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«La solitudine del corpo a Tokyo non esiste»

Dalla bella pagina di Ho un Libro in Testa, l’intervista che mi ha fatto Francesco Musolino.

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«L’incontro, il primo incontro con Laura Imai Messina, è avvenuto alla libreria Mondadori di Messina. Dovevo presentare il suo libro ma, lo confesso, non mi aspettavo quella folla di fans – ragazze e ragazzi – che ad attenderla con abbondante anticipo sull’orario di inizio previsto. Quella presentazione è stata una delle poche cominciate, non in orario, ma persino in anticipo.

La sala, del resto, era già piena. Prima di lasciarvi alle mie domande ma soprattutto alle sue risposte vorrei introdurre la scrittrice, ovvero Laura Imai Messina, autrice del romanzo “Tokyo Orizzontale” (edito da Piemme) e creatrice, nel 2011, del blog di successo, GiapponeMonAmour. Già perché Laura oggi vive a Tokyo, nel piccolo quartiere di Kichijōji, con suo marito Ryōsuke e la cagnolina Gigia e il suo blog è ormai una quotidiana finestra sul Sol Levante, tanto sugli aspetti nobili della cultura nipponica che su quelli più semplici.

Eppure la storia d’amore fra Laura e il Giappone è iniziata – in modo controverso e senza segnali premonitori – improvvisamente a ventun’anni: «Non sapevo chi fosse Doraemon, a scuola fingevo di comprendere battute, di ridere di tormentoni che conoscevano solo i miei compagni. Ho incontrato il Giappone a ventuno anni, senza alcun vero immaginario o background culturale a sostenermi. A rapirmi è stata invece la scrittura giapponese». Un amore sbocciato anche per via di una fatale attrazione non per ciò che è diverso ma per le cose complicate «perché hanno in sé il sapore della sfida, temprano, educano alla pazienza e alla costanza che non ho, promettono vittoria».

Leggendo il suo libro scopriamo aspetti di una cultura così lontana e diversa eppure complementare alla nostra e del resto se continuiamo a guardare ad Oriente come antidoto alla nostra fretta, come terra della bellezza, un motivo deve pur esserci. “Tokyo Orizzontale” è la storia di quattro personaggi, nati in momenti e con intenzioni diverse nella mente di Laura Imai Messina, decisa a mettere in pagina la meraviglia ma anche le difficoltà implicite nell’ambientarsi in un mondo nuovo e nella sua scrittura narrativa, ancor più che in quella destinata al suo blog, si avverte il bisogno, la “pulsione fisica”, il bisogno di curarsi con essa.»

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Sara Hiroshi Jun e Carmen sono i tuoi protagonisti. Come sono nati?

È nata prima Sara, una mattina di marzo di otto anni fa, nel salone d’una casetta a Tokyo. Lo ricordo perfettamente perchè ero tornata il giorno prima da Nagoya, dove in modo straziante era stata messa la parola fine a quella che, allora, mi sembrava la relazione sentimentale più importante della mia vita. Sara è nata insieme a Carmen, figlie gemelle d’uno stesso parto doloroso. Jun invece è arrivato senza preavviso alcuni anni dopo perchè, nel frattempo, di tipi arroganti e affascinanti come lui ne avevo incontrati molti a Tokyo. Hiroshi, infine, è figlio d’un desiderio, quello della stabilità, di un amore duraturo che mi legasse d’un grado in più a questa terra.

Credo che i personaggi d’un libro prendano inevitabilmente le proprie sembianze. Emergono spontaneamente come fiori di campo, quando si è infine in grado di guardarsi allo specchio, di analizzare parti di sè rimosse o a lungo appesantite dal giudizio, di ripensare ad esperienze che sono sopravvissute nel ricordo. Così i personaggi di fantasia che covano in noi si rivelano una volta che si è compresa a fondo la loro natura reale, il vissuto (proprio) che è rifluito in loro. Allora non ti sfugge (quasi) più nulla, non hai più di che accusarli o di che vergognarti. Li accetti, ti accetti. Sei infine pronto alla scrittura. Sara, Carmen, Jun e tutti gli altri sono nati così.

Il titolo cita un blog, molto seguito e particolare a dire il vero…

Spesso sulla Rete ci si imbatte in scatti che ritraggono donne e (soprattutto) uomini giapponesi, ai lati della strada, sulla banchina di un treno o all’interno di un vagone, nelle posizioni grottesche della sbornia. Basta uscire un venerdì o un sabato sera, magari per le strade di quartieri irrequieti come Shinjuku o Shibuya, per incontrarne a decine e chiedersi, sommessamente, perchè mai ci sia bisogno di ridursi così. Ho immaginato allora la creazione di un blog (inesistente nel reale) che riunisse questi scatti, un gruppo di ragazzi che, con il cinismo tipico dei vent’anni, ne facessero un mezzo di derisione nei confronti del prossimo.

