cultura

Scusa, non è che mi guardi le cose mentre sono via?

… una domanda che non sentivo da secoli. Allo Starbucks che dista una ventina minuti in bicicletta dall’università, davanti a un caffè latte caldo, small size, al mio piccolo Vaio splamato sul tavolo e le cuffiette premute nelle orecchie, un ragazzo mi fa un gesto. Lui è seduto al tavolino accanto. Mi tolgo gli auricolari e cerco di capire cosa sta dicendo.
E’ straniero. Parla in inglese, non me lo aspetto e ci metto qualche secondo in più a collegare parole a significato.

Scusa, non è che mi guardi le cose mentre sono via? Così sto più tranquillo. Ovviamente se devi andare via prima che io sia tornato non ti preoccupare e lascia tutto così com’è

Annuisco, Dico “Ok” mentre sorrido di quella bizzarra situazione e mi ricordo di quando, in Italia, era assai più frequente capitasse.
Appena se ne va noto che ha lasciato il suo libro di traduzione inglese/giapponese spalancato sul tavolino, l’iPhone a cui sono rimaste attaccate le cuffie e lo zaino – colmo di cose che non so – “seduto” sulla sedia di fronte.

Da quando vivo a Tokyo forse è la prima volta che succede. E nella proporzione con i miei sei anni direi che è evento che non può che farmi riflettere.
Sulla tranquillità del lasciare le proprie cose (tutte) per prendere un posto e poi allontanarsi dalla propria borsa per andare ad ordinare o per recarsi al bagno.

Del relax del poggiare i propri bagagli sulla griglia di metallo sopra i sedili di un treno, addormentarsi e non pensare neppure un istante al loro destino. Aperti gli occhi saranno lì. E’ sicuro.
Ma anche della fiducia nel telefonare all’Ufficio Oggetti Smarriti di supermercati, caffè, stazioni, perchè la maggior parte delle volte gli oggetti sono stati recapitati là. Ci sono. Nessuno li ha intascati. Usati. Rubati.

E il bello è che, in questo paese in cui ho scelto di vivere (superando, ovviamente, non poche difficoltà iniziali), tutto ciò è perfettamente normale.

Nel giorno dei SAGASHIMONO, delle cose smarrite di cui si va alla ricerca, mi è sembrata una riflessione quantomai appropriata.
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Okiagari-koboshi o della perseveranza

Accanto alla finestra, tra una pianta di ulivo comprata anni fa a Kichijoji e una pachira che abbiamo chiamato come il mio cagnolino defunto, accanto a due grandi daruma, simbolo di un desiderio esaudito e di un altro che attende e che lotta, c’è un oggettino di 5 centimetri per 3.5, di colore bianco e rosso.
Linee sottili di nero gli animano il volto e un obi rosso circonda il suo pancione.

Quasi due anni fa, per il mio ventottesimo compleanno Ryosuke mi fece un regalo molto speciale.
Era un periodo di grandi cambiamenti. Il mio primo incarico all’università, il lavoro di Ryosuke in società iniziato ad aprile, i preparativi per il matrimonio imminente, l’arrivo dei miei parenti per il loro primo viaggio in Giappone, il romanzo che aveva preso infine forma, l’idea di un trasloco e il sogno di cagnolino da adottare.

E si sa che i mutamenti vengono sempre assorbiti dalla quotidianita’ con lentezza e mai senza fatica, per quella sana resistenza che essa esercita nei confronti di tutto ciò che è nuovo e che rischia di stravolgerla.
Così Ryosuke, in quel 16 agosto 2009, mi regalò un “okiagari-koboshi”
起き上がり小法師.

Mi disse che l’aveva acquistato subito accanto alla stazione di Tokyo, in un negozietto che trattava artigianato e prodotti tipici della prefettura di Fukushima. Lo aveva cercato sul web alcuni giorni prima e, per farmi una sorpresa, era corso a comprarlo subito dopo l’orario di lavoro a Shinagawa e prima di recarsi alla sede centrale della società ad Hamamatsuchō per una riunione generale. Quel poco tempo strizzato tra treni e tornelli per custodire il segreto. La sorpresa del regalo.

La signora del negozio l’aveva trattenuto a lungo e Ryosuke quel giorno fece tardi alla riunione. Quando lui le chiese l’okiagari-koboshi, specificando che si trattava di un regalo di compleanno per sua moglie, lei si mostrò felicissima:
“Sa, vengono spesso turisti cinesi a comprare e quando propongo loro questo oggetto come souvenir lo rifiutano dicendo che non è abbastanza caro, che è troppo semplice. Un vero peccato. Eppure è un oggetto con un significato così profondo”.

Originario della città di Aizu nella prefettura di Fukushima, l’okiagari-koboshi (letteralmente “monico che si rialza sempre)”, è un oggetto di artigianato la cui produzione risale a 400 anni fa. A quel tempo il daimyō Gamō diede ordine di fabbricare queste bamboline come souvenir da vendere in occasione del capodanno.

La caratteristica principale di questo oggettino, che spiega anche il suo nome, è il fatto che pur spingendolo giù si rialza sempre.
Nonostante le sue piccole dimensioni, l’okiagari-koboshi è infatti simbolo di pazienza e perseveranza e, per questo, è considerato un portafortuna per il lavoro, la famiglia, i soldi.
Ancora oggi ogni anno nella città di Aizu durante il primo mercato dell’anno, che si tiene per la precisione il 10 gennaio, vengono vendute queste bamboline di cartapesta.
Se la famiglia è composta da tre membri se ne compreranno quattro, se è formata invece da quattro membri si acquisteranno cinque bamboline e così via, secondo la tradizione che vuole che se ne ponga sempre uno extra sull’altarino domestico.

E proprio per questo messaggio di speranza e di determinazione di cui è pregno, che mi è venuto immediatamente in mente appena è accaduta la recente tragedia in Giappone.
Così, penso, proprio come l’okiagari-koboshi, la stessa gente di Fukushima, colpita da triplice disastro, si rialzerà.

Da quel 16 agosto 2009, a distanza di un mese, scegliemmo lo stesso oggetto come bomboniera per gli ospiti italiani del nostro matrimonio italo-giapponese a Kamakura. Sia per quelli che parteciparono alla cerimonia che per quelli che, fino in Giappone, non riuscirono a venire.
La semplicità dell’oggetto forse stupì, ma per me e Ryosuke voleva essere un dono importante.

Io stessa quando sono sfiduciata, quando penso che non ce la farò, che sono giù e non so come uscire da una situazione di difficoltà, guardo il mio piccolo okiagari-koboshi, quello tra la pianta d’ulivo e la pachira , accanto ai due daruma enormi a suo confronto, e gli do una bottarella.
E, nel vedere che resiste e che ogni volta si rialza, mi dico “Forza Laura, anche questa volta ce la farai. Forza, Laura. Ganbare, ganbare!”

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