Io, in questo preciso istante, vorrei

«Chissà quando potremo tornare al Telefono del Vento» dico a Ryosuke.
Lui annuisce: «Chissà…».
«Oggi quasi 800 morti»
«Oggi quasi 700»
Finirà. Tutto finisce.

Il telefono è quella cosa che collega due corpi distanti, due vicinissimi cuori. È il cellulare posato sul ventre di un malato in ospedale, perché senta vicini quelli che vicini non possono stare. Come testimoniano i racconti di medici e religiosi, pubblicati qui e là sui giornali in questi giorni.

Questa malattia maledetta che toglie il respiro, le parole, che toglie il saluto alle persone, anche l’ultimo, anche quello che è necessario per poter partire. La filosofia, scriveva Montaigne, è un costante prepararsi a morire. E non c’è bisogno di mettere in mezzo Kant, Nietzsche, Schopenhauer. Anche solo pensare, nel modo in cui lo fanno ogni giorno le persone, è quello, un amare, un graduale sparire.

Vorrei che fosse disponibile adesso, in questo stesso istante, un oggetto rassicurante come il Telefono del Vento nelle case di chi aspetta da casa un responso, una notizia di vita o di morte.

Vorrei rassicurare quelle persone, che la paura di morire ci sarà sempre, ma che l’amore è un vestito, che aderisce alla pelle, che ci veste anche quando siamo spogliati e non ci resta fisicamente niente. Chi è amato, in fondo lo sa.
E vorrei che il telefono di casa lo si alzasse, che si provasse a buttare giù una conversazione, in cui ci si prepara a parlare anche a chi non c’è più.

Vorrei che non si avesse paura di non aver detto tutto, che si sapesse nel fondo di sé che solo essersi incontrati in questa vita, aver condiviso un pezzo di strada, è un miracolo già, è la cosa più meravigliosa che c’è.

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