La rete ha spesso questo triste risvolto: elimina i freni inibitori del linguaggio, dà sfogo a quelle passioni che il buonsenso fa di solito tacere, fa del cinismo e della cattiveria uno strumento di piacere. Nella trattazione di questa tematica nel libro ho cercato però anche di evidenziarne un altro aspetto, quello della pietà per chi s’abbandona all’alcool, e quello del disprezzo che, prima o poi, torna come un boomerang al mittente. La vita, in questo, ha a mio parere una sua intrinseca giustizia. Magari in forme differenti, magari dopo anni, ma essa restituisce sempre il maltolto. È vendicativa. Curiosamente, proprio di recente, è nato un progetto chiamato #Nomisugi dal giapponese 飲む (bere) + 過ぎる (eccedere) = bere troppo. La finalità è quella di scoraggiare le sbornie e le scene urbane di cui sopra.

Come spesso accade la realtà supera o rincorre la fantasia. L’idea di Tokyo Orizzontale, quindi, può dirsi estremamente verosimile visto che, in qualche modo, si è nel frattempo realizzata.

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Citatissima è la frase “se New York è una mela, Tokyo è un melograno”. Cosa significa?

New York non ha spazio in questo libro. Tokyo se lo prende tutto, con il polpastrello ne porta via le briciole dal piatto, anzi il piatto se lo lecca pure. Se c’è Tokyo, non può esserci che lei. La similitudine con il frutto dell’albero di melograno nasce dalla conformazione fisica della capitale giapponese, dalla sua ampiezza e insieme dalla sua parcellizzazione in quartieri. Tokyo è macro e micro al contempo.

Nella metropoli – e nelle zone limitrofe che le gravitano intorno – abitano circa 36 milioni di persone, ha in sé una efficienza e una velocità rare, il ritmo sostenuto di un organismo che fa della stretta convivenza virtù e, soprattutto, necessità. Eppure basta allontanarsi anche di poco dalle stazioni, chiassose e iperattive, per notare un paesaggio di molto differente. S’apre allo sguardo una prospettiva di casette a due piani circondate da giardino, piccoli parchi ogni pochi isolati, fiumiciattoli, stradine percorse a piedi o in bicicletta, persino campi coltivati. Sembra quasi di essere in campagna, tanto minuto è il suo raggio d’azione. Si incontrano i medesimi volti, si chiacchiera con i gestori dei negozi del tempo che fa, con i custodi delle biciclette dei mondiali di calcio, di sciocchezze figlie d’una socialità spiccia che comunica familiarità e integrazione. Tokyo oltretutto non ha un solo centro ma ne ha molti, luoghi spesso anche distanti tra di loro.

Così un giorno, spaccando il frutto del melograno, credo di aver avuto una sorta d’epifania, nel notare come anche visivamente la struttura della città gli assomigliasse. Il sapore dolce del frutto e quello amarognolo del seme, poi hanno confermato la mia idea. Tokyo è, decisamente, un melograno ed è la protagonista indiscussa del libro. La immagino come una donna – colpa del genere che nella lingua italiana fa delle città sostantivi femminili – tanto che nel libro lei chiacchiera e sbadiglia, si pettina i capelli, le fanno il solletico e lei ride, si rabbuia e magari sussurra qualche imprecazione. Reagisce. Non è solo un contenitore di storie è lei stessa personaggio della storia. È così viva.

Hai scritto che “la solitudine del corpo non esiste a Tokyo”. Ovvero?

DSC02068Mi ha sempre colpito di Tokyo il contrasto tra l’altissima densità di popolazione che abita e/o transita nella capitale e la difficoltà, reale, di inserirsi nelle vite degli altri. Le stazioni sembrano formicai, la vita vi si agita dentro senza sosta, i treni sono scatole traboccanti umanità e la distanza tra i corpi s’annulla nella dimensione ridotta degli spazi abitativi. Così il corpo in questa città orientale non è solo, lo accompagna sempre il movimento d’altri corpi. È una danza – persino involontaria – di milioni di esseri viventi sincronizzati al secondo, per evitare di scontrarsi, di arrecare ed arrecarsi disturbo nel contatto. La solitudine del cuore, invece, ti prende quasi all’istante e a fatica ti lascia andare. Ci si sfiora ma non ci si tocca veramente.

Tutti concentrati nell’inseguire il proprio giorno, come linee parallele saettanti verso qualche punto della città, la gioia dell’incontro è lasciata a spazi e luoghi dedicati e, per accogliere una nuova presenza, ci vuole una disponbilità di tempo che spesso chi abita e lavora a Tokyo non possiede.

