lingua giapponese

Dei kanji o dell’arte di creare storie

Spesso le cose più belle sono anche le più complicate.
Quello giapponese è un popolo la cui lingua nasce e perdura nel suono, acquista forma adottando disegni che sono scrittura. Accoglie la scrittura cinese ma vi applica sopra la propria lingua, elabora altri due alfabeti sillabici e dall’assemblaggio di questi tre elementi crea qualcosa di nuovo.

Il Giappone, all’inizio di tutta questa avventura, era per me solo una forma grafica, un miscuglio di segni fatti per essere decifrati, un linguaggio segreto come quello dei bambini. Ho sempre amato le cose complicate, mi restituivano il peso del mio valore e del mio impegno, misuravano la resistenza, la mia pazienza.
Che l’obiettivo sia più lontano possibile, mi sono talvolta trovata a pregare, perchè vivo la maledizione di una sorta di svuotamento quando raggiungo gli obiettivi che mi pongo. Come se nella realizzazione si celasse anche la fine delle cose.

Ci sono persone che hanno storie da raccontare, oggetti che suggeriscono viaggi, luoghi che dicono tanto di chi li ha attraversati, amati e lustrati sotto suole di scarpe, sotto zampine.
Così, con lo stesso carico di misteriose connessioni, viaggiano nel mio immaginario i kanji.

  È la parte più complessa della lingua, quella più volatile, quella che non si fa possedere mai del tutto. Come un animale selvatico di fascino e fierezza che non si lasci addomesticare e rimanga a guardare, con occhio vigile ai lati del bosco, i nostri movimenti. Misurando le distanze.

Per apprendere i kanji non basta l’occhio ma serve la mano, il movimento del braccio, l’impugnatura solida delle dita e il movimento che differenzia un carattere dall’altro. Una cosa, questa, che una tastiera non è in grado di fare. Perchè i tasti sono troppo vicini, le dita a pigiare sempre le stesse e l’occhio – sovrastimolato nel quotidiano – del risultato se ne fa poco o niente. Lo accetta ma non lo problematizza e la didattica insegna che è il percorso – quello dello studente che non capisce e quindi ipotizza – a fissare il ricordo. È la strada costruita con fatica a riportare il kanji al suo “proprietario” e non l’inverso. Non basta guardarli. Non sono gioielli da esibire ed ammirare ma cose da usare, con cui aprire barattoli, con cui tagliare frutti. Sono maniglie che aprono porte. Bisogna toccarle.

I kanji devono diventare come quelle melodie provate così tante volte al pianoforte che basta la prima nota – e non più lo spartito – per far scattare la danza sicura delle dita. È innanzitutto automatismo.
È la parte più dura della lingua. Non cede alle preghiere. Tempra e giudica la motivazione di chi studia.

Eppure, a guardar bene, sono solo disegni, collage di elementi presi dal mondo vegetale, minerale ed animale. Da un tempo di uomini e dei che, con tono perentorio, decisero la definizione delle cose, la fecero disegno e infine scrittura. E anche nel sopraggiungere dei secoli serve tornare ancora a quel tempo per capire il perchè di alcuni caratteri, il pensiero che vi sottostava.

Allora non è più solo il Giappone ma anche la Cina e l’antropologia che scava usi e costumi di uno dei tanti popoli che furono.

Così la neve (yuki) è una mano che spazza via la pioggia. La pioggia (ame) che si trova nella nuvola (kumo), nella foschia (kasumi), nella nebbia (kiri), nel tremore etc. etc. E di volta in volta ha ruoli diversi.
La parola esame 試験 (shiken), composta da due caratteri, si rifà all’antica Cina in un periodo in cui gli affari bellici e religiosi erano centrali nella vita del paese. La parola natura 自然 (shizen) racconta della Cina dell’antichità, della carne del cane e degli dei. Spiriti, capre, esecuzioni, elmi, fuochi ed accette.
Amore (ai) è guardarsi indietro ed esitare. Il marito (otto) ha uno spillone conficcato nella chioma. La sera (yoru) ha la luna sotto il tetto. Il nord (kita) sono due uomini che si danno le spalle.

A volte sono storie crudeli, di un’era in cui c’erano meno uomini, meno diritto ma più natura, meno distruzione delle risorse del mondo. In cui c’erano lance, porte di legno, cani e cavalli. Nei kanji spesso periscono uomini e animali, si celebrano gesti rituali rivolti alle divinità, abiti dell’epoca, spiriti maligni, campi di riso, rocce e bandiere svolazzanti nel vento.

