abitudine

「習うより慣れよ」 o dei cinque minuti che cambiano la vita

DSC04803Ogni giorno prepara a un grande giorno.
Ogni passo a un grande viaggio.
Ogni parola alla conoscenza d’un linguaggio.

 /Narau yori, nareyo/

Come poster e cartelloni, come scritte ed insegne che scivolano di caratteri dall’alto verso il basso, come l’acqua o tutte le cose attirate irresistibilmente verso il basso, mi proietto in faccia questa frase. Mi rincorre, come si rincorre ciò che ancora non si sa bene di volere, ma che il proprio cuore sta già cercando.

 È sempre Ryosuke, ricettacolo di kanji, che mi insegna. Ci lega l’attenzione giocosa al linguaggio, tra le cui fessure si spalanca l’altro senso, quello che rimane sotto le ceneri dell’uso. E tra le nostre paste gonfie di ingredienti, una lavatrice tardiva, i dorama alla tv che registriamo e poi guardiamo e riguardiamo allungando di un gelato il finale d’episodio, passano le sere. Ma a fine giornata sbuffo spesso anche la mia insoddisfazione nel non fare abbastanza, nel non sfruttare a sufficienza il tempo che mi è dato e che ad aprile ulteriormente diminuirà.

Perchè alcuni giorni ho idea che la vita abbia memoria di farfalla. Che duri un solo giorno e poi via, verso la terra. Che quello che faccio si disperda e non possieda resistenza, persistenza.
Inizio bene, poi abbandono.
Poi riprendo, poi abbandono.

DSC05595E allora Ryosuke, il mio buddha giapponese che a vanvera parla solo per giocare, nella leggerezza tutta maschile che dispensa grandi verità, mi dice /narau yori nareyo/.

習う /narau/ è “imparare”, 慣れる /nareru/ è “abituarsi” e allora, letteralmente, “Piuttosto che imparare, abituati!”

Più che imparare è l’abituarsi, inglobare nella propria esistenza minime azioni che tifano, con manine febbricitanti e grandi pon pon, per il miglioramento.
Ripenso a distanza di mesi a questo proverbio e lo ritrovo nelle mie parole di insegnante.

Cinque minuti cambiano la vita” dico sempre ai miei studenti.

Che riuscire a costruire uno, due, tre, quattro, cinque volte sessanta secondi in un giorno è paradossalmente miracoloso, richiede una fatica inimmaginabile all’inizio.

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 È come trovare la crepa in un muro, tastare con pazienza tutta la superficie d’una parete per scovare quel punto che permette di celarvi un segreto, magari l’inizio d’una crepa d’un bastione che, in fondo al cuore, si vorrebbe abbattere da tempo.

Cinque minuti cambiano la vita.

Perchè all’inizio sono cinque ma se /narau yori nareyo/ ecco che nell’abitudine, lieviteranno, s’ingrasseranno d’altro tempo, semineranno la tenacia del contagio che, inarrestabile, saprà come farsi largo e cambiare infine tutto.

~Si prenderà in mano un libro complicato, si affronteranno solo due pagine, poi lo si chiuderà, poi saranno tre, poi dieci, poi lo si finirà. ~Si aggiungeranno solo tre righe della tesi, il paragrafo si concluderà, a finire sarà poi il capitolo, la tesi tutta. ~ Si prenderà a studiare un kanji al giorno, poi saranno due, poi tre, si imparerà a leggere la lingua giapponese. ~Si inizierà a mangiare un poco più di frutta, si eliminerà un gelato, si riuscirà passo a passo a dimagrire.

DSC05566Con questo ritmo d’onda, di remi nella laguna di Venezia, di ninna nanna sussurrata ad un adulto, questo proverbio si ripete nella testa. Ti entra nella vita.

 E quando accadrà il contrario, ovvero che dopo l’entusiasmo iniziale, il tempo si restringerà, basterà mantenere quei cinque minuti, basterà tornare ai cinque minuti dell’inizio, in attesa che la mente sia feconda e si dedichi nuovamente al mutamento, alla gioia di cambiare.
Un’altra volta e un’altra volta ancora.

 Ciò che diventa abitudine, diventa infine nostro. E più nessuno ce lo sottrarrà. Saremo i primi a proteggerlo da tutti gli altri impegni. Saremo in grado di proteggerlo persino da noi stessi.

Il cambiamento non si gioca in una volta. Il cambiamento è un’abitudine costante.

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♪ Sia, Fair Game 

In lode dell’okaasan

   In giapponese okaasan お母さんè la propria madre quando la si chiama, la madre di qualcun altro, o una persona che per età e ruolo potrebbe essere la propria madre putativa. Suocera si dice giri no okaasan 義理のお母さん ma si usa sempre più il solo okaasan.

   All’inizio sospettavo di lei, traumatizzata da ricordi di bambina in cui mia madre piangeva e una donna arcigna comandava con freddezza. Temevo di subire la stessa persecuzione. Qualcosa che ha guastato la mia infanzia. Ipersensibile, vittima d’un esperimento pavloviano, ero pronta a reagire in autodifesa al polpastrello che solo s’avvicina all’interruttore.
Ero terrorizzata e per i primi due anni tra me e la madre di Ryosuke vi è stata una muta distanza. Prevenivo, per non dover curare, ogni contatto. Ora so che quel mio tenerla lontana la fece soffrire.

   E mentre chiamo questa donna “mamma” mi torna su, come un cibo non digerito, il nome che mia nonna impose a mia madre, la distanza dell’Avvocato e della Signora. Per questo avverto, da grande, un desiderio violento di rivalsa, di punire chi è stato malvagio, di cacciare in malo modo chi non meritava di condividere il nostro cibo e il nostro ingenuo affetto.