In Occidente c’è forse una malattia della fretta, della frenesia legata al tempo. L’attrazione per l’Oriente a tutto tondo, dalla religione sino al cibo, può essere inteso come un bisogno di bellezza, la necessità di valori positivi?

Credo che l’Occidente cerchi nell’Oriente una chiave di lettura, un rallentarsi, la meditazione che riveli l’intrinseca pace che potenzialmente possiede ogni esistenza, la mano che indugia, il passo che nel perdersi si trova. Nel Giappone della tradizione vi si cerca la saggezza, la cura minuziosa per tutto ciò che provoca piacere, il culto disciplinato della bellezza applicato ad ogni aspetto della vita. È l’Oriente riflessivo, quello che predica pazienza, tolleranza, tempo in abbondanza. È inoltre un mondo che, rispetto al nostro, tende a non giudicare o a farlo meno e con minore asprezza. La tolleranza verso il prossimo è base del vivere civile, il curarsi di sè ed ignorare quel che non piace vince sulla critica e sul desiderio di sviscerare il negativo.

Da sempre avverto una ideale compensazione tra l’Oriente giapponese e l’Occidente italiano e noto da ambo le parti un’ammirazione, un anelito all’altro che rivela quanto la differenza sia alla base dell’attrazione, quanto si vada a cercare quel che non si ha o quel che si ha in forma differente. L’italiano, ad esempio, è conscio delle sconfinate potenzialità del proprio territorio ma l’incuria che affronta quotidianamente lo rattrista, lo fa molto arrabbiare. Anche una città come Tokyo, invero lontana dall’ideale tradizionale della calma e della meditazione, ha d’altronde una attenzione maniacale nei confronti dei suoi spazi, una valorizzazione costante degli ambienti comuni, una spinta all’innalzamento della qualità di vita dei suoi abitanti.

Credo che italiani e giapponesi dovrebbero frequentarsi di più. Finirebbero, naturalmente, per migliorarsi a vicenda.

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La tua storia personale – e il grande successo del tuo blog – è al centro di un documentario prossimamente per la Rai. Perché hai scelto il Giappone?

Si tratterà invero di una miscellanea di storie che hanno al centro il mondo e la letteratura, giovani scrittori residenti in varie nazioni che racconteranno di sè e del processo che li porta alla scrittura. Due talentuosi e giovani filmmaker hanno scelto di proporre Tokyo Orizzontale e la mia storia personale (qui il video). Il Giappone non è una passione antica. Da ragazzina non leggevo manga, non conoscevo gli anime. In casa mia la televisione era bandita se non a orari definiti e per la visione di programmi accuratamente selezionati. Non sapevo chi fosse Doraemon, a scuola fingevo di comprendere battute, di ridere di tormentoni che conoscevano solo i miei compagni.

Ho incontrato il Giappone a ventuno anni, senza alcun vero immaginario o background culturale a sostenermi. A rapirmi è stata invece la scrittura giapponese: quei tre alfabeti sillabici che sembrano intrecciarsi, cadendo dall’alto in basso e da destra a sinistra, già svelavano l’estrema difficoltà della lingua. Ed io amo da sempre le cose complicate perchè hanno in sè il sapore della sfida, temprano, educano alla pazienza e alla costanza che non ho, promettono vittoria. Trasferirmi a Tokyo, apprendere la cultura quotidiana di questo paese, insistere nel viverlo nonostante le sue iniziali incomprensioni e asperità, mi ha poi definitivamente conquistata.

Essere una straniera può essere un vantaggio. Si mantiene sempre aperta una possibile via di fuga e, per questo, il proprio quotidiano in qualche modo ce lo si sceglie ogni giorno. Ed è qua che io voglio restare.

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A proposito del tuo blog, spicca una scrittura limpida, visiva, evocativa, colorata. Cosa ti ispira?

Nel blog cerco di riversare tutto il positivo accumulato in anni di Italia e di Giappone. Tento di donare a chi mi legge uno spazio di riflessione e insieme di bellezza, dove riposare il corpo, un luogo dove rubare escamotages per affrontare quei piccoli drammi quotidiani che ogni vita presenta come un conto a fine giornata.

Aver vissuto una vita per molti versi complicata mi aiuta adesso a capire cosa sia giusto offrire al prossimo e poichè la scrittura sul web, lo credo fermamente, è un donare essa non si deve discostare dalle circostanze e modalità che regolano l’offerta di un regalo: garbo, generosità, bellezza ed altruismo. Il Giappone, il suo lato più tradizionale, serba in sè una saggezza che, a mio parere, tanto serve al contemporaneo. Ogni paese ha eccellenze che, se condivise con altre nazioni, possono arricchire chi le accoglie e si lascia ispirare. Quel che faccio a lezione all’università con i ragazzi giapponesi è proporre loro un altro punto di vista, quello italiano che riesce spesso a stimolarli. Di noi è il gusto della vita, la gioia dell’incontro, lo scardinarsi delle formalità a vantaggio del contatto, la leggerezza e l’emozionalità manifesta.