La spiegazione della loro origine è spesso controversa e sembra una di quelle storie che hanno ancora e sempre avranno un margine di spazio perchè le si possa rimaneggiare, reinventare.

Insistete, insistete a studiarli. E nel farlo divertitevi, inventate storie, giocate con le assonanze (che son tante) con la nostra lingua, fatene un tic, un passatempo. La matita alla mano e un pezzo di carta da incidere di disegni che vi faranno sentire sempre un po’ speciali perchè nessuno intorno a voi li comprenderà.
Fatene un linguaggio segreto, come nel Club dei 7 o dei 5, un vizio e diletto.

Niente in questa vita è tanto serio da non accettare il gioco e i kanji sono creature ludiche, sono ragazzini che corrono via non appena li perdete d’occhio. Bimbi piccini che hanno bisogno di vedervi spesso per ricordarsi di voi. Per questo ci vuole costanza nello studio dei kanji perchè basta niente che scappino via.   
  Teneteli forte per mano e ogni settimana ritagliatevi uno spicchio d’ora per disegnarne la forma dietro a uno scontrino della spesa, sul bordo di un libro, su un volantino distribuito fuori dall’università.

Imparatele come poesie. Cantatene le letture. Aiuta.

Migliaia di versi che la nostra generazione non è più abituata a maneggiare. Come un Omero dei tempi recenti, diamo ad ogni kanji una forma mentale, facciamone versi, creiamo favole. Ne usciremo con più conoscenza, maggiore memoria e persino più immaginazione.

♪ X JAPAN, Rusty Nail

Fonti (per saperne di piu’)

→ 常用字解 第二版 [単行本] 白川 静 (著)
→ 白川静さんと遊ぶ 漢字百熟語 (PHP新書) 小山 鉄郎

 

Chiedere scusa o della forma (下)

“Il sorriso dei giapponesi è ipocrita. La loro cortesia non è sincera”, sbuffano talvolta gli stranieri liquidando così le basi di una cultura millenaria. Quanta arroganza!, penso. Quanta (non invidiabile) certezza! È il colonialismo dei tempi odierni che benchè si metta in bocca parole come diversità, equità, rispetto etc. nella pratica del sentire continua a ritenere giusto solo ciò che comprende interamente.

E non importa che i giapponesi tra di loro si capiscano perfettamente – che si sappiano persino prevedere senza bisogno di parlare –, l’importante è che si comunichino a noi, nel nostro modo occidentale che è tanto sincero, tanto aperto. E poi si può sempre tirar fuori a mo’ di slogan il discorso sui suicidi – che vien fuori a fagiolo – per denigrare ogni aspetto culturale di un paese che ci è intimamente estraneo.
È giusto tutto questo? L’autenticità, la verità di cui tanto parliamo è davvero la cosa più augurabile al mondo?

Allora ci sarebbe da chiedersi se a un commesso che non si conosce, verso cui non si prova affetto nè mai lo si proverà, si debba richiedere un sorriso cosiddetto sincero (che pertanto elargirà solo se la giornata gli sarà andata bene, se l’amore sarà corrisposto, se le finanze non lo crucceranno più di tanto) o piuttosto invece una cortese e formale performance per il ruolo che egli riveste nel negozio.
Perchè pretendere che quel commesso senta fino alla punta dell’alluce una improvvisa simpatia nei nostri confronti, perchè giudicare la sua cortesia tacciandola di falsità?
Ricordo a Roma un tabaccaio da cui ero ahimè spesso costretta a comprare biglietti della metro. Un uomo sui quarant’anni, sempre arrabbiato e scortese, maltrattava con ferocia i clienti. Eccola l’altra faccia della sincerità!

Personalmente – perchè come sempre solo di me posso parlare – trovo nel lavoro una sana via di fuga da me stessa, nei giorni ammaccati da un qualche dispiacere. Mi contagia la giornata, mi disabitua al cattivo umore perchè colleghi e studenti nulla hanno a che fare con ciò che mi ha creato dispiacere e, presa distanza dal negativo, mi tuffo ad occhi chiusi nel mio ruolo.
Anche nei momenti più bui della mia vita la costrizione al sorriso, mi ha educata alla pazienza. E anche se poi, una volta salutati i miei ragazzi, pronunciato l’otukaresama deshita alle segretarie, fatto l’inchino ai guardiani ai cancelli dell’università, sono riemersi i crucci, vi sono tornata sempre con un po’ meno stanchezza.