 Ma è tardi, i morti acquistano un immeritato perdono e ciò che resta a distanza di anni, di funerali e parole mai restituite, è solo un odio sordo nei confronti dei prepotenti, un disprezzo velenoso nei confronti dei soprusi e, specularmente, un senso protettivo che mi scatta incontrollabile quando vedo una violenza nei confronti di animali o di persone in una posizione di debolezza o inferiorità.

   Bambini che calpestano formiche, una libellula colpita da una bicicletta, un vermino o una ranocchia in un punto pericoloso della strada. Basta fermarsi un attimo, riprendere i bambini, usare le pagine di un libro e mettere la creatura in salvo. La lotta all’indifferenza, l’ho imparato, parte anche da qui.

   L’ho capito col tempo che i sentimenti migliori richiedono esercizio, devono diventare abitudine, esattamente come pulirsi la bocca dopo aver mangiato o mettere una mano sulla bocca quando si sbadiglia. Ci si educa anche dopo che l’educazione la si è ricevuta. Si inizia a scegliersi, a limarsi. Migaku 磨くsi dice in giapponese. Ed è esattamente come la nostra lima. Non sono forbici ma dettagli da smussare.

   Così per due anni, iperprotettiva nei confronti di me stessa, quasi rassicurata dal modello alla mia mente più prevedibile – ovvero quello delle suocere che vessano le nuore – la tenni lontana.
E invece ho scoperto in questi anni una generazione di donne che a loro volta hanno sofferto della prepotenza delle “madri” e sono d’una dolcezza che muove quasi compassione.
L’albero nelle radici ha la fatica del germoglio.

 Di lei è l’attaccatura dei capelli che parte da dietro. Ha mani grassoccie, dita rotondette. Si muove goffamente, come una bambina. Quando pronuncia alcune parole è più delicata, come se succhiasse l’aria da una cannuccia. Le labbra minute di un neonato. E’ piena d’amore per i bimbi. Temeva per troppo amore i cani, perchè ha paura di soffrire e dice che una creatura che è destinata a morire prima di lei è una sofferenza assicurata. Ma poi ha incontrato la Gigia e le cose cambiano per tutti.

   Lei è la donna orso, kuma-onna, perchè Ryosuke una volta era il mio orso e lei, per una naturale associazione, è diventata la donna-orso. Non gliel’ho mai detto, perchè non vorrei leggesse errori in qualcosa che è perfetto. Ha la formalità confuciana delle donne della Prefettura di Oita, che sono naturalmente portate a vivere l’uomo come il padrone di casa. Morale ferrea che esercita su se stessa e mai sugli altri.

   Una suocera che per me è a tutti gli effetti una madre. E non c’è cosa che non le sappia confessare. Anzi, le rare volte che litigo con Ryosuke, è lei l’unica con cui posso parlare. La chiamo e mi abbraccia nella voce. Perchè per me Ryosuke è intoccabile e non voglio che qualcuno che lo conosce meno di me possa pensare che ciò che dico intacchi il mio giudizio su di lui. L’amore in me, ora che sono donna, supera in profondità la certezza che io nutro nei confronti di me stessa. Ma voglio anche sentirmi capita e consolata e solo lei è nella posizione di poter dare addosso a Ryosuke senza che io prenda la sua posizione come un’offesa nei confronti del mio uomo.

   Mi capita di chiamarla solo per sentire la sua voce. Quando ho bisogno di un abbraccio, di una coccola da niente. Mi chiede, vuole sapere, non si nega mai. Porta sempre frutta in grossi sacchi perchè sa che noi ne compriamo poca per via del costo eccessivo. Porta gli integratori a mucchi a Ryosuke, lo shampoo che usiamo da sempre, dolcini, cibo per la Gigia, tradizioni del Giappone che uomini e donne della sua generazione custodiscono nei gesti.

   Non abbiamo spazio in casa e tutto ciò che porta risulta sempre troppo. Gli spazi limitati del Giappone mi hanno educata alla parsimonia. Le cose sono belle da vedere e, se mi piacciono tanto ma stanno decisamente meglio nel negozio, mi limito – dove posso – a fotografarle.
Ma lei aggiunge ed io capisco che è come me, che l’entusiasmo supera in lei la razionalità.

   Ed ora, quando Ryosuke se la prende con lei per il suo sbagliare, io mi arrabbio con lui e scherzosamente lo riprendo:

「わたしの母の悪口を言わないで!」
“Non parlare male di mia mamma”

♪ 小沢健二 「いちょう並木のセレナーデ」

Di sfuggita dalla Yamanote in corsa

Il 24 dicembre. Vicino a Takadanobaba. Un paesaggio che durante la settimana mi è spesso capitato di vedere di sfuggita dal treno mentre passavo da una stazione all’altra. Dal lavoro al riposo. O dal lavoro a dell’altro lavoro.
Dal finestrino ogni volta mi dicevo quanto mi sarebbe piaciuto scattare una foto a quel paesaggio “fluviale” di acqua, ponti e alberi a picco. Il fiume Kanda. E quel blu che luccicava un istante prima che il treno – la linea Yamanote – portasse oltre il mio sguardo.

Poi il 24 dicembre, sempre dal treno in corsa, l’ho mostrato a Ryosuke che era venuto a prendermi al lavoro. Un secondo ed il paesaggio è sfuggito via, come al solito.

“Quanto mi piacerebbe vederlo da vicino.”
“E allora perche’ non scendiamo?” mi ha detto.
“Certo! Scendiamo!” ho risposto.

Ed è così che ho esaudito un piccolo desiderio che nutrivo da tempo. E non vi sarà più rimpianto nel guardare quel paesaggio dal treno uscendo dal lavoro.

Rompere le abitudini fa infinitamente bene ai ricordi.