Nella scrittura sul web cerco invece di fare l’inverso, ovvero di donare il meglio del Giappone e della mia vita a Tokyo, agli italiani. Un gioco di specchi che mi permette di conservare una visione tendenzialmente positiva dell’esistenza. Oltretutto questa città è una continua aggressione sensoriale. Comunicarla è gioia pura. Ed io amo profondamente la mia vita.

DSC01958Infine vorrei domandarti quale sia il tuo rapporto tout court con la scrittura narrativa.

Non passa giorno che non scriva.

Quel che da ragazzina credevo dovesse scaturire solo dall’“ispirazione”, ho scoperto che si ciba invece di costanza e di impegno. Le idee possono venirmi in qualunque momento, magari mentre sto passeggiando con la cagnolina Gigia o mentre sono in attesa dal medico. Catturo quelle idee, me le appunto sul cellulare o a margine di un libro.

Poi però la mattina esco prestissimo di casa, mi butto sui treni che mi porteranno al lavoro, scrivo nei vagoni – seduta a destra e sinistra di qualche pendolare assonnato o di qualche studente in divisa che ripassa le lezioni –, mi sposto nei caffè vicini alle università in cui insegnerò, scrivo lì e, ancora, spalanco il computer sulle ginocchia nel tragitto inverso verso casa.

Poi riprendo la sera, esco intorno alle sei o alle sette e resto in un caffè fino alle dieci. È il mio tempo, è il mio piacere, è la creazione quotidiana della mia identità. Inoltre la scrittura è per me una pulsione fisica, una liberazione. Ha un potere fortemente terapeutico: un giorno in cui ho scritto è un giorno buono, al di là di tutto quel che può essere accaduto.

E poi come scrive Emil Cioran: “Produrre è uno straordinario sollievo. E pubblicare non meno. Un libro che esce è la tua vita o una parte della tua vita che ti diventa esteriore, che non ti appartiene più, che ha cessato di opprimerti e logorarti. L’espressione ti diminuisce e impoverisce, ti solleva dal peso di te stesso; l’espressione è perdita di sostanza e liberazione. Essa ti svuota, dunque ti salva, ti priva di un sovraccarico ingombrante. […] Mi sono sopportato meglio, come ho sopportato meglio la vita. Ci si cura come si può.”

“La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”
(detto amerindio)
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 “Il 6 agosto 1945 una bomba atomica distruggeva la città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo Nagasaki fu a sua volta colpita. L’8 agosto, nell’intervallo tra i due episodi, il tribunale internazionale di Norimberga si era arrogato il diritto di giudicare tre tipi di crimini: i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Nel giro di tre giorni, i vincitori della seconda guerra mondiale avevano aperto un’èra nella quale la potenza tecnica delle armi di distruzione di massa rendeva inevitabile che le guerre diventassero criminali rispetto alle stesse norme che stavano emanando.
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 Questa «ironia mostruosa» avrebbe segnato per sempre il pensiero del filosofo tedesco più misconosciuto del XX secolo, Günther Anders […] uno dei rarissimi pensatori che abbiano avuto il coraggio e la lucidità di paragonare Hiroshima ad Auschwitz senza togliere nulla al triste privilegio che possiede il secondo di incarnare l’orrore morale senza fondo. Ha potuto farlo perchè ha capito, come Hannah Arendt e probabilmente prima di lei, che una volta superati certi limiti, il male morale diventa troppo grande per gli uomini che ne sono responsabili e che nessuna etica, nessuna razionalità, nessuna norma che gli esseri umani si possono dare ha la minima pertinenza per valutare ciò che è successo.
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C’è bisogno di coraggio e di lucidità per fare questo accostamento, perchè Hiroshima rappresenta ancora, nella testa di molta gente e, a quanto pare, della stragrande maggioranza degli americani, l’esempio per definizione del male necessario […]  Interrogarsi sulla razionalità e sulla moralità della distruzione di Hiroshima e Nagasaki vuol dire anche trattare l’arma nucleare come uno strumento al servizio di un fine. Sennonché un mezzo si perde nel suo fine come un fiume nell’oceano, ne è completamente assorbito. La bomba, invece, va al di là di tutti i fini che le si possono dare o trovare. […] Perchè l’orrore morale del suo impiego non può esser percepito? Perchè questa «cecità dell’apocalisse»?”*


Mi capita raramente di citare a lungo brani di un autore senza avvertire la possibilità di rielaborare, spiegare, ingoiare e restituire a parole mie qualcosa.   Questa è una di quelle occasioni preziose che svelano come vi sia chi ha saputo, in un brevissimo saggio, illustrare l’Assurdità del male con lucidità perfetta. È Jean-Pierre Dupuy, professore di Filosofia sociale e politica presso l’ Ècole Polytechnique e l’Università di Stanford e il suo libro si intitola “Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo”. Merita d’esser letto per intero nelle sue cento paginette o poco più.