 So, perchè l’ho provato negli anni, che quando invece si raggiunge un rapporto profondo – il che per un giapponese richiede un tempo lungamente maggiore rispetto a quello di un occidentale – ci si capisce perfettamente e l’autenticità tanto amata dagli occidentali abita tutti i movimenti.

  Alcuni stranieri arrivano qui, pensano d’aver capito tutto nell’arco di qualche giorno, qualche settimana, qualche mese o qualche anno, e si stupiscono, si arrabbiano, si sentono traditi dai segnali interpretati secondo il proprio sistema culturale e allora gridano alla falsità, all’ipocrisia.
Lo ribadisce con chiarezza Nakagawa Hisayasu in un breve e delizioso “saggio di antropologia reciproca” franco-giapponese, di cui consiglio vivamente la lettura.

La sincerità è un dono ma anche un’imposizione, quella delle proprie opinioni passate così, nude, come un regalo avvolto solo nelle mani. La giustificazione dell’imposizione del proprio sincero comunicarsi.
E allora, dove risiede il giusto comportamento? Quello giapponese o quello occidentale?
Non credo algiusto mezzo che è concetto troppo ferreo per essere veramente giusto. Spesso uno ha ragione e l’altro ha torto e non ci sono comode linee di demarcazione che definiscano il centro perfetto. Ma soprattutto nel parlare di cultura il termine “giustezza” è inapplicabile.
Il giusto mezzo è come una definizione che “ha la forza e la debolezza di non aver mai torto e di non spiegare nulla” (Marc Augé). È giusto per principio ma non dice nulla tranne lo sforzo di far l’equilibrista.

Ci sono culture che giacciono agli antipodi del mondo, gettano ponti che, come direbbe Simmel uniscono e insieme dimostrano la separazione tra le parti. La traduzione è goffa e spesso si perde per strada la cultura. Bisogna accettarne i limiti o tentare di immergervisi fingendo una seconda nascita.  Che porti quindi ad assorbire e a comprendere grazie al solo respirare. Il bilinguismo, insegna la linguistica, è possibile entro una certa età e in determinate condizioni ambientali. Dopo no.

Ma il “biculturalismo”, il “triculturalismo” etc. in questo mondo tanto tendente al globale, all’abbattimento delle frontiere, è possibile, lecito, forse persino necessario.

♪ Joshua Radin, Winter

Chiedere scusa o della forma (上)

Una nevicata con i fiocchi, a milioni, e un vento che li rende insidiosi. Ieri il Sol Levante è stato coperto per una buona parte dalla neve. Le strade adesso sono in molti tratti ghiacciate e sonori capitomboli testimoniano la natura posteriore della neve.
I bambini godono di tutto. Stamattina, andando verso il parco con la Gigia al guinzaglio, una bibetta urlante protestava tra le lacrime il suo diritto a giocare ancora un po’ mentre la madre, con un’altra piccina imbracata sulle spalle, ripeteva ad intervalli e con estrema calma lo stesso trenino di parole: “È tardi. Andiamo”.

Le madri giapponesi non gridano contro i bambini, non li picchiano. Sono tendenzialmente tranquille davanti ai capricci e sanno aspettare. Ripetono inesorabili il comando e attendono che venga rispettato. È pur vero che forse solo un paio di volte da quando abito a Tokyo mi è capitato di imbattermi in un litigio per la strada (e dico un paio giusto per sicurezza dato che ricordo d’aver assistito solo ad uno, tra l’altro assai curioso). Qui si tende ad evitare.

Le parole sono come ferite sulla pelle, scriveva Pasolini. Ma le parole possono essere anche carezze.
I giapponesi chiedono scusa con frequenza, nella stessa misura in cui sanno ringraziare. Domandare perdono, però, ha un significato più complesso di quel che uno straniero potrebbe pensare.
Ci si scusa per ogni disservizio, ci si scusa con prontezza. Quando un treno fa tardi di un solo minuto e l’altoparlante amplifica la voce del capotreno che con quel suo timbro nasale – enunciato così perchè, dicono, renda più comprensibili le parole attraverso il gracchiare del macchinario – recita la formula di scuse e spiega le cause. C’è bisogno di scusarsi così tanto? mi chiedevo all’inizio perplessa, divertita.

