vestire.
E’ curioso ma dopo le prime lezioni noto che molti di loro vengono a lezione vestiti un po’ più curati, un filo di trucco, un’acconciatura diversa, un accessorio che spicca. E spesso mi chiedono un parere: “Sensei, le piace? Cosa ne pensa? Mi sta bene?”.

  La bellezza di insegnare all’università è veder crescere i ragazzi, notare negli anni i loro cambiamenti.

  Chi mi dice che aveva paura del contatto con gli altri ma grazie alla lezione – durante la quale, per facilitare la comunicazione e lo stringere di nuove amicizie, faccio loro cambiare più volte posto – hanno superato il timore. Chi mi dice che è un piacere, che l’Italia ce l’ha nel cuore. Che vorrebbe viaggiare. Perchè la maggior parte di questi ragazzi non ha mai visto l’Europa.

  E poi, secondo una caratteristica tutta giapponese, alcuni ti scrivono a fine semestre anche letterine che riempiono di disegnini e faccine. Ringraziamenti a suon di ありがとうございました e 後期もよろしくお願いします.

  Così le vacanze d’estate sono iniziate e molti di loro torneranno per la festa dell’o-bon a casa, nei differenti frammenti di Giappone di cui sono originari. Io resterò a Tokyo quest’anno. Mi godo il canto delle cicale che urlano indecifrabili, struggenti sentimenti e lo spirito febbrile delle olimpiadi londinesi che arrivano in Giappone a suon di judo, calcio, nuoto. Con Ryosuke pero’ faremo gite e gia’non vedo l’ora.

  Vi saranno a giorni le strazianti commemorazioni per le vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e, come ogni anno, mi chiederò come hanno fatto i giapponesi a perdonare gli americani e come fa il mondo a non sospettare di un popolo che pretende lo smantellamento degli ordigni nucleari quando è l’unico ad averne mai fatto uso*.

“Dopo la guerra eravamo terrorizzati dall’occupazione, dalle ritorsioni degli americani. Ma furono così gentili nei nostri confronti. Provammo solo riconoscenza”

  Così anni fa mi spiego’ un’anziana signora giapponese quando le chiesi il perchè. Lei era lì e ci sono cose che io non potrò mai capire. E sono grata a questo tempo che è ragione della mia ignoranza.

(*mia personalissima e non necessariamente condivisibile opinione, si capisce.)