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  Il detto di apertura di questo piccolo intervento è anch’esso partorito dal libro suddetto. “La Terra ci è data in prestito dai nostri figli”. È un po’ come quando Jorge Luis Borges scrive che “Possiamo dare solo ciò che è già di altri” e ci ricorda il debito che fin dall’istante in cui nasciamo – come esseri viventi oltre che come produttori di parola – abbiamo contratto nei confronti di tutto ciò e di tutti quelli che ci hanno preceduto e che verranno.  Nulla è nostro, in sostanza. A noi tocca solo amministrare una concessione, un prestito. Una lunga catena di debiti su cui varrebbe la pena di riflettere ogni volta che si decide di muoversi verso la distruzione di qualcosa, di qualunque cosa.
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   Oltretutto, e questo forse più di ogni altra cosa mi indigna, immenso è l’egotismo dell’uomo che è convinto che questo pianeta sia cosa sua. Forse, in un tempo in cui la terra, le foreste, la natura tutta si ritrae ferita, sotto il passo incessante ed arrogante dell’essere umano, sarebbe il caso di domandarsi chi gli ha dato il diritto di arrogarsi il possesso del pianeta, quale religione auto-architettata ed auto-imposta gli abbia concesso la possibilità di agire a proprio piacimento. Da dove nasce l’eliminazione dell’alterità, il senso di mostruosa superiorità che egli esercita con una disinvoltura ancora più mostruosa?

E mentre noi stiamo a dibattere su Hiroshima, Pearl Harbor, le responsabilità di allora, le efferatezze e simili diatribe prive di reale conoscenza e di spessore, è interessante quanto sconvolgente notare – come fece lo stesso Günther Andersen (che nel 1958 si recò alle commemorazioni ad Hiroshima e Nagasaki) – che:

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  “La regolarità con cui [i giapponesi] omettono di nominare gli autori, con cui tacciono del fatto che la catastrofe è stata prodotta dall’uomo; e con cui, benchè vittime del delitto più orrendo, non mostrano il minimo risentimento – tutto ciò mi pare eccessivo, non mi piace affatto
  Un sentimento che ahimè comprendo e che riconosco parte dell’animo giapponese che, al contrario del trattamento che subisce per crimini di un lontano passato certamente commessi (ma non più efferati di quelli perpetuati dalla nostra civilissima Europa o dall’America o dall’Asia in millenni di guerre e d’una quotidianità violenta e brutale), non condanna nè attacca chi ha fatto loro un torto tanto grande.
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  L’idea è 「ひどい事をしたから、ひどい事をされても仕方ない」 “Dato che abbiamo fatto cose terribili, ci sono state fatte cose terribili. Non c’è nulla da fare”

  Qualcosa che l’occidente di questo paese ignora tutt’oggi totalmente. Qualcosa che un occidentale non comprenderà probabilmente mai. Del resto il mix di uno stereotipo ben edificato dai suoi detrattori, unito ad un’indole affatto accusatoria, porta il Giappone ad essere vittima di insopportabili (solo per me che sono occidentale) affronti.
Accompagnata dalle melodie della meravigliosa canzone composta da Sakamoto Ryuichi e interpretata da Hajime Chitose “Shinda onna no ko” (La bambina morta), rivolgo una preghiera alle vittime di Hiroshima e Nagasaki e soprattutto una preghiera per l’uomo, senza sterili differenziazioni di nazionalità.  Perchè si renda conto della responsabilità che ha, della bellezza e fragilità del pianeta che abita e della terribile capacità che ha di distruggere qualcosa che neppure gli appartiene.
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♪ Sakamoto Ryuichi e Hajime Chitose  “Shinda onna no ko” 
✿ Le meravigliose illustrazioni sono dell’artista Seiji Fujishiro
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*(il grassetto e la spaziatura, nel testo citato in apertura, sono miei)

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (3/3)

Ho sempre pensato che leggere Murakami Haruki è come bere un bicchiere d’acqua sul cui fondo, però, vi si scorge qualcosa che sembra scintillare. E così, volente o nolente, per guardare da vicino quel baluginare e capire di cosa si tratti, si manda giù il contenuto tutto del bicchiere, qualcosa che, a seconda del giorno e della condizione fisica, sa dissetare o invece nauseare.
Qualcosa che è come il protagonista di questa storia: incolore, vuoto eppure perfetto contenitore di storie inverosimili e insieme possibili.