Gli stranieri spesso fraintendono, pensano che a ricevere le scuse l’altro stia dichiarando la propria colpevolezza, la propria debolezza e stia invece ribadendo la ragione, la “vittoria” altrui. Eppure il “sumimasen” すみません, il “gomennasai” ごめんなさい, il “moushiwakearimasen” 申し訳ありません di un giapponese comunicano altro e nascondono una forte tempra.

Invero ci si scusa innanzitutto per smorzare i toni. E se qualcuno, con fare aggressivo, inizierà a colpire d’accuse un commesso, un addetto delle ferrovie, un impiegato egli, per prima cosa, chiederà scusa al fine di far sbollire l’altro e riportare il tono della conversazione alla calma. Da lì si partirà alla ricerca del problema e di una sua possibile soluzione.

Così, tutto privato delle spine, il dialogo si farà costruttivo, commestibile il frutto. Il litigio, che i giapponesi rifuggono in modo evidente, non ha come per gli occidentali un valore di catarsi. Il termine “sfogarsi” in questa lingua non trova una sua immediata collocazione, nè lo si può comparare ad alcun altro con la medesima frequenza d’utilizzo. Una di quelle parole che si perdono nel salto tra una lingua e un’altra.

Inoltre, mi spiegava Ryosuke che a volte per smorzare la tensione qualcuno – apparentemente estraneo al confronto – sottolinea le proprie co-responsabilità. Una squadra che perde, due giocatori che si scontrano e il manager che interrompe la diatriba dichiarando il suo “non aver fatto abbastanza”. L’ho visto fare spesso e l’ho trovato efficace.

Quando invece ci si scusa non per smorzare i toni ma per chiedere il perdono dell’altro lo si deve fare in modo netto. Senza i se e senza i ma che mortificano il gesto, sottraendovi il significato e l’intenzione.

La parola verità è agli angoli della bocca dell’occidentale. La parola forma su quelli del giapponese. 
E basta muoversi nel mondo perchè l’occidentale ricerchi la verità nelle azioni dell’interlocutore, autenticità in ciò che lo circonda e, invece, il giapponese vi noti la forma, la bellezza del relazionarsi, la giustezza che il codice di comportamento suggerisce.

(fine prima parte) 上

SAYCET “Daddy Walks Under The Snow”

 

Doki doki, waku waku, soro soro

  Il doki doki e waku waku che ti fa sentire il cuore che s’agita alla sinistra del petto. Sinistra per chi lo possiede, destra per chi ti guarda in viso. Chibi chibi che è poco a poco, come se non si volesse mai finire di gustare. Piccolo e minuto, come i passi dei bimbetti. Paku paku che è aprire e chiudere con insistenza, è la ripetizione. Sono patatine, senbei, qualcosa di croccante che si spezza tra i denti.

  E tutte queste espressioni vanno in coppia, due gemelli che si tengono per mano. Dondolano le braccia e quel suono ripetuto due volte, come il tocco di una mano sul tamburo, è la bellezza del ritmo di una frase.

  L’onomatopea giapponese è la gestualità degli italiani. Racconta dei giapponesi quello che fanno le nostre mani, sempre piene di messaggi e sentimenti. Le varianti del suono della pioggia, di ciò che è morbido e spugnoso, di ciò che fa irritare o rende allegri, del cigolare di una bicicletta o del crescendo della conoscenza. Una gamma infinita di varianti che danno voce a ciò che in altre lingue non ce l’ha, una voce.
La sensazione, la percezione del corpo, la sonorità. E non mi stupisce che questo popolo faccia del disegno uno dei suoi mezzi di comunicazione più potenti, si racconti attraverso linee essenziali, colori e linguaggio che richiama suoni e immediatezza. Me lo disse una volta Miwa, che il disegno per i giapponesi è liberatorio, è un altro modo di parlare, di raccontarsi senza la tensione del verbale.

  È una cultura che fatica a spiegarsi, che gioca il suo equilibrio sul ferreo valore della modestia e che, per questo, sulla scena internazionale spesso appare debole, farraginosa, infantile, ipocrita o persino presuntuosa. Niente di più falso.

  Le parole sono anche giocattoli in bocca a chi le dice. L’onomatopea è proprio questo. Un trenino che viaggia da un lato a un altro della frase, una palla che rimbalza giusto due volte prima del sopraggiungere di un verbo, una bambola che spalanca braccia e gambe.
Così a volte sorrido quando le sento ed esco per un attimo dall’abitudine della lingua che ormai da più di sette anni è la colonna sonora dei miei giorni. Mi accorgo dell’onomatopea ed è come quando ci si guarda intorno al cinema e ci si accorge di essere lì, in quel momento.