D’altro canto, come conferma anche quest’ultimo romanzo, lo stile di scrittura di Murakami Haruki è piatto, semplice al limite della banalità. La frase inizia e finisce nella più prevedibile sintassi. Egli utilizza sempre la stessa gamma di termini tanto che mi sento di poter consigliare questo romanzo anche a stranieri che desiderino leggere un testo in lingua giapponese senza dover necessariamente consultare il dizionario. Il linguaggio è pressochè sempre colloquiale e composto da brevi frasi.

Ribadisce più volte gli stessi pensieri: una ripetizione che fa sì che si possa riprendere il libro in mano anche dopo una settimana di abbandono. Replica fino all’ossessione il sentimento del momento – un momento lunghissimo che si trascina dall’inizio alla fine del racconto senza significative variazioni.

Forse anche per questo Murakami Haruki ha ricevuto più consensi all’estero che in Giappone.
Perchè nella traduzione la sua prosa rende un po’ di più. Acquisisce un’eleganza che il suo giapponese non possiede.
La facilità di fruizione del suo stile, d’altronde, è una delle chiavi del suo successo. La sua accessibilità linguistica, a fronte d’una lingua e una cultura per molti versi intraducibili, espande il suo pubblico a livello planetario. La moda, come in ogni altro campo, ha fatto il resto.

Nel caso di questo romanzo, la cui tematica è incentrata sulla mancanza di colore del protagonista, sul suo essere scialbo, insicuro, privo di caratteristiche forti, tale stile di scrittura potrebbe però risultare persino efficace, voluto e per questo tollerabile anche a chi, come me, gli preferisce piuttosto stili corposi, varietà lessicale, caratterizzazione meno stereotipata dei personaggi.

Ad una prosa tanto piatta s’accompagna però l’architettura perfetta della trama. Ogni pezzo del puzzle è perfettamente funzionale e funzionante. Quel lampo sul fondo del bicchiere d’acqua luccica dall’inizio alla fine del romanzo. Un punto interrogativo di cui vien voglia fortemente di sapere la risposta.

Concepire l’impossibile è difficile. Magritte lo sapeva. “Sia nei momenti ordinari della vita, sia in quelli straordinari, il nostro pensiero non manifesta appieno la sua libertà. È incessantemente minacciato o coinvolto in ciò che ci accade. Coincide con mille e una cosa che lo limitano. Questa coincidenza è quasi permanente.”
John Berger parlava qui di Magritte come di chi cerca di sperimentare ed esprimere l’Impossibile, ultima sponda della libertà.

Credo che al di là del reale valore della letteratura di Murakami Haruki, cosa che pur tenendo conto della fama del momento (e della moda ad essa indissolubilmente annessa) saranno solo i posteri a decretare, è proprio questo anelito alla libertà, al diritto all’inspiegabile ad affascinare i lettori.
I suoi personaggi sono spesso stereotipati, piatti. Camicie ben stirate ma null’altro. Nessun guizzo. Le storie che li coinvolgono però sono extra-ordinarie, rimescolano il concetto di normalità rimettendo in discussione tutto.
Si tratta di quel sentimento di scoperta del reale che stupisce e fa sperare che vi siano misteri nella nostra vita che, spesso incolore, scivola via.

Parte 1/3
Parte 2/3

♪AI  ハピネス

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (2/3)

L’incolore Tazaki Tsukuru.
Colourless Tsukuru Tazaki.
色彩を持たない多崎つくる.

È questa la prima parte del titolo del nuovo libro di Murakami Haruki.
Ma dopo c’è un “と” che è l’inglese “and” e il nostro “e”. E cosa?

e gli anni del suo pellegrinaggio
And His Years of Pilgrimage
と巡礼の年

 
  Gli anni del suo pellegrinaggio sono sedici per la precisione finchè nella vita dell’insicuro, del vuoto, dell’incolore Tsukuru entra Sara e lui, per la prima volta, vuole che questa donna resti nei suoi giorni. Un desiderio che non ha precedenti e per questo tanto più prezioso.

Lei avverte in lui quel grumo di irrisolto e con la schiettezza di una donna più matura lo convince ad affrontare il suo passato. Non andranno più a letto finchè Tsukuru non farà il primo decisivo passo per sciogliere quei nodi. Finchè non andrà ad incontrare i suoi amici di Nagoya, farà loro domande, e non scoprirà i perchè, i come e i cosa di quel rifiuto che lo ha cambiato per sempre.
Quasi tutto si saprà. Il resto si potrà dolorosamente intuire. Lo farà lui, Tsukuru, e lo farà anche il lettore a cui Murakami non è avvezzo a spiegare mai ogni cosa.

Tutto combacia perfettamente in questo libro. 「無駄がない」 “non c’è nulla di superfluo“: un’espressione che ricorre spesso qui come anche nei romanzi di Ogawa Yoko. Murakami sembra ricamare l’essenziale, un’architettura in cui tutto ciò che c’è è necessario. E così anche la seconda parte del titolo fa riferimento al leitmotiv del romanzo all’interno del quale, come sempre capita nei romanzi di Murakami, vi sono anche molte note e pentagrammi.

Scorre un particolare sottofondo musicale: è Liszt e “Gli anni del pellegrinaggiosono il titolo di un’opera per piano di ventisei brani divisa in tre parti corrispondenti ciascuna alle fasi dei viaggi del musicista compiuti tra il 1835 e il 1839: la Svizzera, l’Italia e poi ancora l’Italia.

Torna nel libro più volte. Una melodia suonata dalle mani di Shiro e tornata nel tempo di Tsukuru perchè Hai la riporterà in forma di cd a casa sua. E rimarrà brano di bellezza, ricordo e nostalgia per tutta la durata del romanzo.
“L’incolore Tsukuru e gli anni del suo pellegrinaggio” è un’opera attraverso cui l’erotismo (eterosessuale e omosessuale) passa serpentino. Vi si raccontano le prime esperienze sessuali, sogni erotici di incredibile vividezza, dettagli descritti nudi e crudi. Termini “forti” che Murakami non lesina al lettore ripetendoli con ostinazione, accompagnandovi aggettivi ed avverbi che ne enfatizzano l’intensità.

Murakami Haruki è innanzitutto un fenomeno mediatico prima ancora che letterario. Cameraman di varie reti televisive e giornalisti di testate nazionali sono andati a riprendere ed intervistare i lettori devoti che dalla tarda notte alla prima mattina stavano ordinatamente in fila fuori dalle librerie per acquistare le primissime copie. La famosa libreria di Jimbocho “Sanseido” a Tokyo, per la prima settimana dall’uscita del romanzo, ha mutato il proprio nome in “Libreria Murakami Haruki” omaggiando così lo scrittore.

Egli ha l’indubbio talento di riuscire a creare mondi, a insinuare il dubbio che vi sia una realtà oltre quella da noi quotidianamente percepita, un mondo in cui le regole vigenti siano stravolte o, cosa ancora più destabilizzante, leggermente diseguali. Lo scarto tra esse, la fessura che s’apre tra realtà ed illusione è il luogo prediletto di Murakami Haruki. Negli interstizi di ciò che è spiegabile si insinua l’inspiegabile.

In questo romanzo la dualità del Reale/Altro Reale o Illusione si gioca all’interno dell’individuo, sul suo lato rischiarato dalla luce e quello in ombra. Come le facce della luna, scrive Murakami in una pagina di questo libro. La differenza tra la percezione che si ha di se stessi e quella che gli altri hanno di noi e’ la chiave di lettura dell’incolore Tsukuru che si crede tale ma forse non lo è.

♪ Liszt – Années de pèlerinage. Première année: Suisse, S. 160 [André Laplante]

(fine seconda parte)

Il nuovo romanzo di Murakami Haruki (1/3)

Tazaki Tsukuru. Cognome e nome, nell’ordine che in giapponese mette la famiglia prima della scelta. Suo padre ha destinato a lui queste tre sillabe “tsu-ku-ru” e ne ha fatto un kanji che è proprio quello che significa “costruire, edificare, fabbricare”. 「作」. Un nome che è un presagio.
Tsukuru è affascinato fin da bambino dalle stazioni, sia da quelle delle grandi città che accolgono treni gonfi di gente sia da quelle che collegano piccole località di campagna dove il tempo sfuma pigro tra un transito e un altro. Si siede lì Tsukuru, e resta ore ad osservare il diverso traffico di gente che aspetta, sale, scende e se ne va.

 
  È l’unica cosa che sa fare. Costruire, progettare, risolvere problemi e migliorare quel microcosmo che è la stazione. Tutto il resto sembra sfuggirgli di mano. L’amore, le amicizie, la stessa coscienza di sè.
Ha trentasei anni, è in buona salute, discretamente attraente, è un tipo pulito, non beve e non fuma, ha un lavoro che lo soddisfa, una buona fama nell’ambiente, una casa di proprietà in un bel quartiere di Tokyo. Ciò che ha minato la sua sicurezza e che lo rende l’ombra di se stesso, è un avvenimento accaduto sedici anni prima. Un fatto scioccante che lo ha portato sull’orlo della morte e di cui lui, ancora adesso, non conosce la ragione.

  Negli anni del liceo Tsukuru faceva parte di un gruppo di cinque amici, affiatati ed uniti come capita raramente nella vita. Si erano incontrati ad un campo estivo di volontariato cui, casualmente, avevano aderito solo loro: Tazaki Tsukuru, Akamatsu Kei, Oumi Yoshio, Shirane Yuzuki, Kurono Eri. Tre ragazzi e due ragazze.