  Le parole sono caramelle. Fare goro goro è il dolce far nulla, trascorrere il tempo con piacevole e pigra lentezza, tempo buono, senza spine. È il gatto che porge il ventre all’aria e resta a godersi il sole. Pachi pachi è il battere le mani, il nostro clap clap.

  Ma c’è anche la gestualità giapponese. Molto distante dalla nostra che è così diversificata e ampia, tanto che esistono testi in varie lingue che la illustrano con disegni e didascalie. In Giappone c’è il segno per dire no, dame, o quello per chiedere il conto. Essere arrabbiati è disegnare due corna sulla testa, o la mano tesa come a fendere l’aria serve a farsi strada nella folla. C’è il mignolo teso nel pugno per la fidanzata, il pollice per il ragazzo. L’io è sulla punta del naso, come un clown, e una conoscente italiana mi raccontò una volta che tornando in Italia il nipote la scherniva perchè nell’indicare se stessa si toccava sempre il naso.

  È il batsu (e il dame) che è il vietato e lo sbagliato, il falso del “vero o falso” che, a vederlo, fa tanto “x factor”. C’è la testa che reclina da una parte e così mostra incertezza. Punteggia le mosse dei personaggi dei romanzi. Le mani che si giungono nell’itadakimasu e poi fanno il segno della pace per una forma di captatio benevolentiae che evidenzi la propria tenerezza più che l’estetica bellezza. Ne sono piene le fotografie dei giapponesi. È anche la timidezza che si scioglie, sostenuta com’è da una struttura stabilita, quella delle dita.

  Dan dan, piano piano, scalino per scalino la vita si dipana. E’ la crescita, il tempo necessario per far maturare sentimenti, per fortificare abilità. “Dan dan ne” ripeto ai miei studenti che vorrebbero dire più di quanto sanno fare. E’ il divenire delle cose buone e giuste o anche delle cose che scendono la china, s’incrinano e perdono quota.
Il crescere e il diminuire. Lo yen che si rafforza, l’euro che si indebolisce e poi, invertendo la rotta, prende scale mobili che procedono al contrario.
Soro soro, andiamo. Soro soro e finisce questo scritto. Ed è un attimo e finisce. Perchè soro soro significa qualcosa che si appresta ad accadere, che sia l’inizio o la fine di qualcosa.

♪ Mika, Overrated

Gente che si dà in un’altra lingua

  “Io non ho paura, perchè …non ho … potege…”
E’ una frase piena di pause, quelle dell’incertezza della lingua che non sa, dell’italiano che inciampa nell’inglese e cerca di spiegare il pensiero in giapponese.
Ha i capelli tinti d’un rosso artificiale, porta gli occhiali ed ha i lineamenti che emergono tondeggianti dal quadrato del volto. Un naso importante, labbra grandi e bocca larga. Un’incertezza che avverto e non conosco.
  “Potegere? Perteggere?”
“Perdere?” suggerisco io anticipando per evitare frustrazione. Lo faccio sempre quando uno studente cerca invano di spiegarsi perchè i secondi che passano scavano una voragine tra il pensiero e la parola.
  “No, proteggere” precisa lei che infine si è trovata.
“Io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”

  Capita che nelle prime presentazioni, quando si deve parlare di un sè generale alla classe – chi sono, cosa faccio, cosa mi piace, chi c’è nella mia vita – ci si nasconda un po’ per imbarazzo, un po’ per una forma di modestia tutta giapponese, un po’ perchè non si hanno strumenti sufficienti per raccontarsi. Ma capita anche che durante la jikoshōkai 自己紹介 “la presentazione di sè” ci si sveli, affinchè di lì in poi non vi siano più domande che possano far male.
Forse è per questo che M-san da subito lo dice. Immediatamente dopo il nome.
“Mio figlio è morto dieci anni fa, in un incidente stradale”
E ci tiene a ripetere quella frase. Che non ha più paura, che niente le può più fare male perchè il peggio lei l’ha già provato.
“No, io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”

  E’ una ex insegnante di giapponese delle scuole medie. Ora insegna tennis ai ragazzi come volontaria. Dopo il pensionamento ha iniziato a studiare l’italiano.
Perchè proprio l’italiano?:
chiedo sempre a tutti dato che mi incuriosisce sempre tanto sapere cosa spinge persone così lontane dal mio paese a studiare una lingua che viene parlata quasi esclusivamente in Italia. E del resto è la stessa domanda che loro rivolgono a me circa il giapponese.
E’ perchè ha studiato il francese all’università e la pronuncia le risultò troppo complicata. E allora ha pensato che avrebbe potuto studiare l’italiano. Le piace anche la pronuncia, le piace tanto.
Racconta che suo marito dopo la pensione ha iniziato, invece, a studiare la storia e la filosofia del buddismo. Va ai corsi extracurricolari di una delle tante università che ci sono a Tokyo. Vi si organizzano lezioni nel weekend oppure la sera per i cosiddetti shakaijin, ovvero quelle persone che sono già inserite nella società, e “studiano part-time”. Li ospitano in aule che di giorno vengono affollate invece da quelli che mirano un giorno a diventarlo, shakaijin: giovani studenti spesso pigri e sonnolenti che incontro le mattine di ogni mia settimana.

  Così, nei discorsi di questa coppia che si sta facendo anziana e che deve aver sofferto tanto, si mischiano buddismo ed italiano in un connubio che sarei tanto curiosa di ascoltare.
L’italiano per i giapponesi è terapeutico. Si aprono strade da percorrere anche trafelati, con i bigodini in testa. Perchè nella lingua della pasta e della pizza, dei sorrisi e dei gestacci con le mani, si sentono liberi di reinventarsi.
Le formule indirette proprie del giapponese saltano, come ordigni ormai disinnescati, vengono risucchiate dalla forza, persino dalla violenza della lingua. Perchè in italiano bisogna dire o non si verrà capiti e non è più ovvio, come invece accade in giapponese, che l’altro capisca senza bisogno che si dica.

  Molti giapponesi dall’Italia tornano cambiati, più aggressivi, più diretti, tanto che del corpo fanno un tutt’uno con la mente. Sembra un paradosso ma a volte fatico persino a rapportarmi a loro. Diventano ibridi, nella stessa misura in cui un ibrido sono diventata anch’io, vivendo tanto fuori dall’Italia. I giapponesi che scelgono l’Italia rifiutano per istinto ampie pezze di Giappone. Così, anch’io, benchè intimamente innamorata del mio paese, soffrirei nel dovermi calare nuovamente nella sua realtà sociale, nei meccanismi che regolano il quotidiano del Bellissimo Paese. Sarei pesce senza acqua, lama senza manico, porta senza chiave.

  “Ehy, che stai a fa’?” esordiva un ex studente che parlava così bene l’italiano da rendere innecessarie persino le lezioni. La cadenza romana, il tono alto della voce, l’ironia continua sui giapponesi. Una sorta di piaggeria per accaparrare il mio consenso, per dire “anch’io sono italiano, anch’io la penso come voi”. Ma io ho cambiato idea e non la penso più nè come noi nè come loro. E soprattutto fatico sempre più a individuare un noi e a stabilire un loro. Dico “noi” per dire Italia ma sento assottigliarsi il potere del pronome.

  Così, una donna che si presenta per la prima volta a me e alla classe e dice in italiano che non ha più paura, che niente le può più fare male, mi scatena pensieri e ricordi, il sentimento dell’ibrido e la percezione traballante di un pronome soggetto. Del non essere nè fungo nè cavolfiore, nè rabbia nè passione, nè italiana nè giapponese. Sempre straniera ovunque andrò o ritornerò.
Ma la familiarità, mi dico, è probabilmente una cosa che si crea alla stessa stregua di un tavolo, la cui superficie la si lima con gli strumenti del mestiere, con le mani e infine con l’uso finchè non sarà liscia e piacevole al tatto, le cui gambe vai ad accorciare di un millimetro alla volta per rimetterle al giudizio del pavimento. Un’approssimazione perenne destinata a non incontrare perfezione.
Ripenso poi alla paura che questa donna magra con gli occhi grandi e i capelli rossi mi insegna essere sentimento che si fugge ma che racconta tanto non solo di ciò che manca e si vorrebbe ma soprattutto di ciò che si ha.
  Di tutto quanto – che è spesso tanto – si vuole proteggere.
E rivaluto le mie paure più profonde, testimonianza della vita che amo, delle persone a cui tengo, di tutto ciò che ho.

Ci sono donne intorno a me che perdono figli, che hanno vissuto e mai superato dolori immensi che le hanno risucchiate. E’ gente che si dà in un’altra lingua. E’ gente generosa.

  Chiunque abbia una storia da raccontare la racconti. Il mondo, sono certa, cambierà.

♪ Saycet “Her movie”