I punti in comune tra di loro erano tanti. Erano tutti originari di Nagoya, le loro famiglie erano più o meno benestanti, erano brillanti.
Con il tempo il rapporto tra i cinque si era irrobustito, inspessito, cementificato. Quel circolo privato ed esclusivo divenne per ognuno di loro qualcosa di irrununciabile, una presenza quotidiana che li rendeva l’uno assolutamente indispensabile all’altro. Una sola regola: nessuna relazione sentimentale tra loro.
Finito il liceo solo Tsukuru si allontana da Nagoya per seguire a Tokyo l’università mentre tutti gli altri decidono di restare in città. Gli amici gli mancano ed ogni volta che gli si presenta qualche giorno di vacanza sale sul primo shinkansen e corre a Nagoya per incontrarli.
Fa così anche all’inizio delle vacanze estive del secondo anno di università. Sale con pochi bagagli sullo shinkansen e torna a Nagoya. Appena arrivato chiama come sempre gli amici, uno ad uno, ma chi risponde al telefono – con voce che Tsukuru percepisce crescentemente imbarazzata – gli dice che non sono in casa. Nessuno lo richiama quel giorno, nè il giorno seguente. Prova ad insistere, richiama. Ma, ormai Tsukuru l’ha capito, continuano a farsi negare.
Poi una sera, dopo le otto, arriva una chiamata. È uno di loro che esordisce così:
“Scusa ma vorremmo non chiamassi più a casa nostra”
Silenzio. Imbarazzo. Tsukuru è terrorizzato e perplesso. E quando chiede infine e debolmente il perchè l’amico gli risponde: “Se ci pensi, lo capisci da solo, no?”

Da quel momento, come recita l’incipit del romanzo, Tazaki Tsukuru inizia a vivere pensando ossessivamente alla morte, tocca il limite e dopo sei mesi, per una qualche ragione che gli è ignota, torna a vivere. Riprende peso, ricomincia a mangiare, smette di pensare solo alla propria morte.

Eppure Tsukuru è letteralmente un sopravvissuto, e chi sopravvive perde dell’esistenza la percezione che ha chi, invece, ha avuto la fortuna di essere sempre solo vissuto. Si trascina nei giorni con apatia, torturato dalla sensazione che chiunque entrerà nella sua vita si accorgerà prima o poi di quanto egli sia vuoto e incolore e lo abbandonerà definitivamente e senza prevviso. Terrorizzato a quel pensiero, Tsukuru fatica a imbastire rapporti sociali e amorosi. Avverte costantemente la fine di ogni cosa e sul filo del conscio-inconscio decide di non investire più nei sentimenti.
La sfera onirica insegna a Tsukuru il significato di sentimenti potenti, ingestibili, sentimenti che lui – ferito a morte nell’emotività – non crede neppure d’essere più in grado di poter provare. I sogni, in questo romanzo, sono funzionali al protagonista quanto se non più della vita reale che, scialba, egli conduce suo malgrado.

『色彩を持たない多崎つくると、彼の巡礼の年』 “Colorless Tsukuru Tazaki and His Years of Pilgrimage” ha una copertina piena dei colori che, in modo martellante, vengono fuori nel romanzo a gridare una presenza e soprattutto una mancanza. Incolori sono i giorni ma anche alcuni modi di dire, alcuni visi, alcune persone. Qualcosa a cui manca colore quindi sapore, qualcuno o qualcosa che è monotono, scialbo, vuoto.

I colori in questo nuovo romanzo di Murakami Haruki sono quattro più uno. Principalmente. C’è:
il rosso, Aka (Mister Red) diminutivo di 赤松慶 (Akamatsu Kei);
il blu, Ao (Mister Blu) ovvero 青海悦夫 (Oumi Yoshio);
il bianco, Shiro (Miss White) soprannome di 白根柚木 (Shirane Yuzuki);
il nero, Kuro (Miss Black) diminutivo di 黒埜恵理 (Kurono Eri) .

A parte – e molto dopo – viene il grigio, Hai (Mister Grey) che degli altri quattro non sa e non saprà mai nulla.

Di quel gruppo di amici del liceo, così unico, morboso e irrinunciabile, solo Tazaki Tsukuru non ha il “colore” nel cognome. E così, da un semplice gioco di parole, nasce l’insicurezza. S’allarga, s’ingigantisce. Lui, tagliato fuori per sempre e senza spiegazioni da quel gruppo pieno di tinte, è l’unico senza colore.

L’incolore Tazaki Tsukuru.
Colourless Tsukuru Tazaki.
色彩を持たない多崎つくる.

(fine prima parte recensione)

Parte 2/3
Parte 3/3

♪ リスト/巡礼の年報 第1年「スイス」 4.「泉のほとりで」,S.160/R.10,A159